Aspetti sulla rivoluzione delle informazioni da un punto di vista strategico

di Giuseppe Gagliano

comunicazioneIl termine “rivoluzione” designa un cambiamento repentino, completo e irreversibile, che implica una distruzione, una (ri)creazione e una rottura. Alla base delle rivoluzioni industriali c’è la tecnica, il cui sviluppo accompagna da sempre la storia dell’uomo, modificando la sua concezione dello spazio e del tempo e determinando cambiamenti organizzativi. Ogni rottura ha un significato politico e ridefinisce le relazioni internazionali, condizionando il futuro.
Invenzioni e innovazioni sono una costante nella storia, ma la rivoluzione non è il risultato di un’evoluzione: è un salto in avanti, quantitativo o qualitativo, che cambia le carte in tavola. Rappresenta perciò una minaccia per chi traeva vantaggi dal sistema preesistente e un’opportunità per le potenze affermate, per quelle emergenti e per quelle che vogliono rimettersi in gioco. Nel turbine della rivoluzione, gli atteggiamenti a favore o contro i cambiamenti in corso spesso impediscono alle parti in causa di avere una chiara visione dei possibili scenari futuri; si conosce l’origine delle trasformazioni, ma se ne ignora la portata complessiva delle conseguenze, come nel caso dell’odierna rivoluzione dell’informazione.
Clausewitz ha illustrato la relazione tra i fini (la politica) e i mezzi (la strategia): se la tattica è il mezzo della strategia, quest’ultima può essere intesa come il fine della tattica, in un quadro in cui la tecnica è a sua volta mezzo della strategia. La relazione tra progetto e produzione dei mezzi non è lineare, perché bisogna tener conto anche delle dinamiche di riassestamento innescate dall’introduzione di nuove tecniche. La volontà politica indirizza talvolta lo sviluppo o l’acquisizione di mezzi, ma attualmente la potenza dei mezzi, ossia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tende a ridimensionare in modo retroattivo i progetti e le strategie in cui esse sono impiegate. La rivoluzione presuppone l’interazione tra livello tecnologico, politico e strategico, e per tutelare i propri interessi è essenziale distinguere ciò che deriva dalla tecnologia (e ha dunque a che fare con il potenziale e l’obiettivo), da ciò che rientra invece nel campo della strategia e soprattutto della politica (livelli, questi ultimi, fortemente influenzati dalle parti in causa). Come notano Alvin e Heidi Toffler, i metodi per creare ricchezza e per fare la guerra sono molto simili in tutte le epoche. Princìpi analoghi si ritrovano sia nella nuova net economy, sia nella rivoluzione militare e più globalmente nella rivoluzione dell’informazione.
Per comprendere gli stravolgimenti prodotti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e stabilire se si tratti o meno di processi rivoluzionari, è utile rifarsi alla storia. Lo studio delle rivoluzioni industriali e di quella nucleare offre una chiave di lettura a tre dimensioni (tecnologica, strategica e politica), ciascuna delle quali è da considerare secondo due criteri: la dimensione tecnologica con i criteri della convergenza e della rottura tecnologiche, da un lato, e della soglia della potenza e dell’effetto di massa, dall’altro; la dimensione strategica con i criteri dei nuovi modi di organizzazione e della modifica dello spazio-tempo; la dimensione politica con i criteri del discorso utopico e del fenomeno di leadership.
Dal Seicento, per effetto della rivoluzione industriale, alcuni Paesi hanno vissuto il cambiamento più profondo dai tempi del neolitico, in quanto per la prima volta sono stati in grado di soddisfare i bisogni della popolazione in aumento, moltiplicando la quantità di prodotti e servizi. Il lavoro quotidiano, la mentalità e la cultura hanno subito di conseguenza una graduale trasformazione. Tenendo conto delle innovazioni tecniche introdotte e del loro effetto sulla società, gli storici distinguono almeno due rivoluzioni industriali. La prima è quella “meccanica” (1759-1860), segnata dall’invenzione della macchina a vapore e dal conseguente sviluppo delle ferrovie. La seconda è quella “scientifica e industriale” (1860-1950), segnata dall’elettricità, dalla chimica organica, dal motore a combustione interna e dalle telecomunicazioni. La terza rivoluzione, ancora in corso, potrebbe essere definita quella dell’informazione (1950-…). La rivoluzione nucleare, invece, andrebbe considerata a parte, contestualizzandone l’origine e il campo di applicazione; ma è comunque legata alle altre poiché contrassegna il raggiungimento finale della potenza e ha un ruolo nella rappresentazione della società globale.
Per analizzare le rotture determinate dalla rivoluzione industriale è importante distinguere gli effetti dalle cause, ovvero i processi all’origine delle nuove tecnologie e le nuove tecnologie in sé. Le prime due rivoluzioni industriali sono caratterizzate da progressi tecnologici senza precedenti. L’invenzione della macchina a vapore porta a una sequela di piccole invenzioni che “convergono” in tutti i campi (agricolo, industriale, militare). Ma si può parlare di rivoluzione? Le rivoluzioni industriali si generano le une dalle altre, con oscillazioni permanenti di adattamento. Nella storia della tecnica esistono, infatti, lenti processi di passaggio da un sistema tecnico all’altro che conoscono un doppio fenomeno di convergenza e di rottura tecnologica: a partire da una certa soglia di convergenza, l’ambiente viene destabilizzato e si può allora parlare di rivoluzione.
Dal punto di vista della tecnologia, questo doppio fenomeno si spiega col carattere cumulativo e instabile del sistema tecnico. L’innovazione tecnologica è il risultato di un processo cumulativo: se manifesta delle rotture, esse operano secondo una logica generale di interdipendenza dei sistemi. La nozione di “fronte tecnologico” designa una zona instabile in cui esistono sezioni di sviluppo le cui escrescenze talvolta esplodono. La comparsa di tecnologie legate al carbone durante la prima rivoluzione industriale fu il prodotto di un lungo processo di apprendistato. Fin dal Quattrocento gli inglesi erano alla ricerca di nuovi mezzi da impiegare in attività artigianali, ma solo l’invenzione della macchina a vapore, nel 1750, combinata con il progresso in ambito metallurgico, permise di rivoluzionare i modi della lavorazione. Per contro, il sottosviluppo è spesso la conseguenza dell’assenza di un tale processo cumulativo: è difficile emergere senza poter contare su una rottura tecnologica o senza una forte volontà politica ed economica, come nel caso del Giappone del periodo Meiji.
Allo stesso tempo, però, la tecnologia è un sistema instabile: conseguenza della messa a punto di nuovi mezzi per soddisfare una determinata necessità, si configura come un movimento verso l’interno di una tensione esterna. Ogni tecnologia è necessariamente imperfetta e dunque soggetta a ulteriori possibilità di sviluppo. Anche in ambito militare, le guerre rivelano spesso difetti d’uso o di adattamento di un nuovo materiale (ad esempio l’Apache dell’aereonautica americana, inutilizzabile in territorio balcanico). Gli effetti delle nuove tecnologie, richiedendo rinnovate competenze e, rendendo obsolete le vecchie, possono essere rivoluzionari e destabilizzanti per il sistema tecnico preesistente e di conseguenza per il sistema sociale e i modi di organizzazione.
Dall’invenzione della ruota al mulino, la storia dell’uomo è sempre stata legata al controllo dell’energia. La rivoluzione industriale è essenzialmente una rivoluzione energetica. La messa a punto della macchina a vapore di Watt tra il 1760 e il 1783 è alla base della meccanizzazione sistematica del lavoro nell’Ottocento. Inoltre, il ricorso al carbone come sostituto del legno ha permesso la moltiplicazione di tali macchine. Nell’Ottocento la diversificazione dei tipi di motore ha accresciuto il mezzo d’azione e il bisogno energetico degli uomini, e reso possibile lo sfruttamento di nuove fonti energetiche, come il petrolio e l’elettricità idraulica. A metà del Novecento è stata introdotta l’energia nucleare, le cui tecniche sono in piena evoluzione: i metalli fissili come l’uranio hanno aumentato la lista delle fonti energetiche primarie e quindi il loro accumulo. Oggi la ricerca si concentra anche sulle cosiddette “nuove energie”, un termine che allude a perfezionamenti di tecniche antiche, soprattutto nel campo dell’energia solare. Carbone, macchina a vapore, motore a esplosione, elettricità ed energia nucleare corrispondono a una capacità di trasformazione maggiore, che garantisce una potenza di lavoro sempre più autonoma, poiché non dipende da quella animale e dalla natura. L’idea di produttività determina peraltro un effetto di massa, in cui ci si chiede come produrre di più con meno energia, o come coprire più spazio possibile in un tempo inferiore. Dal punto di vista militare, il nucleare sembra essere un raggiungimento finale: è l’arma assoluta perché assoluta è la sua potenza e sancisce una rottura nell’evoluzione graduale dell’armamento/equipaggiamento, tale da determinare la necessità di trovare nuove strategie per muoversi in una situazione senza precedenti.
Per rinnovare in modo adeguato la dimensione strategica è necessario tenere presente che se la tecnica è un prodotto della società, la società è a sua volta un prodotto della tecnica. La comprensione delle dinamiche delle rivoluzioni industriali richiede dunque la doppia comprensione delle dinamiche tecnologiche e di quelle sociali e organizzative. Le due rivoluzioni industriali hanno determinato, infatti, anche nuovi modi di organizzazione. Secondo gli storici britannici, la prima rivoluzione si spiega in gran parte con un cambiamento degli schemi di consumo nel periodo precedente e con una nuova gestione del tempo, in particolare nelle campagne: il tempo che si libera ha bisogno di trovare una risposta nel consumo. Nella seconda, lo sviluppo delle ferrovie ha generato il bisogno di spostarsi autonomamente e per rispondere a questa esigenza è stata inventata l’automobile. Ogni pratica culturale genera nuovi bisogni e la domanda sociale si esprime laddove c’è libertà per il consumatore, com’è accaduto nell’Inghilterra del Seicento. In realtà, le rivoluzioni industriali non si succedono ma si accavallano. Se nel 1835 c’era ancora un numero uguale di cavalli vapore e cavalli reali, la meccanizzazione prese il sopravvento poco tempo dopo con la distillazione del carbone, lo sviluppo dell’elettricità e la formazione del grande capitale. La Germania degli anni ‘60 dell’Ottocento era invece caratterizzata dalle grandi industrie, che investivano in modo massiccio, assumendo ricercatori.
L’organizzazione, accelerando e rallentando la dinamica tecnologica, è essenziale nelle rivoluzioni industriali. Il ruolo della scienza è stato decisivo nello sviluppo dell’industria, ma anche nel modificare la fisionomia della guerra (i due ambiti non possono essere separati). Il legame tra scienza e industria è molto stretto, e in contrasto con l’archetipo dello studioso disinteressato simboleggiato da Bernard Palissy, che brucia i mobili per realizzare i suoi esperimenti. Al contrario, la scienza spinge l’industria a sfruttare le sue conquiste fino alle estreme conseguenze, come nel 1945 con i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Come è già stato osservato, l’effetto del nucleare sul pensiero strategico è stato dirompente, perché ha eliminato la nozione stessa di vittoria militare: contrariamente a un’arma tradizionale, il potere del nucleare, infatti, è il suo non utilizzo. Durante la guerra fredda i rapporti di forza sono rimasti bloccati sul continente europeo e i conflitti si sono spostati verso altri teatri di operazione. Oltre ad aumentare i costi, il nucleare ha avuto ripercussioni nell’organizzazione e nell’impiego degli eserciti.
Le due rivoluzioni industriali hanno inoltre cambiato la percezione dello spazio-tempo. La prima iniziò nel Settecento, quando l’utilizzo combinato di ferro e carbone permise di sviluppare macchine per la produzione di massa, che stimolarono la realizzazione di reti ferroviarie e marittime grazie alle quali fu reso possibile un transito ampio e costante di uomini e merci, che accrebbe la domanda sociale e il commercio tra persone distanti o in movimento. La seconda rivoluzione industriale, alla fine dell’Ottocento, è contraddistinta da una serie di innovazioni tecniche, come il motore a combustione interna, l’elettricità e le telecomunicazioni. Nuove reti (stradali, aeree, hertziane) si sovrappongono a quelle della prima rivoluzione, più ramificate e riservate al trasporto dell’energia e delle comunicazioni. Il limite spaziale, freno alla mobilità, si riduce grazie ai nuovi mezzi di trasporto, e in queste mutate condizioni la possibilità di ridurre i tempi condiziona sensibilmente la strategia. Il gioco d’interazioni tra il potenziale delle nuove tecniche e la loro diffusione nella società si traduce in nuove forme di organizzazione nel tempo e nello spazio. Un esempio è il sistema ferroviario, la cui realizzazione ridisegna l’accessibilità degli agglomerati urbani, in una realtà in cui l’orario esatto diventa necessario e il ritmo delle attività umane vi si conforma. Anche l’arma nucleare ha avuto delle ripercussioni importanti sullo spazio-tempo e non sorprende che le teorie sulla società globale siano nate in un’epoca in cui il ricorso all’arma assoluta da parte delle due superpotenze sembrava possibile.
Per valutare in modo corretto la dimensione politica e utopica della rivoluzione industriale, va osservato che essa, pur essendo il risultato di una “rottura tecnologica”, si è realizzata con un processo lento, che solo a posteriori è stato giustificato come fenomeno inevitabile, annuncio del futuro a cui tutti si devono sottomettere per non “marciare contro la storia”. L’idea di “rivoluzione industriale” fu concepita intorno al 1780 ed è dunque posteriore all’avvenimento, mentre la concettualizzazione del fenomeno si ebbe solo alla fine dell’Ottocento. Per A. Toynbee la rivoluzione industriale è una particolarità britannica, ma in Francia ricercatori come A. Guillerme si sono opposti all’idea di un modello di rivoluzione industriale che la Francia avrebbe accettato un secolo dopo. Secondo i critici della visione anglosassone, nel Seicento ci sarebbe stata una rivoluzione francese che, a differenza di quanto avvenne in Inghilterra, fu portata avanti dal settore pubblico e soprattutto dall’esercito. L’Impero britannico aveva interesse a diffondere la rivoluzione industriale secondo il proprio modello, poiché il mimetismo è una forma di dipendenza, e per questo si è largamente appoggiato all’utopia positivista, entrata in crisi dopo la Prima Guerra Mondiale per il ruolo che vi ebbero la scienza e la tecnica. Allo stesso modo, il nucleare si è appoggiato a un discorso utopico sulla fine della guerra, che rischia ora di entrare in crisi al cospetto di nemici fanatici o difficilmente localizzabili.
Inizialmente circoscritte, le rivoluzioni industriali si estendono ad altri Paesi in misura limitata. La prima rivoluzione inglese si diffuse in Francia solo nell’Ottocento e non arriverà mai in altri Paesi europei come la Spagna. I fattori che l’hanno determinata sono numerosi (ristrutturazione delle campagne, sviluppo delle macchine, concentrazione urbana, ecc.) e la loro importanza specifica è oggetto di ricerca. In ogni caso, è importante insistere sulla localizzazione dell’innovazione, che negli anni ‘90 del Novecento ha stimolato la ricerca sugli ambienti innovatori. Durante le rivoluzioni industriali, di fatto, si formano sempre fenomeni di leadership.
Il vantaggio che conferisce la rottura è importante a condizione di saper gestire un’arma a doppio taglio: favorire la diffusione di una rivoluzione-modello e allo stesso tempo conservare una superiorità che consenta di rendere redditizio il fenomeno. La leadership di un Paese è sempre legata alla leadership tecnologica. La prima rivoluzione industriale fu il risultato di un processo all’interno dell’Inghilterra e non di un dominio imperiale, ma in seguito ha alimentato le ambizioni imperialiste di un Occidente diventato più potente rispetto a civiltà, come quella cinese e musulmana, che pure erano all’origine di numerosi progressi. La seconda rivoluzione industriale vide uno spostamento del centro gravitazionale dall’Inghilterra alla Germania e agli Stati Uniti, dove progressi notevoli furono realizzati nel campo della chimica, dell’elettricità e delle telecomunicazioni. La leadership americana si rivelò agli inglesi nell’esposizione di Londra del 1851. Il sorpasso sull’Inghilterra fu stimolato dalla scarsità di manodopera: mentre negli Stati Uniti si diffusero le tecnologie di meccanizzazione, il fordismo, la capacità di gestione, l’Europa rimaneva legata a mezzi tradizionali. Attualmente, la rivoluzione dell’informazione è americana.
Sono importanti alcune considerazioni strategiche centrate sui concetti di massa, mobilità e precisione. In primo luogo, in situazioni di conflitto, allo scopo di realizzare il progetto della politica, la strategia cerca di concentrare mezzi sufficienti su un determinato obiettivo. Per individuare la debolezza dell’avversario e agire con economia, traendo il massimo profitto dai mezzi disponibili propri o altrui, la mobilità è sempre stata fondamentale. Se è perspicace, il più veloce, o chiunque renda il mezzo fisico un ostacolo minore ai suoi spostamenti, ha un vantaggio nel concentrare i mezzi, che può riunire direttamente sulle sue linee di comunicazione o di approvvigionamento nemiche, impedendo all’avversario di ricorrere ai propri mezzi. Le risorse della mobilità, siano esse tecniche o organizzative, sono da sempre oggetto di una ricerca importante. Prima della rivoluzione industriale, esse si presentavano via terra (cavalli, carri e vie pavimentate) e via mare (trireme, vela), il che, dal punto di vista organizzativo, implicava un’azione difensiva che si serviva di fortezze e guarnigioni e del controllo delle vie di comunicazione. Un esempio di mobilità efficace è offerto dall’organizzazione offensiva mongola, che eccelleva in particolare nell’applicazione del principio dell’economia, grazie a una divisione articolata delle proprie forze, fondata su un sistema rapido di informazione e comunicazione.
La mobilità consente di ottenere un vantaggio di peso e massa su un punto giudicato decisivo. Applicando il principio della libertà d’azione, più si è mobili più si possono cogliere al volo le opportunità e far precipitare l’avversario nell’incertezza, costringendolo a reagire alle proprie iniziative. Una variante al principio dell’economia mongola è offerta dal principio di divisione, il cui grande innovatore fu Napoleone. Tale principio approfittava del fatto che dividere le forze per premunirsi contro ogni eventualità rischia di non rendere forti da nessuna parte e, in questo gioco di pieni e vuoti, l’efficacia dell’informazione e delle comunicazioni può dare un vantaggio. Per questa ragione, l’impiego in massa di uomini e mezzi tra Settecento e Ottocento va di pari passo con un mutamento organizzativo condizionato dal principio di divisione napoleonico, che consentiva di sfruttare l’aumento di massa, umana e tecnica (soprattutto artiglieria), senza perdere nulla in mobilità-rapidità. La suddivisione delle forze in sottoinsiemi spartiti su una superficie più vasta era possibile anche grazie a un sistema piramidale di comunicazione dotato di ridondanza, che favoriva la circolazione di informazioni e ordini all’interno delle divisioni e tra il centro decisionale e la periferia. Del resto, il fatto di “vivere nel Paese” permetteva agli eserciti della Rivoluzione e dell’Impero di ridurre la necessità di avere linee di approvvigionamento garantite. Il principio di divisione fu messo in atto su vasta scala generando un effetto a catena. Impadronirsi dell’iniziativa dei movimenti attraverso un sistema informativo efficace può, infatti, far precipitare l’avversario nell’incertezza o almeno in una situazione di “passività” (attesa della mossa altrui). Risolvere con profitto la gestione dell’aumento di masse rendendo possibile, grazie alla mobilità, la concentrazione sull’obiettivo definisce però anche una zona di vulnerabilità, poiché la distruzione del sistema di comunicazione nemico (bersaglio prioritario per Napoleone) gli impedisce di sfruttare i suoi mezzi.
La rivoluzione industriale, a sua volta, ha sviluppato tutto un arsenale tecnologico di trasmissione, raccolta ed elaborazione delle informazioni. La corsa alla potenza è associata dunque a quella per il miglioramento dei sistemi di informazione e comunicazione, fino al C4IR americano (Command, Control, Communication, Computer, Intelligence & Reconnaissance). La corsa alla potenza può essere intesa in ambito sia militare sia industriale come una corsa alla massa e alla concentrazione in vista della decisione o del vantaggio. In questa prospettiva, la messa a punto dell’arma nucleare incarna, grazie alle possibilità attuali della balistica, il termine ultimo nel dominio della massa, concentrando in un solo elemento un effetto completo nel potere di distruzione. Non esiste invece nulla di analogo per i sistemi di informazione e comunicazione, che garantiscono la precisione dei colpi, con azioni chirurgiche, laddove le masse e le forze contano meno di ciò che incarna il loro “sistema nervoso” in termini di informazione e comunicazione.
Dal punto di vista della strategia, i limiti spaziali sono stati pressoché superati, perché ormai quasi tutte le zone del mondo possono essere raggiunte dai sistemi di informazione e dalla precisione balistica. La dimensione decisiva della competizione e del conflitto, meno condizionata dal peso rallentatore dello spazio, è diventata piuttosto quella del tempo. Ad esempio, quando si tratta di identificare la partenza di uno Scud e calcolarne la traiettoria, in modo da poter programmare un Patriot per la distruzione in volo, la decisione è presa in un differenziale di rapidità informatica prima che l’incontro fisico del missile e dell’antimissile abbia luogo nello spazio. Certamente, da quando gli strateghi hanno “strategizzato” la comunicazione, l’informazione, la disinformazione e l’astuzia militare sono per loro delle preoccupazioni maggiori, ma le tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della computazione si sono perfezionate a un livello mai raggiunto prima. Si può quindi parlare di una rivoluzione dell’informazione? Dopo il 1993, la strategia in generale e i sistemi bellici in particolare sono guidati dal concetto americano di Rivoluzione negli Affari Militari, più conosciuto con la sigla R.M.A. (Revolution in Military Affairs). Inizialmente concepita dai sovietici nel 1979, la R.A.M. è il prodotto della convergenza di nuove tecnologie, sviluppo di sistemi militari, innovazioni operative e adattamenti organizzativi. Insieme al progresso della balistica di precisione, l’espansione delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della computazione è alla base di questa rivoluzione, la cui realtà trasforma lo spazio e l’intero pianeta in un marchingegno che è possibile gestire soltanto tramite l’informatica. Con la R.A.M. si entra nell’ambito della precisione. La teoria della paralisi strategica cerca la decisione attraverso l’annichilimento preventivo di ciò che costituisce il sistema nervoso delle forze avverse. L’informazione è fondamentale nella strategia, nell’arte operativa e nella tattica, e il suo sfruttamento intensivo consente di condurre una guerra di effetti (distinta dalla guerra di massa) allo scopo di neutralizzare e rendere vulnerabile l’avversario.
Per chiarire se la rivoluzione dell’informazione, che è l’idea che legittima la R.A.M., può essere considerata una vera rivoluzione è necessario analizzarne la dimensione tecnologica e chiedersi se essa permette di superare una soglia in termini di potenza e di effetto di massa. Il computer assicura una potenza di calcolo che oltrepassa le possibilità del cervello umano (che ne è il modello): in ciò consiste la “rottura”. La rivoluzione dell’informazione è focalizzata sulla velocità garantita da conoscenza, precisione e telepresenza, grazie alla flessibilità dei mezzi. In termini strategici, con uguali capacità di produzione (economia) o di distruzione (difesa), la differenza la fanno l’identificazione e la guida, il differenziale di rapidità tra l’acquisizione di informazioni-conoscenza, la messa in atto della capacità e la paralisi dell’analogo processo opposto. Le teorie della paralisi strategica (Warden, Fadok), della catena O.O.D.A. (John Boyd) o della ricerca del predominio dell’informazione sottolineano questa rottura. In effetti, la rivoluzione dell’informazione è sinonimo di rotture tecnologiche legate alla percezione e alla raccolta di informazioni; al calcolo, all’elaborazione e alla simulazione; alla comunicazione (tempo reale, mobilità, interoperabilità); all’accumulazione e all’immagazzinamento (capacità di memoria e affidabilità dei dati numerici); alla precisione (pre-posizionamento, guida e valutazione).
Per quanto riguarda la dimensione strategica, si deve valutare se questa rivoluzione ha cambiato i modi di organizzazione. A tale proposito è stato osservato che rivoluzionaria non è solo l’invenzione del computer, ma anche la sua diffusione. Infatti la comparsa dell’elaborazione elettronica delle informazioni, la digitalizzazione dei dati e lo sviluppo delle reti interattive sono fenomeni di una rivoluzione che provoca una perdita dell’orientamento, poiché i riferimenti tradizionali non sono più validi. Alle unità di luogo, di tempo e di funzione si oppongono la decentralizzazione dei compiti, la desincronizzazione delle attività e la smaterializzazione degli scambi. Piuttosto che in piramidi gerarchiche di potere o in settori industriali lineari, la nuova società si organizza in reti e cellule interdipendenti all’interno di un “ecosistema informativo”.
La rivoluzione dell’informazione genera quindi un nuovo modo di organizzazione: quello delle reti, ovvero sistemi basati su microprocessori e organizzati in un’architettura client/server, che sono l’espressione di un cambiamento radicale della natura del lavoro. Secondo P. Veltz, ingegnere e sociologo, la visione energetica è superata poiché il lavoro consiste sempre meno nel produrre direttamente ma tende piuttosto a supervisionare, regolare, ottimizzare i processi e i sistemi. Il compito si definisce per il suo obiettivo e non per il suo svolgimento: il lavoro moderno mobilita delle competenze (collettive) per controllare dei flussi di avvenimenti previsti e imprevisti. Con la divisione del lavoro, il problema centrale è quello delle interazioni e della cooperazione dinamica. La comunicazione diventa così la chiave che garantisce l’efficacia produttiva. L’individuo, spiega Veltz, non appartiene più a una catena di produzione ma è connesso orizzontalmente e verticalmente a una rete di cooperazioni dalla struttura variabile. Nell’epoca della produzione di massa, la razionalizzazione della produzione permetteva di trarre profitto dalle economie di scala. L’organizzazione piramidale si appoggia su un sistema di informazioni anch’esso piramidale, concepito per controllare la messa in atto della pianificazione. Ridisegnato sotto forma di rete, il sistema di informazioni si organizza anch’esso secondo una logica reticolare che raccoglie e trasmette. Ebbene non si può non osservare quindi un cambiamento di paradigma, un salto culturale dal pensiero cartesiano, lineare e sequenziale, a un pensiero sistematico, non lineare e multidimensionale.
Sempre nell’ambito della dimensione strategica, ci si deve poi chiedere se la rivoluzione dell’informazione ha comportato una modifica nella percezione dello spazio-tempo. Il processo di globalizzazione è all’opera a un ritmo senza precedenti e la diminuzione dell’importanza dello spazio favorisce il processo di deterritorializzazione. L’espansione del trasporto fisico e l’immediatezza della comunicazione immateriale accelerano i rapporti di interdipendenza. In un contesto globalizzato, agevolato dalla tecnologia, si sono sviluppate in modo considerevole le reti telematiche e la loro capacità di elaborare informazioni, anche in tempo reale. Grazie all’intelligenza artificiale, che ha cambiato il mondo, il valore di un’informazione è legato alla rapidità e all’estensione della rete. Insomma non c’è dubbio che la tecnica ha liberato gli uomini dall’antica problematica della radice e del fondamento, legata a rigide logiche gerarchiche. La realtà non ha una forma definita una volta per sempre, ma è il prodotto della nostra interazione con il mondo e presuppone la presenza e la mediazione delle reti, che ci permettono di integrare uno spazio-tempo cui danno il ritmo. La rete ci abitua all’unità del mondo, unendoci al tempo reale della trasmissione dell’informazione. La modificazione dello spazio-tempo vissuto, causata dalla rivoluzione dell’informazione, alimenta l’idea di globalizzazione.
Infine, analizzando la dimensione politica della rivoluzione dell’informazione, ci si deve interrogare sul suo rapporto con l’utopia, senza la quale la microinformatica non sarebbe probabilmente mai nata, poiché essa non si presenta come il risultato meccanico dell’invenzione del microprocessore, ma è piuttosto un prodotto della cultura libertaria manifestatasi negli anni ‘60, in opposizione all’informatica scientifica degli IBM. Mentre questi ultimi rappresentano la centralizzazione dei sistemi piramidali, la cultura del segreto e dunque la conservazione dell’informazione, la microinformatica simboleggia la decentralizzazione, la libertà d’informazione e dunque la sua condivisione. Nel 1972, sulla rivista radicale People’s Computer Company uscì un articolo in cui si sosteneva che i computer fino a quel momento erano stati utilizzati contro il popolo, invece di renderlo più libero, e che era giunto il tempo di cambiare. Oggi la rivoluzione dell’informazione ha la sua utopia e i suoi guru come Toffler, Negroponte e in Francia de Rosnay, e le tecnologie digitali sono diffuse ovunque, con un modello di utilizzo decentrato, libero e gratuito. Secondo la rivista Wired, il digitale è la rivoluzione più importante dopo la scoperta del fuoco. In questa utopia, la cibercultura rappresenta una forza di mobilitazione, e il mito della comunicazione trasparente e globale una forza manipolatrice. Tuttavia, se nelle rivoluzioni precedenti l’utopia è stata al servizio della legittimazione di atti di forza e colonizzazioni coercitive, nella realtà attuale essa rientra in una logica di potere essenzialmente normativa. Nella realtà contemporanea, la norma e la rete legittimano, infatti, il potere e costituiscono la base dell’autorità,base che consiste
nella possibilità di trasmettere un messaggio da un punto all’altro, elaborando le informazioni all’interno di una struttura reticolare. Il potere attuale gestisce il disordine da lui stesso creato per mezzo di sistemi di comunicazione, norme, strategie scoperte e logiche di dominio occulte, in un contesto sociale aperto e dinamico.
Se la rete è la strategia, la sua efficacia può essere vista come una funzione a due variabili, ossia coesione e potenza. La prima è inversamente proporzionale al numero di membri che costituisce la rete, mentre la seconda acquista importanza quanto più questo numero è elevato. L’utopia della reticolazione, oggetto di controllo ma non di dominio, mira a unificare queste due variabili per creare una rete perfettamente efficace. Gli Stati Uniti, che dettano i ritmi nella rivoluzione dell’informazione, puntano sia sulla coesione (nessun altro protagonista ha il tempo di emergere) sia sulla potenza (nessuno può restare isolato, in una realtà segnata dalle interdipendenze) di una rete globale. Ormai ci sono due mondi: quello dell’“have” e quello dell’“have not”; e una sola tendenza: che l’“have not” diventi “have”. A muovere gli Stati Uniti non sono solo interessi economici, ma anche politici e militari: il mondo sarà sommerso dalla telematica e dalle tecnologie dell’informazione, e la “net economy” troverà abbondanza di sbocchi per innovazioni la cui efficacia gioverà inizialmente agli Stati Uniti. Ancora una volta, gli strumenti alla base della supremazia economica sono gli stessi che garantiscono quella militare, poiché chi domina grazie alla velocità, alla densità spazio-reticolare e alle capacità fisiche, può disporre di un grande vantaggio nel portare a termine operazioni di paralisi strategica.
Oltre all’utopia, è necessario considerare un secondo aspetto che rientra nella dimensione politica della rivoluzione dell’informazione: il fenomeno della leadership. La rivoluzione dell’informazione, effetto e causa della globalizzazione, non è localizzata e limitata come le due precedenti, ma coinvolge, con diverse gradazioni, l’intero pianeta. In virtù della sua estensione globale, la leadership esclusiva degli Stati Uniti non ha precedenti. Gli Stati Uniti (dove un terzo della crescita del PIL è legato allo sviluppo delle nuove tecniche di informazione e di comunicazione) detengono il monopolio assoluto dei microprocessori, i software di utilizzo dei PC, e dominano in modo schiacciante altri settori strategici come le infrastrutture delle reti. Sono inoltre all’avanguardia nel campo della produzione audiovisiva e gli ambiziosi progetti sui satelliti di telefonia (Iridium) o di trasmissione dati (Teledesic) rischiano di destabilizzare il mondo delle telecomunicazioni, dove il ruolo dell’Europa (e della Francia) è ancora di primo piano.
L’esempio americano permette di valutare il rapporto tra leadership e utopia, perché il successo degli Stati Uniti è stato possibile solo in virtù di una mobilitazione congiunta di amministrazione, università, think tanks e soprattutto dello spirito imprenditoriale diffuso nel Paese. La strategia americana ha promosso inoltre la diffusione di numerosi testi sulla rivoluzione dell’informazione e sulla R.A.M., per condizionarne l’interpretazione. All’inizio degli anni ‘70, Z. Brzezinski, una delle menti della R.A.M., scrisse che la diplomazia della cannoniera lasciava il posto alla diplomazia delle reti imposta dalla globalizzazione. Questo tessuto di reti, che Brzezinski definisce “tecnotronica”, combinando il computer, il televisore e le telecomunicazioni avrebbe creato, all’interno di una società globale, nodi di relazioni interdipendenti che finivano per rendere obsoleta la nozione di imperialismo. In seguito, dopo la caduta del muro di Berlino, Brzezinski affermò che la base della potenza americana era in gran parte determinata dalla posizione dominante che aveva nel mercato globale delle comunicazioni, per effetto della forza d’imitazione scatenata nella nuova cultura di massa.
J. Nye e W. Owens, entrambi coinvolti nell’amministrazione Clinton, hanno analizzato le questioni di sicurezza nell’era dell’informazione in un articolo dal titolo eloquente (qualcosa come: “Informazione: gli Stati Uniti sono i leader del progresso”), diffuso nel quadro di una strategia di influenza, grazie al quale si può meglio comprendere l’articolazione del discorso egemonico americano. Si impone un parallelo con l’I.D.S. (Iniziativa di Difesa Strategica), che all’inizio degli anni ‘80 presentava gli Stati Uniti come la patria della ricerca e il sogno di tutti i cervelli del mondo, in chiave anti-sovietica. Il valore dell’iniziativa multidirezionale (rivolta contro nemici e alleati) è l’essenza della strategia americana, finalizzata a preservare un sistema unipolare. Secondo Foucault, dal Settecento in poi, il potere non è più riducibile a un insieme di apparati di repressione ma designa una rete mobile, un gioco di strategie e di atti frammentati che si muovono secondo linee di forza mutevoli. L’idea di micropoteri dispersi e compositi s’impose nell’Ottocento in una società che sognava un’architettura che permettesse di controllare gli uomini. Il “panottico” progettato da Jeremy Bentham (1748-1832), teorico dell’utilitarismo, simboleggia il passaggio da un potere personalizzato (un uomo) a un potere autonomo (una macchina), materializzando così il principio di un potere visibile ma non verificabile. Nel panottico, le celle dei prigionieri sono disposte in un cerchio al cui centro, nascosto da tende, si trova un ispettore: l’ombra del guardiano è sempre visibile, ma non si può sapere chi stia sorvegliando.
Con l’introduzione della macchina il potere, divenuto meccanico, invece di essere oggetto di sguardi, diventa colui che guarda. Il suo esercizio può dunque essere delegato e funzionare automaticamente, secondo un modello applicabile alla rivoluzione dell’informazione e già utilizzato nella comunicazione scientifica. Il potere si afferma occupando lo spazio maggiore nel minor tempo possibile, in modo da mettere fuori gioco gli avversari più lontani e più lenti. Per tenere sotto controllo i partner, gli imperi impongono dall’alto la propria supremazia tecnologica, che agisce come una forza centrifuga, e condizionano dal basso i modi di vita e di consumo, tanto che chi si oppone è additato come barbaro, nemico della civilizzazione.
Gli Stati Uniti, come spiega Nye, coordinano una scacchiera a tre dimensioni: unipolare sul piano militare, tripolare in economia (con l’Europa, il Giappone e in futuro forse con la Cina) e con un terzo livello transpolare che include attori vari e difficili da identificare, come le mafie. Considerando in particolare il punto di vista americano, la rivoluzione attuale deve fare i conti con due illusioni che si sostengono a vicenda: quella tecnologica e quella dell’informazione. Il progresso tecnologico determinato dall’accumulo di conoscenze e di nuove tecniche è esposto all’illusione di essere un processo fine a se stesso, mentre l’illusione nel campo dell’informazione dipende dai cambiamenti dovuti all’introduzione della tecnologia. Per chiarire questa doppia illusione, si deve tener conto del fatto che l’informazione ha dei costi che, nei conflitti moderni, devono essere commisurati al budget limitato degli eserciti. Se la tecnologia non ha dato risultati soddisfacenti, l’illusione tecnologica incoraggia ad accrescere gli investimenti, in modo tale che la guerra dell’informazione rischia di rivelarsi una spesa proibitiva e causare così una disfatta economica. La smaterializzazione e la disumanizzazione dei mezzi della strategia può generare un cortocircuito nel quale il valore del mezzo è sproporzionato rispetto al progetto (fine) che intende realizzare. La corsa al perfezionamento del mezzo tecnologico può insomma far dimenticare che, per schiacciare un insetto, lo schiacciamosche è più efficace e meno dispendioso del napalm .Un altro aspetto da tenere in considerazione è che l’informazione garantisce un potere provvisorio a chi la detiene in modo esclusivo. Le tecnologie consentono di accumulare sempre più informazioni, aumentando il potere provvisorio di chi le domina. I ritmi di produzione, diffusione e utilizzo delle informazioni si accelerano, e più sono sofisticati i mezzi di raccolta ed elaborazione delle informazioni, più aumenta la loro massa e la loro precisione. Diventa dunque indispensabile selezionarle in base alla pertinenza, in base alle proprie necessità di conoscenza e d’azione. La diffusione di informazioni non pertinenti può creare un effetto di disinformazione all’interno della stessa alleanza, che genera perdita di credibilità o diffidenza. La pertinenza è dunque una norma indispensabile, il cui oblio può causare la creazione di alleanze trasversali. La formalizzazione di un’informazione deve inoltre essere legata all’obiettivo perseguito. La tecnologia dà l’illusione che l’informazione esista di per se stessa, ma, come una mappa non va confusa col territorio reale, così le tecnologie dell’informazione possono rivelarsi non pertinenti e far credere che un’informazione immagazzinata non sia orientata in funzione di un obiettivo e si presti quindi a più utilizzi (questo pericolo è dovuto soprattutto alla necessità di rapidità e dunque di pre-formattazione). Ogni formattazione richiede invece del tempo, perché bisogna considerare l’orientamento, l’osservazione, la decisione e l’azione, tenendo presente l’equilibrio della coppia fine-mezzi (politica-strategia). Non va poi dimenticato che le informazioni decisive sono spesso oggetto di scambio e il loro valore non è noto finché lo scambio non è concluso
Una fede cieca nelle tecnologie dell’informazione porta a ridimensionare l’importanza delle reti di informazione umane, ma le informazioni “lanciate” e “catturate” nell’etere devono comunque essere vagliate con cura, perché la loro affidabilità non dipende esclusivamente dall’affidabilità della fonte, che è tecnologica e dunque impersonale. Infine, è necessario sottolineare l’importanza del contesto in cui si inseriscono le singole informazioni. Le tecnologie dell’informazione sono programmate, ma non sono intelligenti: offrono un’enorme massa di dati, raccolti ed elaborati in vista di un obiettivo, ma non posso sostituire il giudizio umano nel valutarne fino in fondo il senso (non possono, ad esempio, considerare il lato simbolico di manovre essenzialmente politiche). In un universo tecnologicamente determinato, anche l’intelligenza dell’osservatore umano è determinata.

Nella loro analisi Pierre-Marie Fayard e Nicolas Moinet individuano alcune regole, semplici nei principi ma complesse nella loro attuazione, che consentono di andare oltre i luoghi comuni diffusi sulla rivoluzione dell’informazione e definiscono delle linee guida per compiere scelte politiche e stabilire una strategia. Il termine “rivoluzione” designa un cambiamento repentino, completo e irreversibile, che implica una distruzione, una (ri)creazione e una rottura. Alla base delle rivoluzioni industriali c’è la tecnica, il cui sviluppo accompagna da sempre la storia dell’uomo, modificando la sua concezione dello spazio e del tempo e determinando cambiamenti organizzativi. Ogni rottura ha un significato politico e ridefinisce le relazioni internazionali, condizionando il futuro.
Invenzioni e innovazioni sono una costante nella storia, ma la rivoluzione non è il risultato di un’evoluzione: è un salto in avanti, quantitativo o qualitativo, che cambia le carte in tavola. Rappresenta perciò una minaccia per chi traeva vantaggi dal sistema preesistente e un’opportunità per le potenze affermate, per quelle emergenti e per quelle che vogliono rimettersi in gioco. Nel turbine della rivoluzione, gli atteggiamenti a favore o contro i cambiamenti in corso spesso impediscono alle parti in causa di avere una chiara visione dei possibili scenari futuri; si conosce l’origine delle trasformazioni, ma se ne ignora la portata complessiva delle conseguenze, come nel caso dell’odierna rivoluzione dell’informazione.
Clausewitz ha illustrato la relazione tra i fini (la politica) e i mezzi (la strategia): se la tattica è il mezzo della strategia, quest’ultima può essere intesa come il fine della tattica, in un quadro in cui la tecnica è a sua volta mezzo della strategia. La relazione tra progetto e produzione dei mezzi non è lineare, perché bisogna tener conto anche delle dinamiche di riassestamento innescate dall’introduzione di nuove tecniche. La volontà politica indirizza talvolta lo sviluppo o l’acquisizione di mezzi, ma attualmente la potenza dei mezzi, ossia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tende a ridimensionare in modo retroattivo i progetti e le strategie in cui esse sono impiegate. La rivoluzione presuppone l’interazione tra livello tecnologico, politico e strategico, e per tutelare i propri interessi è essenziale distinguere ciò che deriva dalla tecnologia (e ha dunque a che fare con il potenziale e l’obiettivo), da ciò che rientra invece nel campo della strategia e soprattutto della politica (livelli, questi ultimi, fortemente influenzati dalle parti in causa). Come notano Alvin e Heidi Toffler, i metodi per creare ricchezza e per fare la guerra sono molto simili in tutte le epoche. Princìpi analoghi si ritrovano sia nella nuova net economy, sia nella rivoluzione militare e più globalmente nella rivoluzione dell’informazione.
Per comprendere gli stravolgimenti prodotti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e stabilire se si tratti o meno di processi rivoluzionari, è utile rifarsi alla storia. Lo studio delle rivoluzioni industriali e di quella nucleare offre una chiave di lettura a tre dimensioni (tecnologica, strategica e politica), ciascuna delle quali è da considerare secondo due criteri: la dimensione tecnologica con i criteri della convergenza e della rottura tecnologiche, da un lato, e della soglia della potenza e dell’effetto di massa, dall’altro; la dimensione strategica con i criteri dei nuovi modi di organizzazione e della modifica dello spazio-tempo; la dimensione politica con i criteri del discorso utopico e del fenomeno di leadership.
J.-P. Rioux osserva che dal Seicento, per effetto della rivoluzione industriale, alcuni Paesi hanno vissuto il cambiamento più profondo dai tempi del neolitico, in quanto per la prima volta sono stati in grado di soddisfare i bisogni della popolazione in aumento, moltiplicando la quantità di prodotti e servizi. Il lavoro quotidiano, la mentalità e la cultura hanno subito di conseguenza una graduale trasformazione. Tenendo conto delle innovazioni tecniche introdotte e del loro effetto sulla società, gli storici distinguono almeno due rivoluzioni industriali. La prima è quella “meccanica” (1759-1860), segnata dall’invenzione della macchina a vapore e dal conseguente sviluppo delle ferrovie. La seconda è quella “scientifica e industriale” (1860-1950), segnata dall’elettricità, dalla chimica organica, dal motore a combustione interna e dalle telecomunicazioni. La terza rivoluzione, ancora in corso, potrebbe essere definita quella dell’informazione (1950-…). La rivoluzione nucleare, invece, andrebbe considerata a parte, contestualizzandone l’origine e il campo di applicazione; ma è comunque legata alle altre poiché contrassegna il raggiungimento finale della potenza e ha un ruolo nella rappresentazione della società globale.
Per analizzare le rotture determinate dalla rivoluzione industriale è importante distinguere gli effetti dalle cause, ovvero i processi all’origine delle nuove tecnologie e le nuove tecnologie in sé. Le prime due rivoluzioni industriali sono caratterizzate da progressi tecnologici senza precedenti. L’invenzione della macchina a vapore porta a una sequela di piccole invenzioni che “convergono” in tutti i campi (agricolo, industriale, militare). Ma si può parlare di rivoluzione? Secondo F. Caron le rivoluzioni industriali si generano le une dalle altre, con oscillazioni permanenti di adattamento. Nella storia della tecnica esistono, infatti, lenti processi di passaggio da un sistema tecnico all’altro che conoscono un doppio fenomeno di convergenza e di rottura tecnologica: a partire da una certa soglia di convergenza, l’ambiente viene destabilizzato e si può allora parlare di rivoluzione.
Dal punto di vista della tecnologia, questo doppio fenomeno si spiega col carattere cumulativo e instabile del sistema tecnico. L’innovazione tecnologica è il risultato di un processo cumulativo: se manifesta delle rotture, esse operano secondo una logica generale di interdipendenza dei sistemi. La nozione di “fronte tecnologico” designa una zona instabile in cui esistono sezioni di sviluppo le cui escrescenze talvolta esplodono. La comparsa di tecnologie legate al carbone durante la prima rivoluzione industriale fu il prodotto di un lungo processo di apprendistato. Fin dal Quattrocento gli inglesi erano alla ricerca di nuovi mezzi da impiegare in attività artigianali, ma solo l’invenzione della macchina a vapore, nel 1750, combinata con il progresso in ambito metallurgico, permise di rivoluzionare i modi della lavorazione. Per contro, il sottosviluppo è spesso la conseguenza dell’assenza di un tale processo cumulativo: è difficile emergere senza poter contare su una rottura tecnologica o senza una forte volontà politica ed economica, come nel caso del Giappone del periodo Meiji.
Allo stesso tempo, però, la tecnologia è un sistema instabile: conseguenza della messa a punto di nuovi mezzi per soddisfare una determinata necessità, si configura come un movimento verso l’interno di una tensione esterna. Ogni tecnologia è necessariamente imperfetta e dunque soggetta a ulteriori possibilità di sviluppo. Anche in ambito militare, le guerre rivelano spesso difetti d’uso o di adattamento di un nuovo materiale (ad esempio l’Apache dell’aereonautica americana, inutilizzabile in territorio balcanico). Gli effetti delle nuove tecnologie, richiedendo rinnovate competenze e, rendendo obsolete le vecchie, possono essere rivoluzionari e destabilizzanti per il sistema tecnico preesistente e di conseguenza per il sistema sociale e i modi di organizzazione.
Dall’invenzione della ruota al mulino, la storia dell’uomo è sempre stata legata al controllo dell’energia. La rivoluzione industriale è essenzialmente una rivoluzione energetica. La messa a punto della macchina a vapore di Watt tra il 1760 e il 1783 è alla base della meccanizzazione sistematica del lavoro nell’Ottocento. Inoltre, il ricorso al carbone come sostituto del legno ha permesso la moltiplicazione di tali macchine. Nell’Ottocento la diversificazione dei tipi di motore ha accresciuto il mezzo d’azione e il bisogno energetico degli uomini, e reso possibile lo sfruttamento di nuove fonti energetiche, come il petrolio e l’elettricità idraulica. A metà del Novecento è stata introdotta l’energia nucleare, le cui tecniche sono in piena evoluzione: i metalli fissili come l’uranio hanno aumentato la lista delle fonti energetiche primarie e quindi il loro accumulo. Oggi la ricerca si concentra anche sulle cosiddette “nuove energie”, un termine che allude a perfezionamenti di tecniche antiche, soprattutto nel campo dell’energia solare. Carbone, macchina a vapore, motore a esplosione, elettricità ed energia nucleare corrispondono a una capacità di trasformazione maggiore, che garantisce una potenza di lavoro sempre più autonoma, poiché non dipende da quella animale e dalla natura. L’idea di produttività determina peraltro un effetto di massa, in cui ci si chiede come produrre di più con meno energia, o come coprire più spazio possibile in un tempo inferiore. Dal punto di vista militare, il nucleare sembra essere un raggiungimento finale: è l’arma assoluta perché assoluta è la sua potenza e sancisce una rottura nell’evoluzione graduale dell’armamento/equipaggiamento, tale da determinare la necessità di trovare nuove strategie per muoversi in una situazione senza precedenti.
Per rinnovare in modo adeguato la dimensione strategica è necessario tenere presente che se la tecnica è un prodotto della società, la società è a sua volta un prodotto della tecnica. La comprensione delle dinamiche delle rivoluzioni industriali richiede dunque la doppia comprensione delle dinamiche tecnologiche e di quelle sociali e organizzative. Le due rivoluzioni industriali hanno determinato, infatti, anche nuovi modi di organizzazione. Secondo gli storici britannici, la prima rivoluzione si spiega in gran parte con un cambiamento degli schemi di consumo nel periodo precedente e con una nuova gestione del tempo, in particolare nelle campagne: il tempo che si libera ha bisogno di trovare una risposta nel consumo. Per F. Caron, le due rivoluzioni industriali sono fenomeni simili dal punto di vista epistemologico. Nella seconda, lo sviluppo delle ferrovie ha generato il bisogno di spostarsi autonomamente e per rispondere a questa esigenza è stata inventata l’automobile. Ogni pratica culturale genera nuovi bisogni e la domanda sociale si esprime laddove c’è libertà per il consumatore, com’è accaduto nell’Inghilterra del Seicento. In realtà, le rivoluzioni industriali non si succedono ma si accavallano. Se nel 1835 c’era ancora un numero uguale di cavalli vapore e cavalli reali, la meccanizzazione prese il sopravvento poco tempo dopo con la distillazione del carbone, lo sviluppo dell’elettricità e la formazione del grande capitale. La Germania degli anni ‘60 dell’Ottocento era invece caratterizzata dalle grandi industrie, che investivano in modo massiccio, assumendo ricercatori.
L’organizzazione, accelerando e rallentando la dinamica tecnologica, è essenziale nelle rivoluzioni industriali. Il ruolo della scienza è stato decisivo nello sviluppo dell’industria, ma anche nel modificare la fisionomia della guerra (i due ambiti non possono essere separati). Il legame tra scienza e industria è molto stretto, e in contrasto con l’archetipo dello studioso disinteressato simboleggiato da Bernard Palissy, che brucia i mobili per realizzare i suoi esperimenti. Al contrario, la scienza spinge l’industria a sfruttare le sue conquiste fino alle estreme conseguenze, come nel 1945 con i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Come è già stato osservato, l’effetto del nucleare sul pensiero strategico è stato dirompente, perché ha eliminato la nozione stessa di vittoria militare: contrariamente a un’arma tradizionale, il potere del nucleare, infatti, è il suo non utilizzo. Durante la guerra fredda i rapporti di forza sono rimasti bloccati sul continente europeo e i conflitti si sono spostati verso altri teatri di operazione. Oltre ad aumentare i costi, il nucleare ha avuto ripercussioni nell’organizzazione e nell’impiego degli eserciti.
Le due rivoluzioni industriali hanno inoltre cambiato la percezione dello spazio-tempo. La prima iniziò nel Settecento, quando l’utilizzo combinato di ferro e carbone permise di sviluppare macchine per la produzione di massa, che stimolarono la realizzazione di reti ferroviarie e marittime grazie alle quali fu reso possibile un transito ampio e costante di uomini e merci, che accrebbe la domanda sociale e il commercio tra persone distanti o in movimento. La seconda rivoluzione industriale, alla fine dell’Ottocento, è contraddistinta da una serie di innovazioni tecniche, come il motore a combustione interna, l’elettricità e le telecomunicazioni. Nuove reti (stradali, aeree, hertziane) si sovrappongono a quelle della prima rivoluzione, più ramificate e riservate al trasporto dell’energia e delle comunicazioni. Il limite spaziale, freno alla mobilità, si riduce grazie ai nuovi mezzi di trasporto, e in queste mutate condizioni la possibilità di ridurre i tempi condiziona sensibilmente la strategia. Il gioco d’interazioni tra il potenziale delle nuove tecniche e la loro diffusione nella società si traduce in nuove forme di organizzazione nel tempo e nello spazio. Un esempio è il sistema ferroviario, la cui realizzazione ridisegna l’accessibilità degli agglomerati urbani, in una realtà in cui l’orario esatto diventa necessario e il ritmo delle attività umane vi si conforma. Anche l’arma nucleare ha avuto delle ripercussioni importanti sullo spazio-tempo e non sorprende che le teorie sulla società globale siano nate in un’epoca in cui il ricorso all’arma assoluta da parte delle due superpotenze sembrava possibile.
Per valutare in modo corretto la dimensione politica e utopica della rivoluzione industriale, va osservato che essa, pur essendo il risultato di una “rottura tecnologica”, si è realizzata con un processo lento, che solo a posteriori è stato giustificato come fenomeno inevitabile, annuncio del futuro a cui tutti si devono sottomettere per non “marciare contro la storia”. L’idea di “rivoluzione industriale” fu concepita intorno al 1780 ed è dunque posteriore all’avvenimento, mentre la concettualizzazione del fenomeno si ebbe solo alla fine dell’Ottocento. Per A. Toynbee la rivoluzione industriale è una particolarità britannica, ma in Francia ricercatori come A. Guillerme si sono opposti all’idea di un modello di rivoluzione industriale che la Francia avrebbe accettato un secolo dopo. Secondo i critici della visione anglosassone, nel Seicento ci sarebbe stata una rivoluzione francese che, a differenza di quanto avvenne in Inghilterra, fu portata avanti dal settore pubblico e soprattutto dall’esercito. L’Impero britannico aveva interesse a diffondere la rivoluzione industriale secondo il proprio modello, poiché il mimetismo è una forma di dipendenza, e per questo si è largamente appoggiato all’utopia positivista, entrata in crisi dopo la Prima Guerra Mondiale per il ruolo che vi ebbero la scienza e la tecnica. Allo stesso modo, il nucleare si è appoggiato a un discorso utopico sulla fine della guerra, che rischia ora di entrare in crisi al cospetto di nemici fanatici o difficilmente localizzabili.
Inizialmente circoscritte, le rivoluzioni industriali si estendono ad altri Paesi in misura limitata. La prima rivoluzione inglese si diffuse in Francia solo nell’Ottocento e non arriverà mai in altri Paesi europei come la Spagna. I fattori che l’hanno determinata sono numerosi (ristrutturazione delle campagne, sviluppo delle macchine, concentrazione urbana, ecc.) e la loro importanza specifica è oggetto di ricerca. In ogni caso, è importante insistere sulla localizzazione dell’innovazione, che negli anni ‘90 del Novecento ha stimolato la ricerca sugli ambienti innovatori. Durante le rivoluzioni industriali, di fatto, si formano sempre fenomeni di leadership.
Il vantaggio che conferisce la rottura è importante a condizione di saper gestire un’arma a doppio taglio: favorire la diffusione di una rivoluzione-modello e allo stesso tempo conservare una superiorità che consenta di rendere redditizio il fenomeno. La leadership di un Paese è sempre legata alla leadership tecnologica. La prima rivoluzione industriale fu il risultato di un processo all’interno dell’Inghilterra e non di un dominio imperiale, ma in seguito ha alimentato le ambizioni imperialiste di un Occidente diventato più potente rispetto a civiltà, come quella cinese e musulmana, che pure erano all’origine di numerosi progressi. La seconda rivoluzione industriale vide uno spostamento del centro gravitazionale dall’Inghilterra alla Germania e agli Stati Uniti, dove progressi notevoli furono realizzati nel campo della chimica, dell’elettricità e delle telecomunicazioni. La leadership americana si rivelò agli inglesi nell’esposizione di Londra del 1851. Il sorpasso sull’Inghilterra fu stimolato dalla scarsità di manodopera: mentre negli Stati Uniti si diffusero le tecnologie di meccanizzazione, il fordismo, la capacità di gestione, l’Europa rimaneva legata a mezzi tradizionali. Attualmente, la rivoluzione dell’informazione è americana.
Sono importanti alcune considerazioni strategiche centrate sui concetti di massa, mobilità e precisione. In primo luogo, in situazioni di conflitto, allo scopo di realizzare il progetto della politica, la strategia cerca di concentrare mezzi sufficienti su un determinato obiettivo. Per individuare la debolezza dell’avversario e agire con economia, traendo il massimo profitto dai mezzi disponibili propri o altrui, la mobilità è sempre stata fondamentale. Se è perspicace, il più veloce, o chiunque renda il mezzo fisico un ostacolo minore ai suoi spostamenti, ha un vantaggio nel concentrare i mezzi, che può riunire direttamente sulle sue linee di comunicazione o di approvvigionamento nemiche, impedendo all’avversario di ricorrere ai propri mezzi. Le risorse della mobilità, siano esse tecniche o organizzative, sono da sempre oggetto di una ricerca importante. Prima della rivoluzione industriale, esse si presentavano via terra (cavalli, carri e vie pavimentate) e via mare (trireme, vela), il che, dal punto di vista organizzativo, implicava un’azione difensiva che si serviva di fortezze e guarnigioni e del controllo delle vie di comunicazione. Un esempio di mobilità efficace è offerto dall’organizzazione offensiva mongola, che eccelleva in particolare nell’applicazione del principio dell’economia, grazie a una divisione articolata delle proprie forze, fondata su un sistema rapido di informazione e comunicazione.
La mobilità consente di ottenere un vantaggio di peso e massa su un punto giudicato decisivo. Applicando il principio della libertà d’azione, più si è mobili più si possono cogliere al volo le opportunità e far precipitare l’avversario nell’incertezza, costringendolo a reagire alle proprie iniziative. Una variante al principio dell’economia mongola è offerta dal principio di divisione, il cui grande innovatore fu Napoleone. Tale principio approfittava del fatto che dividere le forze per premunirsi contro ogni eventualità rischia di non rendere forti da nessuna parte e, in questo gioco di pieni e vuoti, l’efficacia dell’informazione e delle comunicazioni può dare un vantaggio. Per questa ragione, l’impiego in massa di uomini e mezzi tra Settecento e Ottocento va di pari passo con un mutamento organizzativo condizionato dal principio di divisione napoleonico, che consentiva di sfruttare l’aumento di massa, umana e tecnica (soprattutto artiglieria), senza perdere nulla in mobilità-rapidità. La suddivisione delle forze in sottoinsiemi spartiti su una superficie più vasta era possibile anche grazie a un sistema piramidale di comunicazione dotato di ridondanza, che favoriva la circolazione di informazioni e ordini all’interno delle divisioni e tra il centro decisionale e la periferia. Del resto, il fatto di “vivere nel Paese” permetteva agli eserciti della Rivoluzione e dell’Impero di ridurre la necessità di avere linee di approvvigionamento garantite. Il principio di divisione fu messo in atto su vasta scala generando un effetto a catena. Impadronirsi dell’iniziativa dei movimenti attraverso un sistema informativo efficace può, infatti, far precipitare l’avversario nell’incertezza o almeno in una situazione di “passività” (attesa della mossa altrui). Risolvere con profitto la gestione dell’aumento di masse rendendo possibile, grazie alla mobilità, la concentrazione sull’obiettivo definisce però anche una zona di vulnerabilità, poiché la distruzione del sistema di comunicazione nemico (bersaglio prioritario per Napoleone) gli impedisce di sfruttare i suoi mezzi.
La rivoluzione industriale, a sua volta, ha sviluppato tutto un arsenale tecnologico di trasmissione, raccolta ed elaborazione delle informazioni. La corsa alla potenza è associata dunque a quella per il miglioramento dei sistemi di informazione e comunicazione, fino al C4IR americano (Command, Control, Communication, Computer, Intelligence & Reconnaissance). La corsa alla potenza può essere intesa in ambito sia militare sia industriale come una corsa alla massa e alla concentrazione in vista della decisione o del vantaggio. In questa prospettiva, la messa a punto dell’arma nucleare incarna, grazie alle possibilità attuali della balistica, il termine ultimo nel dominio della massa, concentrando in un solo elemento un effetto completo nel potere di distruzione. Non esiste invece nulla di analogo per i sistemi di informazione e comunicazione, che garantiscono la precisione dei colpi, con azioni chirurgiche, laddove le masse e le forze contano meno di ciò che incarna il loro “sistema nervoso” in termini di informazione e comunicazione.
Dal punto di vista della strategia, i limiti spaziali sono stati pressoché superati, perché ormai quasi tutte le zone del mondo possono essere raggiunte dai sistemi di informazione e dalla precisione balistica. La dimensione decisiva della competizione e del conflitto, meno condizionata dal peso rallentatore dello spazio, è diventata piuttosto quella del tempo. Ad esempio, quando si tratta di identificare la partenza di uno Scud e calcolarne la traiettoria, in modo da poter programmare un Patriot per la distruzione in volo, la decisione è presa in un differenziale di rapidità informatica prima che l’incontro fisico del missile e dell’antimissile abbia luogo nello spazio. Certamente, da quando gli strateghi hanno “strategizzato” la comunicazione, l’informazione, la disinformazione e l’astuzia militare sono per loro delle preoccupazioni maggiori, ma le tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della computazione si sono perfezionate a un livello mai raggiunto prima. Si può quindi parlare di una rivoluzione dell’informazione? Dopo il 1993, la strategia in generale e i sistemi bellici in particolare sono guidati dal concetto americano di Rivoluzione negli Affari Militari, più conosciuto con la sigla R.M.A. (Revolution in Military Affairs). Inizialmente concepita dai sovietici nel 1979, la R.A.M. è il prodotto della convergenza di nuove tecnologie, sviluppo di sistemi militari, innovazioni operative e adattamenti organizzativi. Insieme al progresso della balistica di precisione, l’espansione delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della computazione è alla base di questa rivoluzione, la cui realtà trasforma lo spazio e l’intero pianeta in un marchingegno che è possibile gestire soltanto tramite l’informatica. Con la R.A.M. si entra nell’ambito della precisione. La teoria della paralisi strategica cerca la decisione attraverso l’annichilimento preventivo di ciò che costituisce il sistema nervoso delle forze avverse. L’informazione è fondamentale nella strategia, nell’arte operativa e nella tattica, e il suo sfruttamento intensivo consente di condurre una guerra di effetti (distinta dalla guerra di massa) allo scopo di neutralizzare e rendere vulnerabile l’avversario.
Per chiarire se la rivoluzione dell’informazione, che è l’idea che legittima la R.A.M., può essere considerata una vera rivoluzione è necessario analizzarne la dimensione tecnologica e chiedersi se essa permette di superare una soglia in termini di potenza e di effetto di massa. Il computer assicura una potenza di calcolo che oltrepassa le possibilità del cervello umano (che ne è il modello): in ciò consiste la “rottura”. La rivoluzione dell’informazione è focalizzata sulla velocità garantita da conoscenza, precisione e telepresenza, grazie alla flessibilità dei mezzi. In termini strategici, con uguali capacità di produzione (economia) o di distruzione (difesa), la differenza la fanno l’identificazione e la guida, il differenziale di rapidità tra l’acquisizione di informazioni-conoscenza, la messa in atto della capacità e la paralisi dell’analogo processo opposto. Le teorie della paralisi strategica (Warden, Fadok), della catena O.O.D.A. (John Boyd) o della ricerca del predominio dell’informazione sottolineano questa rottura. In effetti, la rivoluzione dell’informazione è sinonimo di rotture tecnologiche legate alla percezione e alla raccolta di informazioni; al calcolo, all’elaborazione e alla simulazione; alla comunicazione (tempo reale, mobilità, interoperabilità); all’accumulazione e all’immagazzinamento (capacità di memoria e affidabilità dei dati numerici); alla precisione (pre-posizionamento, guida e valutazione).
Per quanto riguarda la dimensione strategica, si deve valutare se questa rivoluzione ha cambiato i modi di organizzazione. A tale proposito è stato osservato che rivoluzionaria non è solo l’invenzione del computer, ma anche la sua diffusione. Secondo Joel de Rosnay, la comparsa dell’elaborazione elettronica delle informazioni, la digitalizzazione dei dati e lo sviluppo delle reti interattive sono fenomeni di una rivoluzione che provoca una perdita dell’orientamento, poiché i riferimenti tradizionali non sono più validi. Alle unità di luogo, di tempo e di funzione si oppongono la decentralizzazione dei compiti, la desincronizzazione delle attività e la smaterializzazione degli scambi. Piuttosto che in piramidi gerarchiche di potere o in settori industriali lineari, la nuova società si organizza in reti e cellule interdipendenti all’interno di un “ecosistema informativo”.
La rivoluzione dell’informazione genera quindi un nuovo modo di organizzazione: quello delle reti, ovvero sistemi basati su microprocessori e organizzati in un’architettura client/server, che sono l’espressione di un cambiamento radicale della natura del lavoro. Secondo P. Veltz, ingegnere e sociologo, la visione energetica è superata poiché il lavoro consiste sempre meno nel produrre direttamente ma tende piuttosto a supervisionare, regolare, ottimizzare i processi e i sistemi. Il compito si definisce per il suo obiettivo e non per il suo svolgimento: il lavoro moderno mobilita delle competenze (collettive) per controllare dei flussi di avvenimenti previsti e imprevisti. Con la divisione del lavoro, il problema centrale è quello delle interazioni e della cooperazione dinamica. La comunicazione diventa così la chiave che garantisce l’efficacia produttiva. L’individuo, spiega Veltz, non appartiene più a una catena di produzione ma è connesso orizzontalmente e verticalmente a una rete di cooperazioni dalla struttura variabile. Nell’epoca della produzione di massa, la razionalizzazione della produzione permetteva di trarre profitto dalle economie di scala. L’organizzazione piramidale si appoggia su un sistema di informazioni anch’esso piramidale, concepito per controllare la messa in atto della pianificazione. Ridisegnato sotto forma di rete, il sistema di informazioni si organizza anch’esso secondo una logica reticolare che raccoglie e trasmette. De Rosnay osserva quindi un cambiamento di paradigma, un salto culturale dal pensiero cartesiano, lineare e sequenziale, a un pensiero sistematico, non lineare e multidimensionale.
Sempre nell’ambito della dimensione strategica, ci si deve poi chiedere se la rivoluzione dell’informazione ha comportato una modifica nella percezione dello spazio-tempo. Il processo di globalizzazione è all’opera a un ritmo senza precedenti e la diminuzione dell’importanza dello spazio favorisce il processo di deterritorializzazione. L’espansione del trasporto fisico e l’immediatezza della comunicazione immateriale accelerano i rapporti di interdipendenza. In un contesto globalizzato, agevolato dalla tecnologia, si sono sviluppate in modo considerevole le reti telematiche e la loro capacità di elaborare informazioni, anche in tempo reale. Grazie all’intelligenza artificiale, che ha cambiato il mondo, il valore di un’informazione è legato alla rapidità e all’estensione della rete. Secondo D. Parrochia, la tecnica ha liberato gli uomini dall’antica problematica della radice e del fondamento, legata a rigide logiche gerarchiche. La realtà non ha una forma definita una volta per sempre, ma è il prodotto della nostra interazione con il mondo e presuppone la presenza e la mediazione delle reti, che ci permettono di integrare uno spazio-tempo cui danno il ritmo. La rete ci abitua all’unità del mondo, unendoci al tempo reale della trasmissione dell’informazione. La modificazione dello spazio-tempo vissuto, causata dalla rivoluzione dell’informazione, alimenta l’idea di globalizzazione.
Infine, analizzando la dimensione politica della rivoluzione dell’informazione, ci si deve interrogare sul suo rapporto con l’utopia, senza la quale la microinformatica non sarebbe probabilmente mai nata, poiché essa non si presenta come il risultato meccanico dell’invenzione del microprocessore, ma è piuttosto un prodotto della cultura libertaria manifestatasi negli anni ‘60, in opposizione all’informatica scientifica degli IBM. Mentre questi ultimi rappresentano la centralizzazione dei sistemi piramidali, la cultura del segreto e dunque la conservazione dell’informazione, la microinformatica simboleggia la decentralizzazione, la libertà d’informazione e dunque la sua condivisione. Nel 1972, sulla rivista radicale People’s Computer Company uscì un articolo in cui si sosteneva che i computer fino a quel momento erano stati utilizzati contro il popolo, invece di renderlo più libero, e che era giunto il tempo di cambiare. Oggi la rivoluzione dell’informazione ha la sua utopia e i suoi guru come Toffler, Negroponte e in Francia de Rosnay, e le tecnologie digitali sono diffuse ovunque, con un modello di utilizzo decentrato, libero e gratuito. Secondo la rivista Wired, il digitale è la rivoluzione più importante dopo la scoperta del fuoco. In questa utopia, la cibercultura rappresenta una forza di mobilitazione, e il mito della comunicazione trasparente e globale una forza manipolatrice. Tuttavia, se nelle rivoluzioni precedenti l’utopia è stata al servizio della legittimazione di atti di forza e colonizzazioni coercitive, nella realtà attuale essa rientra in una logica di potere essenzialmente normativa. Nella realtà contemporanea, la norma e la rete legittimano, infatti, il potere e costituiscono la base dell’autorità. Per J. Russ tale base consiste nella possibilità di trasmettere un messaggio da un punto all’altro, elaborando le informazioni all’interno di una struttura reticolare. Il potere attuale gestisce il disordine da lui stesso creato per mezzo di sistemi di comunicazione, norme, strategie scoperte e logiche di dominio occulte, in un contesto sociale aperto e dinamico.
Se la rete è la strategia, la sua efficacia può essere vista come una funzione a due variabili, ossia coesione e potenza. La prima è inversamente proporzionale al numero di membri che costituisce la rete, mentre la seconda acquista importanza quanto più questo numero è elevato. L’utopia della reticolazione, oggetto di controllo ma non di dominio, mira a unificare queste due variabili per creare una rete perfettamente efficace. Gli Stati Uniti, che dettano i ritmi nella rivoluzione dell’informazione, puntano sia sulla coesione (nessun altro protagonista ha il tempo di emergere) sia sulla potenza (nessuno può restare isolato, in una realtà segnata dalle interdipendenze) di una rete globale. Ormai ci sono due mondi: quello dell’“have” e quello dell’“have not”; e una sola tendenza: che l’“have not” diventi “have”. A muovere gli Stati Uniti non sono solo interessi economici, ma anche politici e militari: il mondo sarà sommerso dalla telematica e dalle tecnologie dell’informazione, e la “net economy” troverà abbondanza di sbocchi per innovazioni la cui efficacia gioverà inizialmente agli Stati Uniti. Ancora una volta, gli strumenti alla base della supremazia economica sono gli stessi che garantiscono quella militare, poiché chi domina grazie alla velocità, alla densità spazio-reticolare e alle capacità fisiche, può disporre di un grande vantaggio nel portare a termine operazioni di paralisi strategica.
Oltre all’utopia, è necessario considerare un secondo aspetto che rientra nella dimensione politica della rivoluzione dell’informazione: il fenomeno della leadership. La rivoluzione dell’informazione, effetto e causa della globalizzazione, non è localizzata e limitata come le due precedenti, ma coinvolge, con diverse gradazioni, l’intero pianeta. In virtù della sua estensione globale, la leadership esclusiva degli Stati Uniti non ha precedenti. Gli Stati Uniti (dove un terzo della crescita del PIL è legato allo sviluppo delle nuove tecniche di informazione e di comunicazione) detengono il monopolio assoluto dei microprocessori, i software di utilizzo dei PC, e dominano in modo schiacciante altri settori strategici come le infrastrutture delle reti. Sono inoltre all’avanguardia nel campo della produzione audiovisiva e gli ambiziosi progetti sui satelliti di telefonia (Iridium) o di trasmissione dati (Teledesic) rischiano di destabilizzare il mondo delle telecomunicazioni, dove il ruolo dell’Europa (e della Francia) è ancora di primo piano.
L’esempio americano permette di valutare il rapporto tra leadership e utopia, perché il successo degli Stati Uniti è stato possibile solo in virtù di una mobilitazione congiunta di amministrazione, università, think tanks e soprattutto dello spirito imprenditoriale diffuso nel Paese. La strategia americana ha promosso inoltre la diffusione di numerosi testi sulla rivoluzione dell’informazione e sulla R.A.M., per condizionarne l’interpretazione. All’inizio degli anni ‘70, Z. Brzezinski, una delle menti della R.A.M., scrisse che la diplomazia della cannoniera lasciava il posto alla diplomazia delle reti imposta dalla globalizzazione. Questo tessuto di reti, che Brzezinski definisce “tecnotronica”, combinando il computer, il televisore e le telecomunicazioni avrebbe creato, all’interno di una società globale, nodi di relazioni interdipendenti che finivano per rendere obsoleta la nozione di imperialismo. In seguito, dopo la caduta del muro di Berlino, Brzezinski affermò che la base della potenza americana era in gran parte determinata dalla posizione dominante che aveva nel mercato globale delle comunicazioni, per effetto della forza d’imitazione scatenata nella nuova cultura di massa.
J. Nye e W. Owens, entrambi coinvolti nell’amministrazione Clinton, hanno analizzato le questioni di sicurezza nell’era dell’informazione in un articolo dal titolo eloquente (qualcosa come: “Informazione: gli Stati Uniti sono i leader del progresso”), diffuso nel quadro di una strategia di influenza, grazie al quale si può meglio comprendere l’articolazione del discorso egemonico americano. Si impone un parallelo con l’I.D.S. (Iniziativa di Difesa Strategica), che all’inizio degli anni ‘80 presentava gli Stati Uniti come la patria della ricerca e il sogno di tutti i cervelli del mondo, in chiave anti-sovietica. Il valore dell’iniziativa multidirezionale (rivolta contro nemici e alleati) è l’essenza della strategia americana, finalizzata a preservare un sistema unipolare. Secondo Foucault, dal Settecento in poi, il potere non è più riducibile a un insieme di apparati di repressione ma designa una rete mobile, un gioco di strategie e di atti frammentati che si muovono secondo linee di forza mutevoli. L’idea di micropoteri dispersi e compositi s’impose nell’Ottocento in una società che sognava un’architettura che permettesse di controllare gli uomini. Il “panottico” progettato da Jeremy Bentham (1748-1832), teorico dell’utilitarismo, simboleggia il passaggio da un potere personalizzato (un uomo) a un potere autonomo (una macchina), materializzando così il principio di un potere visibile ma non verificabile. Nel panottico, le celle dei prigionieri sono disposte in un cerchio al cui centro, nascosto da tende, si trova un ispettore: l’ombra del guardiano è sempre visibile, ma non si può sapere chi stia sorvegliando.
T. Gaudin nota che con l’introduzione della macchina il potere, divenuto meccanico, invece di essere oggetto di sguardi, diventa colui che guarda. Il suo esercizio può dunque essere delegato e funzionare automaticamente, secondo un modello applicabile alla rivoluzione dell’informazione e già utilizzato nella comunicazione scientifica. Il potere si afferma occupando lo spazio maggiore nel minor tempo possibile, in modo da mettere fuori gioco gli avversari più lontani e più lenti. Per tenere sotto controllo i partner, gli imperi impongono dall’alto la propria supremazia tecnologica, che agisce come una forza centrifuga, e condizionano dal basso i modi di vita e di consumo, tanto che chi si oppone è additato come barbaro, nemico della civilizzazione.
Gli Stati Uniti, come spiega Nye, coordinano una scacchiera a tre dimensioni: unipolare sul piano militare, tripolare in economia (con l’Europa, il Giappone e in futuro forse con la Cina) e con un terzo livello transpolare che include attori vari e difficili da identificare, come le mafie. Considerando in particolare il punto di vista americano, la rivoluzione attuale deve fare i conti con due illusioni che si sostengono a vicenda: quella tecnologica e quella dell’informazione. Il progresso tecnologico determinato dall’accumulo di conoscenze e di nuove tecniche è esposto all’illusione di essere un processo fine a se stesso, mentre l’illusione nel campo dell’informazione dipende dai cambiamenti dovuti all’introduzione della tecnologia. Per chiarire questa doppia illusione, si deve tener conto del fatto che l’informazione ha dei costi che, nei conflitti moderni, devono essere commisurati al budget limitato degli eserciti. Se la tecnologia non ha dato risultati soddisfacenti, l’illusione tecnologica incoraggia ad accrescere gli investimenti, in modo tale che la guerra dell’informazione rischia di rivelarsi una spesa proibitiva e causare così una disfatta economica. La smaterializzazione e la disumanizzazione dei mezzi della strategia può generare un cortocircuito nel quale il valore del mezzo è sproporzionato rispetto al progetto (fine) che intende realizzare. La corsa al perfezionamento del mezzo tecnologico può insomma far dimenticare che, per schiacciare un insetto, lo schiacciamosche è più efficace e meno dispendioso del napalm.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è che l’informazione garantisce un potere provvisorio a chi la detiene in modo esclusivo. Le tecnologie consentono di accumulare sempre più informazioni, aumentando il potere provvisorio di chi le domina. I ritmi di produzione, diffusione e utilizzo delle informazioni si accelerano, e più sono sofisticati i mezzi di raccolta ed elaborazione delle informazioni, più aumenta la loro massa e la loro precisione. Diventa dunque indispensabile selezionarle in base alla pertinenza, in base alle proprie necessità di conoscenza e d’azione. La diffusione di informazioni non pertinenti può creare un effetto di disinformazione all’interno della stessa alleanza, che genera perdita di credibilità o diffidenza. La pertinenza è dunque una norma indispensabile, il cui oblio può causare la creazione di alleanze trasversali. La formalizzazione di un’informazione deve inoltre essere legata all’obiettivo perseguito. La tecnologia dà l’illusione che l’informazione esista di per se stessa, ma, come una mappa non va confusa col territorio reale, così le tecnologie dell’informazione possono rivelarsi non pertinenti e far credere che un’informazione immagazzinata non sia orientata in funzione di un obiettivo e si presti quindi a più utilizzi (questo pericolo è dovuto soprattutto alla necessità di rapidità e dunque di pre-formattazione). Ogni formattazione richiede invece del tempo, perché bisogna considerare l’orientamento, l’osservazione, la decisione e l’azione, tenendo presente l’equilibrio della coppia fine-mezzi (politica-strategia). Non va poi dimenticato che le informazioni decisive sono spesso oggetto di scambio e il loro valore non è noto finché lo scambio non è concluso
Una fede cieca nelle tecnologie dell’informazione porta a ridimensionare l’importanza delle reti di informazione umane, ma le informazioni “lanciate” e “catturate” nell’etere devono comunque essere vagliate con cura, perché la loro affidabilità non dipende esclusivamente dall’affidabilità della fonte, che è tecnologica e dunque impersonale. Infine, è necessario sottolineare l’importanza del contesto in cui si inseriscono le singole informazioni. Le tecnologie dell’informazione sono programmate, ma non sono intelligenti: offrono un’enorme massa di dati, raccolti ed elaborati in vista di un obiettivo, ma non posso sostituire il giudizio umano nel valutarne fino in fondo il senso (non possono, ad esempio, considerare il lato simbolico di manovre essenzialmente politiche). In un universo tecnologicamente determinato, anche l’intelligenza dell’osservatore umano è determinata.

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