I giapponesi, amanti della natura. Realtà o stereotipo?

di Francesca Piccini

inquinamentoDa sempre a causa delle poche informazioni che ci arrivano dal paese del Sol levante, la nazione chiusa per eccellenza, noi occidentali vediamo i giapponesi come persone introverse, riflessive, che si commuovono davanti al senso di caducità della natura (mono no aware) e che compongono poesie quasi ermetiche conosciute con il nome di Haiku.
Imprecisioni storiche a parte e letterarie a parte, li consideriamo un tutt’uno con l’ambiente naturale e li immaginiamo all’interno di un giardino zen intenti a meditare davanti ad un fiore di ciliegio appena sbocciato.
Questa visione molto poetica è la diretta conseguenza del libro scritto dall’antropologa statunitense Ruth Benedict “Il crisantemo e la spada”, pubblicato su richiesta del presidente degli Stati Uniti Harry Truman tramite il Servizio Informazioni Militari nel 1945, per saper come potersi comportare durante l’occupazione del paese negli anni 1945-1952. Tuttavia Ruth Benedict non andò mai in Giappone per compiere degli studi sul campo, ma apprese le sue notizie su articoli scritti da alcuni esperti dell’area asiatica che avevano analizzato solo i primi decenni del 1900, periodo impregnato dalla figura autoritaria dell’imperatore e dallo Shinto di Stato.
A quest’istituzione religiosa, fondata nel 1868 durante la Restaurazione Meiji (1868-1912), venne dato il compito di legittimare il potere dell’imperatore, per secoli lasciato nell’ombra, riportando in auge le antiche leggende locali e attribuendo alla dea del Sole Amaterasu la discendenza divina della famiglia imperiale. Inoltre, riprendendo delle teorie neo-confuciane di Zhu Xi, reinterpretate a loro volta da Hayashi Razan, in cui equiparavano il Li (principio positivo d’ordine razionale immanente nel mondo) ai Kami (gli dei locali), teorizzarono l’ascendenza divina del popolo giapponese. Continuarono anche l’usanza di venerare i Kami alterando l’ambiente naturale, costruendo le porte rosse (Torii) in luoghi sacri o aggiungendo delle corde intrecciate (Shimenawa) ad alberi e rocce. Da qui il sodalizio con la natura.
Ma è proprio vero che i giapponesi sono così rispettosi nei confronti della natura?
Pochi lo sanno, ma in Giappone, ben prima dell’incidente di Fukushima, ci furono dei gravissimi disastri ambientali, tanto che venne coniato il termine Yondai Kōgai (letteralmente: malattie delle quattro grandi contaminazioni) per indicare le sindromi causate dal forte inquinamento tossico provocato dalle industrie.
Dalla fine del 1800 il Paese iniziò la corsa alla modernizzazione aumentando l’attività estrattiva per soddisfare il fabbisogno sempre crescente di metalli e carbone richiesto dalle grandi zaibatsu, le grandi concentrazioni industriali e finanziarie come la Mitsubishi, Mitsui, Sumimoto e Yasuda.
Il più grande complesso minerario dell’epoca posseduto dalla Mitsui Mining and Smelting Company era situato nel comune di Toyama, zona a ovest di Tokyo affacciata sul Mar del Giappone, e forniva oro, argento, zinco, rame e piombo.
Con la Guerra Russo-Giapponese del 1904-1905, la Prima Guerra Mondiale ed ancora di più con la Seconda, l’attività estrattiva aumentò in modo esponenziale facendola diventare una delle più importanti miniere al mondo. Con tale attività arrivò anche l’inquinamento.
Nel fiume Jinzu, da sempre usato per l’irrigazione dei campi, fare il bucato, pescare ed anche per bere, furono riversate ingenti quantità di cadmio ed altri metalli pesanti. I primi sintomi si iniziarono a vedere nel 1912 quando molti abitanti della zona iniziarono a lamentare dei forti dolori alle ossa e dei problemi ai reni. Infatti, l’inquinamento da cadmio, come si scoprì in seguito, provoca l’osteomalacia, una malattia che colpisce ed indebolisce lo scheletro, provoca deformazioni alle ossa lunghe, del cranio e l’ingrossamento delle giunture; è anche conosciuta come rachitismo; si collega quindi a insufficienza renale e anemia.
Dopo alcuni anni la ditta costruì un piccolo bacino per contenere le acque reflue, però risultò inefficace.
Solamente nel 1955 si scoprì la causa della malattia e, dato i forti dolori accusati dagli abitanti, le si diede il nome di Sindrome itai-itai, dal termine giapponese itai, provar dolore.
A Minamata invece, provincia di Kumamoto nell’isola di Kyushu, si registrò dal 1932 al 1968 la Sindrome di Minamata, chiamata anche Malattia di Chisso-Minamata: nel 1932 la Nichitsu zaibatsu iniziò a produrre acetaldeide usando il mercurio come catalizzatore nel suo impianto di Minamata. Anche quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la zaibatsu venne fatta chiudere dagli Alleati per crimini di guerra, continuò la sua attività sotto il nome di Shin Nichitsu (Nuova Nichitsu). Fino al 1968 vennero rilasciate tramite le acque reflue di quest’impianto ingenti quantità di metilmercurio nella baia contaminando i pesci e i molluschi, principale fonte di cibo per gli abitanti della zona, oltre al riso.
Nel 1956 venne scoperta ufficialmente la malattia grazie ad un dottore dell’ospedale della compagnia, Hajime Hosokawa, che registò: “un’epidemia sconosciuta che provoca problemi al sistema nervoso”.
L’avvelenamento da mercurio causa atassia, paressia, indebolimento del campo visivo, perdita di udito, paresi e, nei casi più gravi, la morte.
Solamente nel 1963 si scoprì quale fosse la causa; nel 1965 l’azienda decise di cambiare il nome in Chisso Corparation e, tre anno dopo, smise di rilasciare metilmercurio.
Poi, per non rendere la cosa pubblica, si appoggiarono alla yakuza (la mafia giapponese) che intimò il silenzio agli abitanti tramite ricatti. Questi, in risposta, iniziarono ad organizzarsi per comprare le azioni della Chisso, in modo di aver accesso all’assemblea dei soci e ad accusare l’esecutivo. Un migliaio di azionisti si riunirono quindi il 28 novembre 1970 davanti alla sede di Osaka per partecipare alla riunione, ma l’azienda si servì nuovamente della yakuza per farli desistere. Ricorsero ancora una volta alla malavita organizzata, in questo caso per una missione punitiva, quando un photoreporter americano, W. Eugene Smith, pubblicò un saggio fotografico in cui si ritraevano le lesioni e le malformazioni alla nascita causate dalla Chisso.
Stando ai dati aggiornati al 2001 del Ministero dell’Ambiente giapponese, si contano 2265 vittime, di cui 1784 decedute. Inoltre la zona intorno alla baia è state dichiarata sicura solamente nel 1997.
Con il passaggio dal carbone al petrolio avvenuto nel 1955 si diede il via alla costruzione del Daiichi Petrochemical Complex su richiesta del Ministero del Commercio Internazionale e dell’Industria. Completato l’anno seguente, costituito da una raffineria una centrale petrolchimica ed una centrale elettrica, fu il primo complesso petrolchimico costruito in Giappone.
Nel 1960, su ordine del Primo Ministro Hayato Ikeda di aumentare la produzione, venne aperto un complesso anche a Yokkaichi, nella Provincia di Mie, integrato da un secondo nel 1963 e da un terzo specializzato in etilene nel 1972.
Il petrolio grezzo utilizzato nell’impianto, estratto nel Medioriente, conteneva il 2% di zolfo e, una volta bruciato, rilasciava ossido di zolfo che si accumulava e creava il caratteristico smog bianco della città. Questa sostanza porta a delle malattie respiratorie come l’ostruzione polmonare cronica, l’enfisema polmonare cronico, la bronchite cronica e l’asma bronchiale. Da qui la definizione di Yokkaichi asma.
Nel 2008 un gruppo di ricercatori della Mie University e Hiroshima University scoprirono che il tasso di mortalità di Yokkaichi per Bpco, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ed asma è fino a 20 volte superiore rispetto al resto della popolazione della provincia.
All’inizio si cercò di limitare l’inquinamento della zona costruendo delle ciminiere più alte, ma si rivelò inefficace. Ultimamente però, con la desolforazione dei gas su larga scala, si riscontra un miglioramento.
Nel 1965 nella Provincia di Niigata, si riscontrarono gli stessi sintomi di avvelenamento da mercurio propri dell’area di Minamata e per questo venne definita Sindrome di Niigata-Minamata. Analogamente a quel caso, la fabbrica Showa Denko, nella città di Kanose, rilasciò metilmercurio dalla produzione di acetaldeide catalizzata da mercurio solfato nelle acque reflue che davano sul fiume Agano.
I primi a subirne le conseguenze furono i gatti della zona che morirono in massa, poi, pian pianino, iniziarono ad ammalarsi anche gli abitanti.
A differenza del caso Minamata però, l’immediata scoperta della malattia e la prima querela del 1968 contro la compagnia, permisero nel 1971 alle famiglie dei deceduti di ottenere dieci milioni JPY come risarcimento, mentre ai malati da 1 a 10 milioni in base alla gravità dei sintomi.
Un altro caso eclatante, però non conteggiato tra i grandi casi di inquinamento, fu l’avvelenamento da arsenico dovuto ad una miniera del Toroku, provincia di Miyazaki, appartenente alla Sumimoto Metal Mining Company.
Negli anni 1920-1941 e 1955-1962 ci fu lo sfruttamento della miniera con il conseguente inquinamento da arsenico dovuto alla frantumazione dell’arsenopirite, una roccia molto comune nella zona. Cinque persone che abitavano nelle vicinanze morirono intorno al 1930 assieme a vari capi bestiame.
Nel 1967 la proprietà passò alla Sumimoto che continuò a non curarsi del veleno.
Solamente nel 1973 venne riconosciuto ufficialmente il problema con la Legge per il risarcimento per i danni alla salute causati dall’inquinamento in seguito a degli studi condotti l’anno precedente sul cancro da Toshihide Tsuda, chiamato “An Epidermiological Study on Cancer in Certified Arsenic Poisoning Patients in Toroku”. Lo studio analizzò 141 (85 ex-dipendenti e 56 residenti) pazienti affetti da avvelenamento da arsenico. I sintomi riscontrati furono, oltre al cancro ai polmoni e reni, il tumore alla pelle, difetti al setto nasale e Malattia di Bowen, una lesione cutanea pre-maligna.
Nel 1975 il caso venne portato in tribunale ed il tutto si concluse nel 1990 con un compromesso.
Ci furono anche numerosi casi di sostanze cancerogene ritrovate nelle falde idriche, tanto si ritenne necessario fare la Legge per il controllo dell’inquinamento dell’acqua nel 1989.
Inoltre, a causa del rischio di inquinamento da diossina dovuto agl’innumerevoli inceneritori, furono varate delle norme negli Anni Novanta per fissare la quantità di diossina che avrebbero potuto emettere i nuovi impianti: 80 nanogrammi per metro cubo. Nel 1996 venne emessa anche la Legge per il controllo dell’inquinamento dell’aria contro il benzene, tricloroetilene e tetracloroetilene con il fine di limitare le piogge acide. Un anno dopo, venne ulteriormente abbassato il limite della diossina a 5 nanogrammi.
Nelle grandi metropoli come Tokyo, Yokohama, Osaka e Kobe è presente anche il fenomeno di inquinamento acustico ed atmosferico dovuto al traffico intenso.