Centrafrica. Tregua fra Seleka e Anti-Balaka. Intrapresa la via della pace?

di Marco Dell’Aguzzo

selekaSono passati più di due anni da quel 24 marzo 2013, quando le truppe di Séléka occuparono Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, rovesciando la presidenza dell’ex-generale François Bozizé. Da quella data, il paese si è ritrovato immerso in una sanguinosa guerra civile tra le truppe musulmane di Séléka e quelle cristiane note col nome di Anti-balaka. Come ha avuto modo di ricordare in passato Fatou Bensouda, procuratore capo della Corte Penale Internazionale, entrambi i gruppi armati “hanno commesso crimini contro l’umanità e crimini di guerra”. Non ci sono buoni o cattivi. Nemmeno l’intervento dei corpi di pace francesi (la Repubblica Centrafricana si è resa indipendente dalla Francia soltanto nel 1960) nel dicembre 2013, dietro autorizzazione dell’ONU, è servito a migliorare la situazione, che al contrario non ha fatto che peggiorare. Ma la scorsa domenica, 10 maggio 2015, tutte le fazioni in lotta, circa una decina, hanno accettato di deporre le armi. La (si spera non fragile) pace è stata ovviamente salutata con favore dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, che ha detto di sperare in una sua «rapida e piena attuazione».
La storia della Repubblica Centrafricana successiva all’indipendenza dalla Francia, nel 1960, può essere brevemente riassunta con una serie di colpi di stato: il primo nel 1965, che portò alla caduta del regime monopartitico del primo presidente David Dacko e alla fondazione dell’Impero Centrafricano del megalomane Bokassa I (alias Jean-Bédel Bokassa); il secondo nel 1979, con la restaurazione della presidenza di Dacko; il terzo nel 1981, con l’instaurazione della dittatura militare di André Kolingba. L’intermezzo pseudo-democratico del presidente Ange-Félix Patassé (eletto nel 1993) non migliorò affatto la situazione del paese: al contrario, gli scontri tra le truppe a lui fedeli e quelle ribelli (che nel 2001 tentarono, fallendo, di prendere il potere) fecero sprofondare la Repubblica Centrafricana in una guerra civile che si protrasse fino al golpe ordito dal generale François Bozizé, nel 2003. Bozizé passò anche per le elezioni che vinse nel 2005 e nel 2011, e governò fino al 24 marzo 2013, giorno in cui venne costretto alla fuga dopo che le truppe di Séléka occuparono Bangui, la capitale.
Séléka significa “coalizione” in lingua sango, e Séléka è appunto la coalizione di milizie ribelli nata il 15 dicembre 2012, composta principalmente di musulmani e capeggiata da Michel Djotodia. Djotodia è lontano dallo stereotipo del guerrigliero: ha vissuto per 10 anni nell’Unione Sovietica, parla fluentemente il russo, è laureato in Economia, ha lavorato presso il Ministero centrafricano dell’Economia e presso quello degli Affari esteri. È musulmano, e non è un dato di poco conto in un paese dove circa il 50% della popolazione è di fede cristiana (perlopiù cattolica) e il 35% è ancora legato alle credenze indigene. Il 24 marzo 2013 Séléka assume il controllo della capitale. E mentre Bozizé trova rifugio a Yaoundé, in Camerun, Michel Djotodia si autoproclama settimo presidente della Repubblica Centrafricana, il primo di fede islamica. Djotodia poteva anche ricoprire la più alta carica dello stato, ma la Repubblica Centrafricana era de facto in mano alle milizie di Séléka. Se Bozizé incarnava, agli occhi dei ribelli, la figura del sanguinario tiranno a cui era necessario opporsi con ogni mezzo, non si può dire che le azioni di cui si macchiarono i membri di Séléka fossero ispirate dalla clemenza e dalla temperanza: massacri di civili, stupri, torture, saccheggi, distruzione di villaggi e piccole città. Nonostante Séléka non si fosse mai definita una coalizione di ispirazione islamica, le sue rappresaglie erano rivolte soprattutto verso i cristiani (che rappresentano, bisogna ricordarlo, la maggioranza dei centrafricani); ciononostante presentare questa ostilità come puro e “semplice” odio interreligioso (che pure è presente) non permette di comprendere a fondo la situazione. Alla base di questa sono riscontrabili, infatti, soprattutto motivazioni di matrice geografica ed economica: mentre i cristiani hanno uno stile di vita prevalentemente sedentario, i musulmani sono perlopiù nomadi; di conseguenza, gran parte della violenza si è innestata su questioni relative al possesso della terra, alla sua difesa e alla sua rivendicazione.
Nel settembre 2013 Djotodia annuncia lo scioglimento di Séléka. Ovviamente, Séléka non è d’accordo. La situazione sembra essere del tutto sfuggita di mano al presidente, che comunque continua ad ostentare sicurezza: “È troppo affermare che non ho alcun controllo – dice – . Io controllo i miei uomini. Gli uomini che non posso controllare non sono i miei uomini”. Quindi, secondo lui, non sarebebro stati gli uomini di Djotodia ad uccidere circa 465 civili tra il 6 e il 9 dicembre 2013. In tutto questo i cristiani non sono certo rimasti con le mani in mano, e da vittime si sono fatti carnefici a loro volta. Animato dal desiderio di vendetta, nel 2013 Levy Yakete decide di riorganizzare dei corpi di autodifesa rurale formatisi nel corso degli anni ’90 in milizie cristiane da contrapporre a quelle musulmane di Séléka: una volta scelto il nome, Anti-balaka (balaka, in sango, significa “machete” o “spada”), si può dare il via al massacro: moschee demolite, abitazioni e negozi bruciati, centri abitati rastrellati. Durante il mese di febbraio 2014, nella sola Yaloké, una città a nord-est della capitale, circa 30.000 musulmani vengono costretti a darsi alla fuga. I più si dirigono a nord, verso il Ciad. Il numero dei morti, sia cristiani che musulmani, aumenta esponenzialmente. Intanto, il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette e sceglie l’esilio nella Repubblica del Benin. Gli succede Catherine Samba-Panza, già sindaco di Bangui; il giorno della sua vittoria alle elezioni dichiara di voler essere “il presidente di tutti i centrafricani, senza esclusioni” e chiede la fine delle ostilità tra Séléka e Anti-balaka. Ma, nonostante le parole di Samba-Panza, le ostilità non cessano.
Da dicembre 2013 ad aprile 2014 almeno 200mila persone lasciano la Repubblica Centrafricana. Numeri da esodo che esprimono una condizione critica. Stando agli ultimi dati, la guerra civile avrebbe ucciso circa 5mila persone, e oltre 900mila sarebbero fuggite dal paese.

Twitter: @marcodellaguzzo