Arabia Saudita. Trump per una “Nato sunnita”, per scaricare le missioni e continuare a vendere armi

di C. Alessandro Mauceri –

Prima visita all’estero per il presidente degli USA Donald Trump in Arabia Saudita, difficile e delicata per molti aspetti. Diversi i motivi per cui questa visita potrebbe segnare una svolta decisiva nella presidenza del tycoon.
Lo scorso 17 maggio il Senato Usa ha approvato all’unanimità il Justice Against Sponsors of Terrorism Act, un disegno di legge che consentirebbe ai sopravvissuti ed ai parenti delle vittime dell’11 settembre di citare in giudizio l’Arabia Saudita. L’amministrazione Obama aveva cercato di fermare l’iter della legge affermando che “potrebbe avere conseguenze imprevedibili”. “Il Justice Against Sponsors of Terrorism Act – sidiceva allora – modificherebbe una legge internazionale di lunga data relativa all’immunità sovrana. E il presidente degli Stati Uniti continua ad avere serie preoccupazioni in quanto la legge renderebbe gli Usa vulnerabili in altri sistemi giudiziari nel mondo. Siamo impegnati all’estero più di ogni altro Paese al mondo, soprattutto in operazioni di pace e umanitarie. Intaccare l’immunità significherebbe mettere a rischio gli americani che lavorano all’estero”.
Appena la legge è stata approvata, infatti, le famiglie di 800 delle 3000 vittime degli attacchi dell’11 settembre hanno citato in giudizio l’Arabia Saudita accusandola di complicità negli attentati. La risposta dell’Arabia Saudita non si è fatta attendere. “L’11 settembre 2001 è stato un’operazione esclusivamente americana, progettata ed eseguita all’interno degli Stati Uniti”, è stata la dichiarazione riportata dal quotidiano saudita (con sede a Londra) al-Hayat, e riferita all’esperto legale del governo saudita, Katib al-Shammari. Una dichiarazione che a molti sembrò più un monito che un alibi: il governo saudita avrebbe fatto sapere a Washington che, in caso ci si incamminasse su questa strada, Riyad avrebbe potuto ritirare quasi un miliardo di dollari dalle banche americane.
Affermazioni durissime che avevano preceduto la prima visita all’estero del presidente Trump e proprio in Arabia Saudita. Tanto più che l’Arabia Saudita è uno dei paesi maggiori compratori di armi e armamenti e per gli Stati Uniti, che sono il maggior esportatore di queste “merci”, mantenere buoni rapporti ha un peso economico non indifferente.
Invece, appena giunto nella capitale Riad, Donald Trump è stato accolto con una tanto calorosa quanto inattesa accoglienza da parte delle autorità saudite al completo: ad attenderlo ha trovato perfino l’80enne monarca saudita, re Salman, che reggendosi con un bastone non ha rinunciato ad accompagnare la coppia presidenziale fino alla sala d’onore dell’aeroporto dove i due capi di stato si sono scambiati sorridenti qualche parola prima di salire su una limousine blindata, una sorpresa anche questa dato che generalmente i capi di stato viaggiano su auto diverse.
Un’accoglienza in pompa magna che richiama alla memoria il trattamento piuttosto freddo riservato al suo predecessore solo un anno fa.
La missione istituzionale di Trump è già un successo economico: un responsabile della Casa Bianca ha annunciato oggi che sono stati firmati accordi per la fornitura di armi per la stratosferica somma di 110 miliardi di dollari. “Questo pacchetto di equipaggiamenti per la difesa e servizi è un supporto alla sicurezza a lungo termine dell’Arabia Saudita e della regione del Golfo rispetto alle minacce iraniane”, ha detto.
Ma anche sotto il profilo geopolitico la performance di Trump è stata un successo. Oggetto dei dialoghi anche il progetto di una “Nato araba”, che secondo il presidente degli Stati Uniti dovrebbe servire per guidare la lotta contro il terrorismo e tenere sotto controllo l’Iran, e proprio i rapporti con questo paese erano stati la causa della fredda accoglienza riservata a Obama. Obiettivo è la creazione di una coalizione di paesi, un fronte sunnita che dia vita a una struttura organizzativa simile alla Nato. Un modo astuto per scaricare il peso e la responsabilità delle “missioni di pace” sui paesi dell’area, ma senza rinunciare ai benefici economici derivanti dalla vendita di armi e armamenti.
Una strategia che potrebbe far cambiare idea anche a molti suoi detrattori al di là dell’Oceano, dove oggi l’indice di gradimento del nuovo presidente è ai minimi storici.