Guerra Fredda. A chi giova? (Parte seconda)

di Dario Rivolta * –

Parte Prima.

Il mondo non è più teatro d’azione di soli due protagonisti. Anche se non si deve sopravvalutare il ruolo che, a tuttora, potrebbe giocare l’India e se pure il Brasile ed il Sud Africa si sono rivelati essere tigri di carta, un nuovo protagonista molto ambizioso e dalle enormi possibilità è oramai sulla scena: la Cina.
La classe dirigente cinese, a differenza delle nostre occidentali, ragiona sui tempi medi e lunghi e sa benissimo che per raggiungere il suo obiettivo, cioè la supremazia mondiale, deve arrivarvi per tappe, giocando tutto il possibile understatement fino al momento opportuno. La scelta dei capi del partito è stata di accumulare immense riserve valutarie grazie ad un’esportazione spesso drogata da un cambio artificiale dello yen, anche a costo di penalizzare il mercato interno. La crescita dell’economia è stata apparentemente lasciata al libero mercato, ma ogni scelta con ricadute strategiche è stata pilotata dal centro e il mainstream della finanza resta saldamente nelle mani del partito. L’illusione che la relativa libertà economica avrebbe innescato anche una maggiore libertà politica è crollata definitivamente con l’ascesa al potere di Xi Jinping che si è subito mosso per stringere i freni a possibili fronde interne ed eliminare, con la scusa della lotta alla corruzione, ogni possibile antagonista al suo potere. Sul piano internazionale il primo obiettivo degli accorti dirigenti dell’”Impero di mezzo” è stato quello di assicurarsi i rifornimenti di tutte le materie prime necessarie e di cui la Cina è carente. Come lo stiano facendo lo si vede in Africa ove, attraverso finanziamenti solo apparentemente generosi, si stanno impadronendo di tutte le maggiori infrastrutture e dei più importanti giacimenti di qualunque elemento strategico. Naturalmente l’Africa da sola, per quanto ricca, non garantisce la sufficiente diversificazione né le quantità necessarie e allora anche in centro e Sud America i contatti (e i contratti) si sono moltiplicati. Il capolavoro di Pechino è però avvenuto anche grazie alla nostra incosciente collaborazione: dopo l’isolamento a cui noi abbiamo costretto Mosca, la certezza di rifornimenti di gas e petrolio attraverso nuovi gasdotti e oleodotti diretti si aggiungono a quelli già in essere con Turkmenistan e Kazakistan. Gradatamente, con il rinforzarsi del suo ruolo economico si è attenuata anche la politica dell’understatment. Il potenziamento di tutti gli armamenti è cominciato da tempo e l’aggressività mostrata nel Mar Cinese Meridionale è la dimostrazione della loro volontà di potenza sempre meno nascosta.
Tuttora molti governi e le imprese occidentali vedono quel Paese soltanto come un grande mercato di sbocco per le merci e come un economico produttore di prodotti a basso valore aggiunto. In pochi hanno cominciato a capire che la produzione più povera non è destinata a rimanere in quel grande Paese ma viene man mano dislocata verso Paesi economicamente più deboli quali Vietnam, Laos, Cambogia o Birmania. L’acquisto di grandi imprese europee e americane con il know-how in loro contenuto rivela quale sia il punto di arrivo della strategia di Pechino. Perfino il volume delle importazioni, già di gran lunga inferiore a quello delle esportazioni, non è proporzionalmente (checché ne pensino gli ottimisti) destinato a crescere, bensì a diminuire. Perfino la Germania, il più grande beneficiario europeo dell’attuale import di Pechino, se ne è resa conto e sta cominciando a sviluppare misure atte a limitare l’invadenza, tramite acquisizioni, del gigante asiatico nella propria economia.
Trump in campagna elettorale sembrò aver capito che era proprio da Pechino che sarebbero arrivati i veri pericoli per la supremazia statunitense e che un buon rapporto con Mosca avrebbe solo fatto bene. Purtroppo, invertire l’interconnessione economica che si era andato creando con la Cina si è rivelato meno facile di quanto il Tycoon aveva immaginato e, una volta eletto, si è reso conto che in quella direzione doveva agire con maggior prudenza. Il massimo a cui può puntare è un parziale riequilibrio della bilancia commerciale e anche in quel campo i cinesi non sono facili negoziatori. Verso la Russia, invece, ha dovuto capovolgere drasticamente il suo approccio. Il sospetto che la sua campagna fosse stata aiutata da Mosca seppur mai una prova si stata esibita e l’attacco continuo da parte dei media e perfino da membri del suo stesso partito lo hanno obbligato a dover dimostrare di non nutrire alcuna particolare simpatia per Putin o per i russi in genere. Fino al punto di accettare e controfirmare l’inasprimento delle sanzioni, contrariamente alla sua precedente intenzione di alleviarle. Congresso e Senato, con lo scopo di legargli le mani, han fatto in modo che la legge fosse contemporaneamente indirizzata anche a Iran e Corea del Nord e, per ulteriore sicurezza, hanno approvato anche un provvedimento che impedisce al solo presidente di modificare qualunque tipo di sanzione senza previo accordo delle Camere.
La decisione russa di espellere i diplomatici americani e porre sotto sequestro loro eventuali beni presenti sul territorio o nelle banche ne è il risultato e così la nuova Guerra Fredda è ufficialmente dichiarata. Gli speculatori e i guerrafondai possono solo esultare: finalmente si è ricreato lo stesso clima di tensione che mancava ai nostalgici di quell’epoca. Le nuove sanzioni non si limitano a colpire le aziende russe o impedire a quelle americane di fare affari con Mosca. Anche le società e le banche europee che volessero continuare a collaborare, a qualunque titolo, con quelle russe nel settore energetico saranno oggetto di ritorsioni Usa. Qualche impresa ha protestato giudicando quanto stabilito controproducente per i propri affari. Tra queste anche la Exxon che, come risposta, è stata subito accusata di aver violato le sanzioni già in essere quando il suo ceo era Rex Tillerson, guarda caso l’attuale segretario di Stato. Anche l’Europa si è dichiarata contraria al nuovo inasprimento dei rapporti, ma lo hanno fatto soprattutto Germania e Francia, i Paesi più coinvolti nella costruzione del nuovo gasdotto North Stream 2. I polacchi, invece, hanno già firmato un accordo per l’importazione di gas liquido americano al posto di quello in arrivo dalla Russia.
Poco importa ai “falchi” che il risultato di tutta questa ostilità contro Mosca la avvicini ancora di più alla Cina. A loro non interessa che l’attuale rapporto con l’Iran, fino ad ora puramente tattico e contingente, si trasformi per reciproca necessità in una asse strategico. Non si accorgono (?) che la Turchia, una volta fedele e interessato membro della Nato, trovi nuovi spazi per un gioco sempre più di fronda.
Mosca nel frattempo gioca le sue carte su tutti i teatri che le sono accessibili e in particolar modo in Siria, ove il suo ruolo è diventato ineludibile. Gli americani, illusi che la storia si ripeta sempre identica a sè stessa, rilanciano la tattica che fu di Reagan: aumentare le spese militari in armi strategiche contando sul fatto che il basso prezzo del petrolio, oggi come allora, non consenta ai russi di seguirli su quella strada e ne derivi ancora il collasso del sistema. Tuttavia a Mosca non sono sprovveduti e, ricchi dell’esperienza passata, investono solo nelle armi tattiche, molto più economiche, ben sapendo dell’improbabilità di uno scontro che ecceda la geografia di prossimità.
Naturalmente la propaganda, da entrambi i lati, ingigantisce le proprie possibilità belliche e sottolinea la necessità di dover reagire adeguatamente all’atteggiamento aggressivo della controparte e così giustifica le nuove spese negli armamenti. Nessuno pensa sinceramente che l’altro abbia veramente l’intenzione di violare i confini o aggredire di altri Paesi. Meno di tutti lo farebbe la Russia che non è certo nelle condizioni economiche di farlo né ne avrebbe alcun interesse. La necessità di soddisfare le crescenti esigenze di consumo dei propri concittadini rende già pesante e ai limiti della sopportabilità finanziaria l’impegno in Siria e il sostegno ai separatisti del Donbass. Aprire altri fronti sarebbe soltanto suicida per chiunque si trovasse al potere a Mosca e Putin ha dimostrato di non essere uno sprovveduto.
Diversamente stanno le cose per gli Stati Uniti. Pur non spingendosi ad immaginare un vero scontro armato diretto, qualcuno a Washington e altrove desidera una Russia sempre più debole (e magari ricattabile per le sue ricchezze) attraverso la sostituzione di Putin con qualcuno molto più addomesticabile.
Ma se anche questo progetto fosse realizzabile e, per assurdo, non ne scaturisse una incontrollabile instabilità mondiale, cosa ne deriverebbe per noi europei e per noi italiani in particolare? La Russia è la più grande riserva al mondo di materie prime, ha abitudini di vita più simili a quelle europee che alle asiatiche e necessita enormemente dei nostri investimenti e del nostro know-how. Il suo sistema burocratico e la bassa produttività del suo sistema produttivo, unito all’inerzia che colpisce come una maledizione tutti i Paesi che vivono di materie prime, non consentono di immaginarla come un pericoloso potenziale concorrente delle nostre economie. Perché dovremmo contribuire a destabilizzarla? Perché, anziché vederla come un utile Paese amico e mercato di sbocco per le nostre imprese, dovremmo considerarla un nemico?
Al contrario, sarebbe naturale per i Paesi europei attirare Mosca in un’orbita la più vicina e la più collaborativa possibile. È esattamente quello a cui puntava Berlusconi quando dichiarò di auspicare, addirittura, il suo ingresso nell’Unione. Era evidente che si trattava di un “limite matematico”: vicinanza all’Europa sempre più stretta senza mai arrivare ad una vera adesione (impossibile e reciprocamente non desiderabile).
Forse è arrivato il momento che il nostro Governo cominci a ragionarci e, pur salvaguardando la nostra leale presenza nella Nato e il nostro essere membri dell’Unione Europea, imponga, sia a Washington sia a Bruxelles, il problema di un saggio e indispensabile cambiamento d’approccio.
Continuare ad approfondire il fossato che ci divide da Mosca può solo costituire la premessa di sviluppi nefasti. La Guerra Fredda di una volta ci salvaguardò da una guerra aperta e diretta anche perché i protagonisti erano, allora, solo in due. I veri scontri (che comunque ci furono) restarono sempre lontani e circoscritti. Oggi le variabili (e le potenze atomiche) sono, ahimè!, più numerose e non è affatto garantito che tutti i governi coinvolti si accontentino degli equilibri attuali e che posseggano sempre quella prudenza e quella saggezza che, nonostante tutto, garantivano una relativa tranquillità.

Rex Tillerson. (Foto eer).

Guerra Fredda. A chi giova? Vai alla prima parte.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.