Forse servirebbe una Ellis Island europea

di Giovanni Ciprotti

La disperata traversata della nave Acquarius e il conseguente, squallido, braccio di ferro tra Italia e Malta ha riproposto, al di là delle dichiarazioni contrapposte dei buonisti e dei nazionalisti integralisti, il tema dei flussi migratori, che ogni estate divengono più intensi per via delle migliori condizioni climatiche.
Individuare una soluzione non è cosa semplice, ma diventa impossibile a causa dei molti, troppi vincoli posti sia dalla normativa europea sia dai singoli stati membri dell’Unione.
Il Trattato di Dublino, concepito quando i fenomeni migratori avevano dimensioni decisamente più ridotte, sta mostrando tutta la sua inadeguatezza poiché scarica sui Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo gran parte degli oneri derivanti dall’accoglienza e dall’identificazione dei migranti e dalla successiva distinzione tra coloro che migrano per motivi economici e altri cui spetta il riconoscimento dello status di rifugiato.
La chiusura di alcuni Stati, quali l’Ungheria, rispetto al piano di ricollocamento dei migranti accolti all’interno del territorio europeo condanna altri Paesi, come l’Italia, a farsi carico sia dei costi economici di lungo periodo sia dei costi sociali derivanti dalle dinamiche di integrazione dei nuovi venuti.
L’ondata migratoria diventa allora la cartina tornasole della debolezza dell’Unione europea. Per superarla servirebbe coraggio e capacità di guardare lontano da parte delle élite politiche europee. Ma all’orizzonte non si vede un Robert Schuman, un Altiero Spinelli o un Jacques Delors e i politici europei, nel loro rapporto con le rispettive pubbliche opinioni, sembrano più followers che leaders.
Nel suo ultimo libro “Atlante delle crisi mondiali”, Sergio Romano ricorda che, nei primi anni dopo il crollo del Muro di Berlino, Jacques Delors, al tempo presidente della Commissione europea, avrebbe preferito consolidare le istituzioni europee prima di accogliere nell’Unione gli Stati dell’Europa orientale, da poco liberatisi dal giogo sovietico. La storia gli ha dato ragione: la struttura comunitaria si è indebolita notevolmente nel passaggio dai 15 ai 28 membri e qualsiasi crisi travalichi i confini nazionali ne mette a nudo tutte le inefficienze. E’ avvenuto con la crisi finanziaria che ha colpito la Grecia; è accaduto relativamente alle posizioni da assumere sui conflitti armati scoppiati in Nordafrica o in Ucraina; accade continuamente sui flussi migratori, con Paesi che alzano steccati per sbarrare ai migranti le vie terrestri che ne attraversano i territori o che negano gli attracchi ai loro porti, scaricando su altri Paesi membri la responsabilità della prima accoglienza.
Il recente tentativo di rivedere i criteri del trattato di Dublino sull’accoglienza dei migranti è fallito e, come già avvenne dopo il fallimento del progetto di Costituzione europea, dovrà passare molto tempo prima che qualcuno abbia il coraggio di proporre una nuova modifica di quelle regole.
L’alternativa alla trasformazione dell’Unione europea in una sorta di inespugnabile “fortezza Europa” è, prima ancora che poco giustificabile sul piano morale, irrealizzabile dal punto di vista pratico per mere ragioni geografiche: non siamo gli Stati Uniti d’America del XIX secolo, che potevano permettersi il lusso di imporre i desiderati freni all’immigrazione perché aiutati dai due oceani che li separano dall’Asia a occidente e dal Vecchio Mondo a oriente.
Dall’esperienza storica degli Stati Uniti potremmo però trarre alcuni spunti utili per cercare di risolvere, almeno parzialmente, alcuni nostri guai.
Dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento la “porta d’America” è stata, per larga parte degli immigrati diretti in America del Nord, Ellis Island, un isolotto nella baia di New York.
Nella struttura dell’isola venivano accolti, visitati e identificati migliaia di immigrati al giorno. Alla fine dell’iter, il nuovo venuto poteva sbarcare sui moli della Grande Mela, se accettato, oppure veniva rispedito a casa, se scartato dai funzionari federali.
Le spese di quella gigantesca macchina di accoglienza e selezione erano a carico del governo federale, non del comune di New York o dello stato omonimo. E una volta ottenuto il permesso di sbarcare sulla terraferma, l’immigrato poteva andare dove voleva, senza alcuna restrizione che non fosse la sua capacità, soprattutto economica, di muoversi all’interno degli Stati Uniti.
Un meccanismo analogo è impraticabile nell’Unione europea di oggi per due ordini di motivi: non esiste un luogo equivalente a Ellis Island e i vincoli del trattato di Dublino legano le mani ai paesi di prima accoglienza, con l’ulteriore rischio di trasformare l’immigrato in una sorta di recluso a tempo indeterminato nei centri di accoglienza.
Per disinnescare i vincoli del trattato di Dublino – almeno in attesa che il trattato venga corretto – servirebbe un posto che non sia italiano o greco o francese o spagnolo, ma europeo. Meglio, una porzione di territorio di giurisdizione piena ed esclusiva dell’Unione europea. E allora creiamolo!
Nel 1790 gli Stati Uniti avevano la necessità di stabilire dove costruire la capitale federale. Decisero di ritagliare una piccola parte del territorio al confine tra la Virginia e il Maryland per istituire il District of Columbia, dove sorse Washington, dotato di proprie istituzioni amministrative analogamente agli altri Stati statunitensi (Washington DC, ad esempio, concorre con tre grandi elettori nella procedura di elezione del Presidente degli Stati Uniti).
Noi europei potremmo, con un po’ di collaborazione dei Paesi membri, identificare un isolotto nel Mediterraneo, trasferirne temporaneamente la giurisdizione dallo stato membro cui oggi appartiene all’Unione europea, costruirvi sopra una struttura dedicata all’accoglienza dei migranti, mantenerla con fondi direttamente erogati dal bilancio di Bruxelles e affidarne la difesa a contingenti e corpi di polizia europei.
In tal modo tutti i membri dell’Unione sarebbero corresponsabili dell’adeguato finanziamento della struttura, del suo buon funzionamento e del destino di tutti i migranti accolti, durante e soprattutto dopo la fase di identificazione e di chiarimento dello status del migrante.
Potrebbe essere la volta buona per distinguere i Paesi che vedono l’Europa soltanto come erogatore di fondi per finanziare le attività nazionali da quelli che, pur apprezzando i benefici economici derivanti dall’appartenere al club, vorrebbero trasformare l’Unione in un’entità politica più coesa, forse anche in una federazione.