Combattenti irregolari: terroristi, partigiani e rivoluzionari a confronto

di Antonio Coppola *

Isis dernaUno dei termini più ricorrenti nelle cronache internazionali è la parola terrorista, utilizzata e forse abusata per indicare e definire diverse tipologie di guerriglieri irregolari, che giocano un ruolo centrale nelle dinamiche belliche contemporanee. Tuttavia, l’estensione di questo termine fino ad includere al suo interno ogni combattente impegnato in forme di guerra asimmetrica, pone le base per una perdita di significato per questa termine, sempre più ampio e di conseguenza, sempre più inefficiente come etichetta identificativa.
Abbiamo detto che nella sua accezione più ampia, il terrorista è un combattente irregolare impegnato in una guerra asimmetrica. Iniziamo quindi col definire più precisamente il termine combattente irregolare, distinguendolo, per ragioni che ad alcuni potranno sembrare ovvie, da quelli che possiamo identificare come combattenti regolari.

La sentinella della terra.
Assumiamo come punto di partenza di questa analisi, per l’identificazione dei caratteri propri del combattente irregolare, quella che è la teoria del partigiano di Carl Shmitt, con cui l’autore va a definire il ruolo e la natura del combattente partigiano, distinguendolo (come nel nostro caso) dal combattente regolarmente armato e militante tra le fila delle forze armate convenzionalmente riconosciuta dallo stato.
Secondo la teoria del partigiano, questi è prevalentemente un combattente politico, ovvero, un combattente mosso da una forte ideologia di natura politica e/o religiosa, che agisce in nome di una giustizia superiore che non necessariamente trova riflesso e si riconosce nelle autorità statali ufficiali, e che, anzi, può all’occorrenza, opporsi direttamente ad esse, arrivando a schierarsi e combattere contro le stesse forze regolari dello stato. Va detto inoltre che il partigiano shmittiano ha un forte legame territoriale, esso infatti agisce e si muove in un territorio familiare, di cui ne conosce perfettamente ogni aspetto, ed è in grado di sfruttare punti deboli e di forza di quel dato territorio; questa conoscenza consente al partigiano di muoversi e spostarsi rapidamente, nonostante la natura clandestina delle sue attività, restando, almeno ufficialmente, ai margini di una comunità locale, che fornisce al partigiano, opportunamente, copertura, assistenza e rifugio; nonostante questo atteggiamento sia da considerarsi illegittimo in quanto va contro le normative vigenti, per le quali il partigiano è da considerarrsi un agitatore politico, armato e militarizzato, le cui azioni sono compiute al di fuori dalla legalità rendendolo, al pari di un criminale, un elemento ostile e pericoloso per quella comunità che allo stesso tempo cerca di proteggere e che a sua volta lo protegge.
Potremmo quindi dire che, il compito del partigiano shmittiano sia quello di difendere e proteggere la propria terra, con ogni mezzo a sua disposizione, tuttavia, non essendo ufficialmente legittimato e riconosciuto pubblicamente dalle autorità statali, esso agisce nell’ombra, scagliandosi contro una forza militare, ben organizzata, gerarchicamente definita e probabilmente meglio armata, in questo contesto Shmitt utilizza, non a caso, il termine sentinella della terra che ben richiama questo aspetto peculiare del partigiano.
Sempre secondo la visione di Shmitt, la guerra partigiana si intreccia con la guerra rivoluzionaria e l’unico strumento bellico nelle mani del partigiano/rivoluzionario è la guerriglia.
Occorre quindi aprire una parentesi e capire esattamente cosa si intende per guerriglia e quando e in che contesto questo termine fa la sua apparizione.

La guerra asimmetrica.
Il termine guerriglia appare ufficialmente per la prima volta nel contesto delle guerre napoleoniche, più precisamente quando nel novembre del 1808 Napoleone sconfigge l’esercito regolare spagnolo, dando vita a numerosi movimenti di resistenza il cui scopo è quello di respingere l’invasione napoleonica. Il termine guerriglia quindi può essere letto come la piccola guerra che si contrappone alla grande guerra, ovvero, la guerra regolare, nel senso tradizionale del termine; questo perché la guerra di resistenza o guerriglia, non si costituisce come un regolare esercito nazionale, e nello specifico, non è in alcun modo assimilabile all’esercito di massa napoleonico, si configura invece in un insieme di milizie armate, più o meno organizzate, con una gerarchia interna più o meno definita, che agisce con le modalità della guerra irregolare poiché il guerrigliero partigiano/rivoluzionario non è nella condizione di poter combattere sullo stesso piano del suo avversario regolare, che diversamente, si presenta come infinitamente superiore, sia sul piano numerico che degli armamenti, e contro il quale quindi il partigiano non avrebbe alcuna possibilità di successo in uno scontro diretto e combattendo in modo tradizionale; nel caso specifico delle guerre napoleoniche è particolarmente evidente.
Con l’intreccio tra guerra partigiana e guerra rivoluzionaria ipotizzato da Shmitt, si viene a creare la necessità di un nuovo modo di concepire la guerra. Il partigiano, impossibilitato a scontrarsi direttamente contro l’avversario, è costretto a colpire di soppiatto, colpendo alle spalle, agendo con piccole operazioni mirate, volte ad indebolire l’avversario senza però mai affrontarlo direttamente, procedendo quindi con operazioni di sabotaggio alle infrastrutture e ai mezzi di produzione e trasporto, senza escludere dalla rosa dei propri bersagli, eventuali obiettivi civili, che svolgono un ruolo centrale negli equilibri economici, politici e produttivi dello stato contro cui l’irregolare combatte.

Il coinvolgimento dei civili.
Questo nuovo atteggiamento bellico, va detto, diventa sempre più centrale nel corso del ventesimo e ventunesimo secolo, con un sempre maggiore intreccio tra guerra partigiana e guerra rivoluzionaria ed un progressivo abbandono della natura protettiva e difensiva della guerra partigiana, in favore di una sempre maggiore aggressiva, che si lega in maniera quasi naturale alle guerre di liberazione e di indipendenza, combattute a partire dal Secondo dopoguerra nei territori degli imperi coloniali, e proprio le guerre di liberazione/indipendenza del secondo Novecento, giocheranno un ruolo centrale nel ridisegnare il profilo della guerra. Partendo dagli elementi presenti nella teoria del partigiano, possiamo osservare come, nelle più recenti guerre sempre più asimmetriche, la figura del moderno terrorista sembra incarnare numerosi elementi propri del partigiano/rivoluzionario descritto da Shmitt. Va precisato che, il partigiano Shmittiano, nel momento in cui agisce, si muove fuori dalla legalità e dalla legittimità della guerra, lo stesso Shmith procede con un analogia tra la guerra partigiana e la guerra sottomarina inaugurata nel corso della prima guerra mondiale, per la quale la Germania è stata più volte accusata di comportamenti alieni al codice bellico, al cui culmine possiamo individuare senza troppa difficoltà l’affondamento del transatlantico statunitense Lusitania, della Marina mercantile civile, che avrebbe poi costituito il causus belli per l’ingresso degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale.
Partendo da questo parallelismo tra partigiano e sommergibile, e nello specifico del coinvolgimento della parte civile nello scontro bellico, credo sia importante osservare come, quest’ultimo elemento abbia avuto un peso crescente nei costi della guerra, a partire già dal diciannovesimo secolo con le guerre napoleoniche, e si sia progressivamente ampliato nel secolo successivo, fino a raggiungere, nel contesto della Seconda guerra mondiale, numeri impressionanti, di fatto la seconda guerra mondiale per la prima volta nella storia, conta un numero di vittime tra la popolazione civile, enormemente superiore rispetto alle vittime militari. Questa sproporzione ha continuato a crescere in tutti i conflitti successivi alla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri.
Tutti questi elementi che sono venuti ad intensificarsi, fino a diventare predominanti nel corso degli ultimi due secoli, hanno però un lungo passato alle spalle che, al di la dei singoli contesti bellici, presenta una caratteristica costante, in ogni guerra irregolare o asimmetrica, che dir si voglia, esiste sempre una discrepanza tra le regolari forze armate e le varie forze irregolari che, fino al diciannovesimo secolo inoltrato, hanno svolto il ruolo di sentinelle della terra, sulle cui spalle pesa il destino del proprio popolo.
A questo punto cogliere i punti di contatto ed i possibili legami tra il moderno terrorista e l’antico partigiano diventa abbastanza semplice, tuttavia questa assonanza che si muove su più piani, non è priva di contrasti, e se bene l’accostamento della figura del terrorista a quella del combattente irregolare, sia abbastanza immediata, e se, allo stesso tempo, il partigiano sia egli stesso un combattente irregolare, individuare le varie connessioni tra partigiani e terroristi, diventa almeno in primo impatto, più complicato.
La difficoltà logica in questo ultimo passaggio sta non tanto nelle modalità d’azione e nelle tattiche belliche o l’individuazione degli obiettivi, quanto nel terreno in cui le due diverse forme di combattenti irregolari combattono. Il partigiano combatte prevalentemente una guerra difensiva o di liberazione, diversamente il terrorista o meglio, un particolar tipo di terrorista che combatte una guerra offensiva, perde quindi quel legame con la terra e le popolazioni che vi abitano, agendo in un certo senso, fuori dai confini del suo stato e della sua nazione e la scelta degli obiettivi non sembra seguire una precisa strategia bellica volta ad indebolire le strutture economiche e produttive dell’avversario.

Tratti distintivi del moderno terrorista.
Soffermandoci sugli elementi di attualità possiamo individuare all’interno del termine terrorista entrambe le modalità d’azione, abbiamo quindi sia il terrorista/partigiano che combatte per la sua terra nel tentativo di difenderla da quello che reputa un invasore straniero, sia il terrorista/agitatore che agisce e colpisce al di là dei confini territoriali di uno stato, impegnato in quella che reputa un esportazione di principi e norme.
In conclusione possiamo quindi dire che le guerre contemporanee, sempre più asimmetriche, vedono una presenza sempre maggiore di combattenti irregolari, e se da una parte sia partigiani che terroristi possono essere definiti come combattenti irregolari, non tutti i terroristi possono essere identificati come partigiani, poiché, sul piano pratico, non agiscono in un ottica difensiva, bensì aggressiva e senza un reale legame con la terra, impegnati quindi in una guerra di conquista più che di liberazione, e su questo punto potrebbe aprirsi un’ulteriore parentesi, sulla definizione di liberazione, poiché se si intende tutta la terra come la propria terra, e si agisce in nome di ideali apparentemente universali, allora, come per le guerre napoleoniche, una guerra di conquista può essere identificata in una guerra di liberazione, in questo caso il terrorista conquistatore diventerebbe un moderno partigiano/rivoluzionario, che agisce in nome di una giustizia superiore, e di conseguenza la guerra offensiva, risolta in guerra di religione, ritorna a configurarsi come una guerra difensiva.
A questo punto, in un ottica universalistica la differenza tra liberazione e aggressione può essere determinata solo dalla percezione da parte della popolazione globale, e in questo senso, la scelta non convenzionale dei bersagli, secondo uno schema che non punta all’indebolimento delle strutture economiche o produttive, e quindi senza un reale fine militare, diventa determinante nell’identificazione del terrorista, che possiamo quindi definire come un combattente irregolare, che in quanto tale agisce al di fuori della legalità, scontrandosi contro un avversario ignaro ed indifeso allo scopo di provocare instabilità e panico. Questo tipo di combattente non è identificabile ne’ con la figura del rivoluzionario innovatore ed emancipatore, ne’ con la figura del partigiano liberatore, e sebbene queste tre figure agiscano similmente, fuori dalla legge e sono per questo tutti considerabili dei terroristi, l’enorme diversità interna che corre tra la figura del rivoluzionario, partigiano e del moderno terrorista, crea delle sottocategorie incompatibili tra loro.
Colui che combatte per la propria emancipazione non è quindi un terrorista ma un rivoluzionario, colui che combatte per difendere la propria terra da un occupante armato e ben organizzato, non è quindi un terrorista ma un partigiano, e in fine, colui che aggredisce al fine di creare paura e terrore, il cui nemico è identificato in chiunque altro viva o ragioni diversamente da lui, ponendosi fuori dalla comunità internazionale, può essere effettivamente identificato come un terrorista, ovvero, colui che perpetua una strategia del terrore, al fine di sfiduciare le istituzioni nemiche facilitandone quindi la resa.

* Antonio coppola, laureando (corso di laurea magistrale) in Storia e Civiltà con tesi in Geoploitica e relazioni internazionali presso l’università degli studi di Pisa, laureato in Storia contemporanea con tesi sulla crisi economica di fine Ottocento presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.
Collabora dal 2013 in qualità di articolista freelance con diverse testate on-line tra le quali Fanpage.it, BlastingNews, PopcornTV.it, VanillaMagazine e Historicaleye, di cui è fondatore.
Dal 2014 ha avviato il progetto di divulgazione accademica Historicaleye, incentrato prevalentemente su temi storici e culturali.