Il Fezzan non è soltanto un deserto

di Eva C. Mueller-Praefcke

Nel cuore del deserto del Sahara vivono indicativamente mezzo milione di persone, per buona parte Tuareg e Tebu, in un’area che si sviluppa su poco più di mezzo milione di Kmq (all’incirca il doppio del territorio italiano) caratterizzata da un arido deserto di sabbia fine (ramlat), di pietre e altipiani rocciosi (hamadat), ma anche di oasi diffuse che assicurano l’acqua all’intero territorio, quasi sempre raggiungibile attraverso pozzi di scarsa profondità.
Si tratta della regione del Fezzan, in passato conosciuta come Phasania e abitata da popolazioni berbere che Erodoto chiamava Garamanti, e oggi una delle tre province della Libia, che occupa la parte sahariana a sud della Tripolitania, sino al confine con l’Algeria e con la Cirenaica, lambendo anche il Niger e il Ciad.
Sempre in bilico tra le influenze del mondo mediterraneo e quelle del mondo sahariano, la regione sembra aver subito in passato l’influsso, ma anche il traffico commerciale, della civiltà romana. Interessanti ritrovamenti sono infatti stati fatti più interessanti sono costituiti dalle sepolture, in buona parte riconducibili all’età romana, ma anche al periodo tardo-romano e proto-bizantino, queste ultime indicativamente nei secoli VI e VII.

Oltre a vaste pianure formate di arenaria, nella regione sono frequenti anche tracce di canalizzazioni non più in uso (fogarat), che presumibilmente costituivano lo strumento più idoneo per la raccolta delle acque piovane (in gran parte della Libia mancano i fiumi). I Tuareg chiamano infatti questo territorio Targa, che in lingua berbera vuol dire “canale d’irrigazione”, e da qui la denominazione araba di “targi”, abitanti della Targa, il cui plurale è appunto Tuareg.
Il nome della regione (Fazaz) venne attribuito dagli storici arabi durante il dominio dell’impero ottomano nel secolo XVI, un controllo che lasciò comunque al territorio e alle tribù che lo abitavano una sostanziale indipendenza.
Attraverso l’islamizzazione della regione si è diffuso l’allevamento del dromedario, di sicuro apporto al commercio trans-sahariano, favorendo l’importanza della città di Murzuch (oggi il centro amministrativo è Sabha) e più in generale la commistione tra le popolazioni arabe e quelle berbere.
In tempi più recenti i tentativi del governo libico di creare infrastrutture adeguate e impianti di irrigazione (ma anche di rendere sedentaria una popolazione tradizionalmente nomade) non sembrano aver prodotto i risultati desiderati, specialmente con l’utilizzo della irrigazione artificiale, che ha invece provocato un serio pericolo di salinizzazione nei confronti di un territorio già particolarmente vulnerabile.

La superficie utilizzabile per l’agricoltura e per il pascolo è infatti molto modesta – i calcoli indicano poco più di centomila ettari, e soltanto tremila irrigati – con palmeti e magri pascoli, a stento sufficienti per l’allevamento di bovini e cammelli arabi. Grazie ai palmeti comunque sono possibili le coltivazioni di cereali, in particolare frumento, orzo e miglio.
Al momento non è dato sapere se sono presenti risorse minerarie, ma di recente sono stati scoperti alcuni grandi giacimenti di petrolio, che lasciano presagire una particolare ricchezza del sottosuolo. In ogni caso, nel mese di dicembre del 1957 venne scoperto il primo giacimento di petrolio nel Fezzan, ma le successive vicende della regione ne ostacolarono il relativo sfruttamento completo e le pertinenti indagini del sottosuolo, così come accaduto, in buona parte, ai giacimenti di potassio, manganese e zolfo rinvenuti in Cirenaica più o meno nello stesso periodo.

Il Fezzan rimane comunque una delle regioni meno conosciute, e anche meno studiate, del continente africano, e sicuramente della sua area settentrionale. In effetti, la brevità dell’occupazione italiana del 1914 non permise una sistematica esplorazione scientifica, e per certi aspetti anche quella del 1929; l’occupazione francese durò dal 1943 al 1951, anno in cui la regione entrò a far parte della Libia (il 21 novembre 1949, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamò, con effetto dal 1 gennaio 1952, l’indipendenza della Libia, il primo Stato creato dall’Onu).
La popolazione non si presenta omogenea, essendo costituita da Berberi, Arabi, Haussa, Tuareg e Tebu, senza contare le comunità nere emigrate dal sud (per alcuni storici potrebbero anche essere le popolazioni originarie).
È universalmente praticata la religione islamica, con forte influenza dell’eredità senussita (nomadi e guerrieri sono stati a lungo legati da rapporti politici e religiosi con la Senussa, ostile alla Cirenaica). La corona della Libia venne cinta dall’emiro della Cirenaica, Mohammed Idriss el Mahadi el Senussi, della potente famiglia dei Senussi. Nipote del fondatore dell’ordine, e in seguito a capo dell’ordine per diritto successione, il re salì al trono nel mese di dicembre del 1951 e favorì una concezione religiosa improntata al fervore e alla devozione.

Sin dall’indipendenza, Tripoli ha manifestato una forte impronta occidentale (sede delle rappresentanze diplomatiche e consolari), mentre Bengasi ha espresso il predominio e la salvaguardia della tradizione (residenza del re).
Il numero degli abitanti è sempre stato incerto per una serie di motivi, alcuni dei quali riconducibili all’alto grado di mortalità (infantile e non) e agli spostamenti di massa provocati dalle differenti vicende politiche.
Tradizionalmente vissuto come una grande via di transito per il commercio tra il Mediterraneo e il Sudan, attraverso il Fezzan passavano le grandi vie carovaniere da Tripoli e Bengasi verso le regioni sudanesi centrali (in epoca romana, via di transito di avorio e belve per gli spettacoli cittadini). Tramontato il traffico carovaniero, la regione ha sfruttato le oasi irrigue per vitalizzare gli aspetti agricoli (in alternativa, soltanto la soda naturale, l’intreccio di foglie di palma e lo scarso artigianato in cuoio).

(Foto WikiCommons / Bashar Shglila).

Suddivisa tra Libia, Algeria, Marocco (per lo più nel sud est), Mali e Niger, la popolazione Tuareg è composta all’incirca da 300mila individui. Le diverse tribù (kel) parlano varianti della lingua tamacheq, di discendenza berbera, e conservano una forma di scrittura (tifinagh) simile alle antiche grafie diffuse in tutta l’Africa del nord. Gli arabi coniarono per loro il termine dispregiativo “tuareg” ( abbandonati da Dio ), ma essi parlano di se stessi come “Imohag”, uomini liberi.
Rispettando una tradizione ereditata dalla cultura arabo-mussulmana, la società di questi indigeni è strutturata in tre classi: nobili, uomini liberi e schiavi. I nobili (che un tempo rispettavano una rigorosa endogamia praticata all’interno della propria casta) rappresentano l’antica classe guerriera (possiedono il monopolio delle armi) e allevano soltanto dromedari, mentre l’allevamento di capre e montoni è affidato dai nobili ai vassalli, pur sempre alle loro dipendenze.
A queste categorie dominanti si aggiungono i servi e gli ex schiavi di origine nera (queste classi inferiori svolgono attività agricole, artigianali e domestiche, ma sempre per conto delle caste superiori). Anche tra gli schiavi esistono diversità sociali regolate da leggi riguardanti il patrimonio, i matrimoni e persino il territorio.
Secondo il pensiero tuareg nessun essere, nessun oggetto, saprebbe esistere senza la protezione di un rifugio, la tenda assume così un’importanza fondamentale per questa popolazione. Il nomadismo esercitato infatti, impone la necessità di strutture abitative leggere e facili da montare e smontare: tende di pelle di capra conciata e tinta con argilla scura, sostenute da pali di bambù e conosciute come le “tende nere”. Esistono anche strutture a cupola, di forma reticolare con pali di legno flessibili e fissati con legacci di pelle di dromedario, si tratta delle cosiddette “cupole”, presenti però in Niger e Ciad.
L’arredamento delle abitazioni è ridotto al minimo: stuoie, tappeti e poche stoviglie. Ma non mancano mai i tamburelli (tarija), il cui suono è di compagnia e rende meno solitarie le lunghe notti del deserto. Negli accampamenti la vita è estremamente semplice, con le bambine che intonano strofe tradizionali sotto la guida di una maestra.
Il pozzo è il nodo cruciale degli spostamenti nel Sahel. Oltre che necessario per l’approvvigionamento dell’acqua, rappresenta uno strumento di socializzazione tra i membri delle carovane, che spesso trascorrono più di un mese senza mai incontrare una persona.

I Tuareg sono gli eredi dell’antico popolo dei Garamanti, gli stessi citati da Erodoto, e sono anche chiamati gli “uomini blu” per l’abitudine di indossare sempre un turbante color indaco chiamato “taguelmust”. Questo turbante, che lascia scoperti solo gli occhi, è indossato esclusivamente dagli uomini.
L’antica usanza di coprire il volto ha origini ancora poco definite. Si ritiene che sia una sorta di ritrosia a mostrare la bocca di fronte alle donne e agli stranieri. Per altri, si tratta soltanto di una protezione del volto dai raggi cocenti del sole e dai sabbiosi venti del deserto. Infine, alcuni ritengono che sia a causa dell’ancestrale timore di inalare gli spiriti maligni.
Le donne si muovono invece a viso scoperto pur essendo di religione mussulmana (è sufficiente un velo che copra solo la testa), e godono di una certa importanza e libertà, specialmente se riferite ad altre culture islamiche, poiché considerate le custodi della tradizione orale e quindi la figura più intelligente della famiglia.
Inoltre, sono libere di praticare, al pari degli uomini, rapporti sessuali liberi, sia prima che dopo il matrimonio. Singolare è la situazione generata da un eventuale divorzio: poiché le tende sono di proprietà della donna, il marito è costretto a cercare una diversa collocazione presso parenti di sesso femminile. Le donne sono solite fare largo uso di cosmetici, sia per fini estetici che medicamentari.
Oggi i Tuareg praticano la monogamia ed è l’uomo a portare in dote un certo numero di dromedari alla famiglia della sposa. Di contro, sia la tenda che l’arredamento vengono offerti dalla famiglia della sposa e rimangono di proprietà della donna (preferibilmente, la coppia di sposi deve appartenere alla stessa casta).
Le tende vengono costruite durante la cerimonia nuziale e sono allocate presso il luogo di provenienza dell’uomo, contribuendo in questo modo alla particolare definizione di società patrilocale e matrilineare.
Quando i mercanti arabi diffusero la religione islamica nella regione, affidarono ai Tuareg i traffici commerciali lungo le rotte che attraversavano il deserto del Sahara, con carovane di dromedari cariche di oro, sale e datteri, che i Tuareg trasportavano in cambio di miglio, cereali e stoffe.
Sembra però che nella religione islamica oggi praticata, persistano ritualità e credenze di un precedente animismo, probabilmente a causa di una antica eredità della mitologia berbera.
Il tradizionale rito del the ricorda proprio il periodo delle traversate nel deserto. Consumato la sera presso l’accampamento, il the viene servito per tre volte, che secondo la tradizione vanno divise in una per l’ospite, una per sé e una per Allah. Parimenti, si propongono le tazze di the, sempre per tre volte, con diversi gradi zuccherini: forte come l’amore, amaro come la vita e dolce come la morte.
In tempi più recenti, le tribù dei Tuareg sono state inserite nelle strutture statali dei vari paesi, anche se i tentativi di sedentarizzazione si sono dimostrati vani, presumibilmente a causa della spiccata insofferenza verso qualsiasi restrizione imposta alla libertà di spostamento.
Questa situazione ha comunque scatenato conflitti aperti nei confronti dei governi nazionali, e spesso, dopo i periodi di siccità, nei campi profughi che li ospitavano sono scoppiate violente insurrezioni. Inoltre, in alcuni paesi la resistenza armata dei Tuareg ha provocato una guerra civile, ancora oggi irrisolta, come nel caso del Mali.
Di conseguenza, i Tuareg sono sempre stati oggetto di un difficile percorso di integrazione, e soltanto pochi elementi si sono inseriti nell’industria turistica. Conosciuti come predoni di antica fama, sembra che ancora oggi mantengano questa attitudine nei confronti di locali e turisti occidentali.

I Tebu, il Popolo delle Rocce, vivono in un’area particolarmente vasta e praticano la pastorizia nomade, per lo più di dromedari e ovini, ma altresì agricoltura e coltivazioni di datteri, utilizzando anche loro tende facilmente smontabili e rimontabili. Sono meno conosciuti dei Tuareg a causa della loro collocazione in aree estreme e decentrate, provocata dall’arrivo delle popolazioni arabe sul territorio.
In particolare, le abitazioni formano una struttura ellittica di legno ricoperta da stuoie intrecciate, e questi elementi sono apparsi agli antropologi culturali come espressioni alquanto primitive, probabilmente non tipiche africane ma piuttosto asiatiche (in passato erano soliti vivere all’interno di caverne naturali).
Oltre alle particolarità dell’abbigliamento, anche questa popolazione ha adottato un velo maschile che copre il volto lasciando una stretta fessura per la vista. Le donne amano portare ornamenti appariscenti tra i capelli e sul viso, oltre a tatuarsi le labbra con un colore azzurro scuro (i metalli vengono lavorati da individui appartenenti a una classe inferiore detti “aza”).
L’unità sociale di base è costituita dalla famiglia patriarcale normalmente monogama, anche se i nobili hanno in genere una moglie in ogni località dove possiedono beni. Così come i Tuareg, i Tebu conservano nelle pratiche islamiche antichi riti di origine pagana.
Singolare il fatto che la loro identità, e persino la stessa coesione etnica, sia declinata soltanto dalla lingua parlata piuttosto che dall’organizzazione sociale (per i popoli vicini, si tratta di uomini duri, solitari e montanari).

Nel 2014 sono scoppiati aspri combattimenti tra Tuareg e Tebu, e una fragile tregua è stata firmata soltanto nel mese di luglio del 2015, a Sebha, la principale città del Fezzan, un trattato che ha decretato la fine delle ostilità e gettato le basi per il raggiungimento di una pacificazione dell’area (rilascio dei prigionieri e ritorno delle popolazioni nelle zone di origine).
Anche se questa guerra civile locale è sembrata riferita alla più ampia disputa nazionale per la conquista del potere (i Tebu schierati con il governo di Tobruch e i Tuareg con quello di Tripoli), alcuni analisti hanno prospettato una dinamica più ampia per il controllo del territorio nel quale i due gruppi convivono.
In effetti, si tratta di un’area di particolare valenza strategica, sia a causa della vicinanza con l’Algeria e il Niger (dove i confini particolarmente porosi favoriscono i traffici illeciti) che per l’importanza dei giacimenti petroliferi presenti (in particolare nell’area di el Sharara).
Approfittando della mancanza di un potere centralizzato forte, le due popolazioni avrebbero fatto ricorso alle armi per definire un nuovo equilibrio territoriale ed estendere la propria area di influenza, alla ricerca di redditizie ricadute economiche (dopo il regime di Gheddafi, molti gruppi etnici minoritari hanno cercato di raggiungere una sorta di autodeterminazione e di radicamento locale).
Comunque, anche se gli attori nazionali non hanno svolto un compito primario, il loro è stato un ruolo ugualmente importante, che ha purtroppo permesso a queste popolazioni nomadi, con limitate disponibilità economiche, di condurre una guerra prolungata e cruenta.
I maggiori scontri si sono concentrati nelle città di Ubari e Ghat, con danni economici incalcolabili, decine e decine di sfollati e centri di assistenza medica senza medicinali e materiali per il primo soccorso.
Rimangono ancora molte perplessità sulla tenuta di questa tregua, già caratterizzata da scontri sporadici per l’effettiva realizzazione di un’amministrazione locale condivisa.
Quindi il Fezzan, anche se geograficamente identificato come un’area desertica, non è certo disabitato, ma piuttosto animato da scontri etnici e leggi tribali, se non quando da pesanti rivolti anarchici.
Le milizie armate riescono a gestire traffici di droga, essere umani, contrabbando e armi leggere, senza contare il redditizio mercato nero del petrolio, stimati all’incirca nel 70% delle entrate economiche della regione (se vogliamo, una reazione nevrotica alle vecchie politiche di Gheddafi basate esclusivamente sul livello tribale di fedeltà).

La rotta dei migranti che provengono dall’area sub sahariana si snoda lungo l’antica via carovaniera passando per Agadez-Dirkon-Sebha, per poi tentare di attraversare il Mediterraneo e approdare in Europa. Ricordiamo però che la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra del 1951, di conseguenza i profughi sono considerati al pari di un immigrato clandestino, inoltre non mancano gruppi criminali che approfittando della loro condizione di vulnerabilità, riescono ad esercitare nei loro confronti gravi torture e violenze. Secondo quanto riferito dal quotidiano Libya Herald, in occasione dell’accordo dell’Italia con le tribù del Fezzan avente scopo di regolare la questione dei flussi migratori, il Ministro dell’Interno italiano Minniti avrebbe affermato che sigillare la frontiera meridionale della Libia significa sigillare la frontiera meridionale dell’Europa.
Un’area decisamente inquieta quindi, incitata dalle presenze islamiche estremistiche, dalla Fratellanza Mussulmana ad al Qaeda nel Maghreb Islamico, senza contare la minacciosa presenza di Boko Haram, la rilevante milizia islamista nigeriana, presente in tutta l’area circostante. In altri termini, un terreno assai fertile per le organizzazioni islamiste più potenti e strutturate.
Ulteriore problema è l’afflusso di miliziani dello Stato Islamico, che sembrano intenzionati a stabilire nel Fezzan (un territorio sterminato, difficile da sorvegliare anche con l’utilizzo di droni, e quindi ideale per organizzare un rifugio sicuro e gestire campi di addestramento) la nuova base operativa del Califfato. Se ciò accadesse vi potrebbero essere drammatiche conseguenze non solo sui tentativi di ristabilire la difficile unità della Libia, ma anche sull’intero continente europeo.
Nella migliore delle ipotesi, per gli analisti questa storica regione è destinata a generare un conflitto a bassa intensità prolungato nel tempo.