Corea del Sud pronta ad annullare l’accordo con il Giappone sulle “donne di conforto”

di Enrico Oliari

Come un fiume carsico sì è tornati in oriente a discutere del dramma delle cosiddette “donne di conforto”, 200mila (secondo Seul) giovani sudcoreane che nel Secondo conflitto mondiale sono state usate come schiave sessuali dagli occupanti giapponesi. Nel 2015 la questione era stata chiusa con un accordo che prevedeva, oltre alle scuse, il versamento di 7 milioni di euro da parte del governo Giapponese alle vittime superstiti ed ai loro famigliari, ma nel gennaio di quest’anno in Corea del Sud è stata messa in piedi una commissione la quale dopo quasi un anno ha concluso che l’accordo sottoscritto dall’allora presidente Park Geun-hye, “non ha preso in considerazione in maniera appropriata il punto di vista delle vittime”.
Tanto è bastato perché il 27 dicembre il ministro degli Esteri sudcoreano, Kang Kyung-wha, esprimesse “il mio più profondo rammarico per il fatto che l’accordo raggiunto nel 2015 non rifletta lo standard universalmente accettato in tema di violazione dei diritti umani, ossia un approccio orientato verso le necessità delle vittime”.
Non è chiaro se la Corea del Sud voglia annullare o ridiscutere l’accordo, ma da Tokyo il segretario generale del governo Yoshide Suga ha fatto sapere che “le modalità sono da noi ritenute irreversibili”, e lo stesso “ha ricevuto l’apprezzamento della comunità internazionale”. Per cui, ha chiosato Suga, è “assolutamente necessario che venga attuato così com’è”.
Da più parti si invita alla calma, anche perché in un momento delicato qual è quello attuale per via della crisi nordcoreana è necessario che non si guastino le relazioni tra i due paesi.
In Giappone si fa comunque poco per mantenere alto il livello delle relazioni, dal momento che fra le proteste dei sudcoreani e non solo continuano ad esserci visite di esponenti politici e del governo al santuario shintoista Yasukuni di Tokyo: Abe si è recato l’ultima volta in aprile a portare la propria offerta votiva, un “Masakaki”, ma nel Libro delle anime di quasi 2,5 mln di caduti custodito nel tempio vi sono iscritti 14 criminali di guerra di Classe A (crimini contro la Pace) e 1.068 condannati per crimini di guerra, coinvolti anche in massacri durante l’occupazione della penisola coreana e della Cina.
Da parte sudcoreana è stato invece eretto un monumento per ricordare il dramma delle “donen di conforto”, proprio difronte all’ambasciata giapponese.
Secondo gli storici giapponesi le “donne di conforto” erano in realtà volontarie, ma ex militari e dirette interessate ancora in vita negli Ottanta hanno testimoniato parlando di coercizione e persino di casi di sequestro. Provenivano da tutti i territori occupati dall’esercito imperiale, mentre i centri si trovavano in Giappone, Cina, nelle Filippine, in Indonesia, nella Malesia britannica, in Thailandia, a Burma, in Nuova Guinea, a Hong Kong, a Macau e nell’Indocina francese.