Due parole sullo Jus soli

di Dario Rivolta *

Qualcuno si sta domandando perché Renzi e Gentiloni abbiano deciso di cercare di far passare la legge sullo jus soli proprio ora, mentre altre evidenti urgenze avrebbero dovuto avere la priorità. La risposta è tuttavia semplice: in vista di prossime elezioni nazionali i due devono dimostrare alla base massimalista del loro partito che, nonostante tutto, anche loro sono “di sinistra”. Contemporaneamente, lanciano un messaggio di affinità verso quei cattolici che prendono per buone le esortazioni papali (i pochi rimasti) all’accoglienza indiscriminata.
Teoricamente lo scopo sembrerebbe nobile: non siamo razzisti, non crediamo più alla purezza della stirpe, la diminuzione delle nascite (ma anche della densità della popolazione) è una disgrazia e bisogna quindi “arruolare” immediatamente tutti gli stranieri possibili. Basta allora con lo jus sanguinis e cominciamo col dare subito la cittadinanza italiana a chiunque nasca sul territorio del nostro Paese!
Fino ad ora avevano il diritto di definirsi italiani (cioè avere la cittadinanza) solo i discendenti di almeno un genitore italiano e quegli stranieri che, avendo vissuto qui per almeno dieci anni, ne facevano formale richiesta. I ragazzi stranieri potevano richiederla invece al compimento della maggiore età, sempre che lo volessero. Se la legge in discussione in questi giorni al Senato passasse, diventeranno automaticamente italiani tutti i neonati che vedranno la luce dentro i nostri confini qualora uno dei genitori fosse risiedente da almeno cinque anni. Inoltre ne avrà diritto anche chi avrà completato almeno un ciclo di studi nelle nostre scuole. Resta il dubbio sugli alunni delle scuole italiane all’estero.
Che, in base alla legge attuale il nostro passaporto spetti anche ai bis-bis-bis-bisnipoti di un lontanissimo individuo di origine italiana è certamente un’assurdità. Molti di coloro che l’hanno richiesto, specialmente dal Sud America, nemmeno parlano l’italiano e non sono mai venuti, neppure per vacanza, nel Bel Paese. Costoro vogliono il documento italiano solo per aggirare la necessità dei visti d’ingresso richiesti loro da alcuni Paesi oppure puntano a cercare un lavoro in Europa approfittando della libertà di circolazione e residenza dentro l’Unione Europea. Che tale legge andasse cambiata limitando alla seconda generazione tale diritto e imponendo almeno la conoscenza della nostra lingua era scontato, ma trasformarla in un “Benvenuti a tutti” significa svalutare totalmente il poco senso di appartenenza che ancora ci restava.
L’attuale proposta di legge, che ci permettiamo di sperare non riesca a uscire dal Senato (ma sembra che qualche intelligentone del governo voglia addirittura proporre il voto di fiducia), è sbagliata nei tempi, nel merito e negli obiettivi che si pone.
Nei tempi: già ora, ben sapendo che i minori e le donne incinte non possono essere espulse, i barconi di clandestini che arrivano sono pieni di donne in gravidanza e tutte loro partoriranno da noi, tra l’altro a carico del nostro sistema ospedaliero e delle nostre forme di assistenza all’infanzia. Qualunque sia il motivo che le ha spinte da noi, è sicuro che nessuna di loro sarà veramente rimandata nel Paese da cui arriva. Quando il nuovo dispositivo dovesse essere approvato, il loro numero aumenterà in modo esponenziale e vedremo poi quanti giudici avranno il coraggio di discriminare tra i figli di uno straniero ufficialmente presente da cinque anni e di qualcuno che è entrato in Italia da clandestino, vi ha partorito e vi ha già passato qualche anno in attesa di una possibile regolarizzazione. Tutti sappiamo che il numero degli attuali arrivi senza fine è giudicato insopportabile dalla maggioranza degli italiani, figuriamoci quali saranno i nostri sentimenti nei confronti degli stranieri quando tale cifra aumenterà ulteriormente (e con essa i costi relativi). Ai “buoni di cuore” che continuano a predicare l’”accoglienza” dovremmo chiedere: quanti ne volete? A che numero, giudicherete voi, dovremmo chiudere le porte? Un milione, due, dieci milioni? Di piu’? Purtroppo nessuno vuole rispondere e giudicano la domanda impertinente.
Nel merito: il più grande problema delle società moderne è la difficoltà a ritrovare un’identità collettiva. Uno Stato che non offra un senso di appartenenza ai propri cittadini è destinato a dissolversi attraverso conflitti sociali interni sempre più cruenti e a perdere ogni considerazione altrui sul piano internazionale. Qual è, in un qualunque agglomerato sociale, lo strumento per sentirsi “comunità”? Se qualcuno rispondesse la lingua, dimenticherebbe che in molte delle nostre regioni sono ammesse più lingue ufficiali e crescono le domande di scuole e uffici pubblici cui debba essere possibile rivolgersi in un linguaggio diverso dall’italiano. Andate a dire a un altoatesino che l’identità italiana viene dalla lingua…
Se, come altri pretenderebbero, ci si affidasse a una religione comune, occorrerebbe cambiare la nostra Costituzione perché essa prevede che ogni cittadino italiano possa praticare la religione che preferisce. La smetta chi distingue tra “cristiani” e “musulmani” (o buddisti, ebrei, testimoni di Geova, induisti di vario genere, animisti, zoroastriani, atei e chi più ne ha più ne metta) perché, da qualche tempo, i cattolici sono solo una parte della popolazione e noi non abbiamo una “religione di Stato”. Definire italiano solo chi si dichiari cattolico sarebbe evidentemente anticostituzionale.
E’ il colore della pelle a far la differenza? Qualcuno ha l’impudenza, o il coraggio, di affermarlo?
Forse, ci resta l’azzurro della nazionale di calcio. Se non fosse che tutti sostengono sia un po’ troppo poco sentirci accomunati attorno, e solo ogni tanto, a un pallone.
Dove trovare quindi una qualunque identità che ci rassicuri a sentirci parte di uno stesso popolo? Per quanto debole, l’unica cosa che ancora ci unisce è la comune cittadinanza. Quella che ci fa votare per uno stesso Parlamento (anche se con sempre meno voglia), che ci dà lo stesso passaporto, che ci fa riconoscere quando siamo all’estero, che ci dà il “piacere” di pagare le tasse per ottenere i giusti servizi, pur essi “diversamente efficienti” nelle varie regioni. Purtroppo il nostro essere “civili” ci ha spinti a elargire lo stesso trattamento assistenziale e sanitario a chiunque si trovi nel nostro Paese, indipendentemente dal passaporto in suo possesso. Ne fanno testimonianza le case popolari attribuite indipendentemente da ogni nazionalità, i pronto soccorso ingolfati da extracomunitari, le generose ospitalità gratuite offerte da molti comuni (soprattutto di “sinistra”) solo agli stranieri. Già così la cittadinanza fa poca differenza (o addirittura ci penalizza), vogliamo diluirla ancora di più?
Negli obiettivi: qui casca l’asino! I promotori sostengono che l’attribuzione facile della cittadinanza favorirebbe l’integrazione. Quanto ciò funzioni lo si dimostra nell’esperienza di altri Paesi generosi nel concederla. Basta andare in Francia o in Gran Bretagna per costatare la pace sociale che ne è nata (sic!). In molti quartieri si sono spontaneamente creati veri e propri ghetti “nazionali”, ove nemmeno si parla la lingua ufficiale del Paese ospitante. Chi abita in questi quartieri non è stato obbligato a riunirsi in base all’etnia di provenienza: l’ha scelto proprio per non “mischiarsi” e per continuare più agevolmente con le proprie abitudini e tradizioni. Spesso si tratta addirittura di soggetti residenti da due o tre generazioni che vi vivono in modo del tutto autosufficiente, con i loro negozi, i loro luoghi di ritrovo, i loro culti e, naturalmente, la loro lingua. A molti di loro non passa nemmeno per la testa l’idea di “integrarsi”, salvo pretendere gli stessi diritti degli autoctoni. Se non li ottengono, o pensano di essere “discriminati”, nascono i tafferugli e i disordini di cui abbiamo avuto notizia in più occasioni. E’ poi quasi superfluo parlare dei terroristi, non erano molti di loro cittadini a tutti gli effetti? Quelli partiti per le varie “guerre islamiche” e, magari, rientrati con la volontà di compiere atti di terrorismo non avevano già la nazionalità del Paese che li ha ospitati? Tuttavia, essendo oramai diventati francesi, britannici o, nel futuro, italiani, non possono più nemmeno essere espulsi.
Il fatto è che chi vuole veramente “integrarsi” se ne frega se otterrà la cittadinanza in cinque o dieci anni. Se è nato qui o altrove. Se davvero desidera l’integrazione, farà di tutto per diventare un vero membro della popolazione presso cui ha deciso di vivere la sua nuova vita, si sforzerà di imparare la lingua locale, di conoscerne la storia, di mandare i propri bimbi nelle scuole del posto affinché crescano come chi li circonda. E quando il momento arriverà, l’ottenimento della cittadinanza sarà vissuto come un traguardo raggiunto, un premio meritato. Nessuno chiederà loro di dimenticare le proprie origini, ma saranno innanzitutto diventati veri connazionali, soltanto diversi nelle radici primigenie.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.