Il Medio Oriente secondo John Bolton

di Giovanni Ciprotti

A Donald Trump sono bastati meno di dieci giorni per ridefinire il nucleo centrale della squadra presidenziale che lo assiste e lo consiglia nei suoi rapporti con il resto del mondo.
La nomina di Mike Pompeo a segretario di Stato al posto di Rex Tillerson il 13 marzo scorso è stata seguita tre giorni fa dalla sostituzione del generale Herbert McMaster con John Bolton alla carica di consigliere per la Sicurezza nazionale. Un posto di primissimo piano nel gabinetto presidenziale, occupato in passato da personaggi del calibro di Henry Kissinger.
John Bolton appartiene al gruppo dei neo-conservatori, l’ala del partito repubblicano che nel 2001 portò George W. Bush alla Casa Bianca. Il 26 gennaio 1998 Bolton firmò, assieme ad altri “neocon” come Paul Wolfowitz e Donald Rumsfeld, una lettera indirizzata al Presidente Bill Clinton nella quale lo esortavano a compiere tutti i passi necessari, incluso l’uso della forza militare, per rimuovere Saddam Hussein (1).
Bill Clinton non esaudì la richiesta del gruppo “neocon”, riunito in un think-tank che nel nome aveva la sua missione: “Project for a New American Century” (PNAC).
Avrebbe provveduto Bush jr., cinque anni dopo, a mettere in pratica il piano del PNAC, coadiuvato da molti dei personaggi che avevano firmato la lettera o, come Dick Cheney, che risultava tra i fondatori del centro di ricerca, per proteggere “i vitali interessi statunitensi nel Golfo”.
John Bolton servì l’amministrazione Bush come ambasciatore presso l’Onu tra il 2005 e il 2006, impegnato nella difficile impresa di convincere il mondo che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa e di conseguenza l’invasione dell’Iraq e la successiva esecuzione di Saddam Hussein erano ampiamente motivate e rispettose del diritto internazionale.
Il 26 novembre 2015 Bolton fece parlare nuovamente di sé, presentando un progetto per il riassetto dell’area mediorientale, sconvolta prima dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003, quindi dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 e infine dalle operazioni militari dell’Isis.
La proposta di Bolton contemplava la nascita di quattro stati: un Sunnistan, comprendente quasi tutto il territorio dell’attuale Siria e la parte occidentale dell’Iraq, zone a prevalenza sunnita; uno stato Alawita, nella regione costiera della Siria, governato dal presidente Assad o dai suoi successori, per offrire una dignitosa via d’uscita alla fazione attualmente al governo in Siria; un Iraq sciita, coincidente con la parte sudorientale dell’Iraq, tra Bagdad e Bassora, territorio a maggioranza sciita; un Kurdistan, costituito da porzioni di territori sottratti a Siria, Turchia, Iraq e Iran per dare ai curdi un loro stato indipendente.
Un progetto ambizioso, che estende la formula “due popoli-due stati” da tempo proposta per la soluzione al conflitto tra palestinesi e israeliani.
La proposta dell’ex ambasciatore statunitense ha il grande merito di ipotizzare uno scenario per il futuro dell’area, quando come si spera l’Isis verrà definitivamente sconfitto e la guerra civile siriana avrà fine. Un modo per non ripetere il grave errore commesso da Washington ai tempi dell’invasione dell’Iraq, quando l’obiettivo principale era la rimozione di Saddam Hussein, ma non c’era alcuna idea sul successivo riequilibrio della regione.
Come consigliere per la Sicurezza Usa vorrà Bolton tentare di realizzare il suo piano “a quattro Stati”? E nel caso, quale probabilità di riuscita è ipotizzabile?
Al tempo della proposta, nel 2015, l’Isis era ancora forte in alcune zone e la Turchia non era ancora entrata in gioco come ha fatto recentemente, avviando l’operazione “Ramoscello d’ulivo”, con l’obiettivo primario di rimuovere qualsiasi base di rivendicazione futura delle fazioni curde. Inoltre, tra Stati Uniti e Turchia non si erano ancora incrinati i rapporti, progressivamente peggiorati a partire dal fallito colpo di stato turco del luglio 2016 e il graduale avvicinamento della Turchia a Mosca e Teheran in merito alla crisi siriana.
La creazione di nuovi confini tra un’area sunnita e un’area sciita potrebbe essere migliorativa rispetto a quelli tracciati all’inizio del XX secolo da Francia e Gran Bretagna, ma presuppone la possibilità di dare vita a due zone omogenee dal punto di vista religioso, risultato tutt’altro che scontato da conseguire.
Lo stato alawita sulla costa mediterranea offrirebbe una dignitosa via d’uscita alla fazione governativa di Bashar al-Assad e probabilmente lascerebbe alla Russia di Vladimir Putin l’uso della base navale di Latakia, fondamentale per la proiezione mediterranea di Mosca, ma priverebbe il neo stato sunnita, il Sunnistan, di uno sbocco al mare: una penalizzazione potenzialmente generatrice di future rivendicazioni territoriali.
L’Iraq sciita sarebbe senz’altro benvoluto dall’Iran, che in qualche misura guadagnerebbe il controllo dei terminali petroliferi nella zona costiera di Bassora e della parte irachena più ricca di petrolio e gas. Ma qualcuno a Washington potrebbe sollevare obiezioni per l’eccessivo vantaggio strategico concesso ad uno dei principali avversari nella regione.
E infine il Kurdistan, la cui nascita sarebbe accolta con prevedibile giubilo dai curdi, ma con quasi altrettanta soddisfazione soltanto dagli Stati Uniti. Gli altri Paesi dell’aera, tra cui la Turchia, dovrebbero rinunciare a porzioni del proprio territorio per consentire la formazione dello stato curdo. La già citata operazione militare turca “Ramoscello d’ulivo” rappresenta un palese ostacolo alla costituzione di una nazione curda indipendente.
L’inconciliabilità di alcuni degli interessi nella regione potrebbe costringere gli Stati Uniti, nel caso volessero mettere in pratica il “piano Bolton”, ad usare la forza per raggiungere gli obiettivi prefissati. E Bolton, da sempre sostenitore dell’uso dell’opzione militare come elemento centrale della strategia statunitense, non getterebbe certo acqua sul fuoco. Dalla sua posizione di Consigliere per la Sicurezza Nazionale sarebbe più influente oggi di quanto non lo sia stato quindici anni fa all’epoca dell’invasione statunitense dell’Iraq e potrebbe indurre Donald Trump ad abbandonare la posizione isolazionista abbracciata finora per intervenire “manu militari” nell’area mediorientale, con o senza l’avallo delle Nazioni Unite. Potremmo assistere ad una riedizione della “coalition of willings” dei tempi di Donald Rumsfeld.
Negli anni Settanta del secolo scorso, il senatore americano William J. Fullbright scrisse:
“La compiacente accettazione delle cose militari è uno degli avvenimenti più pericolosi per il futuro dell’America moderna. Mi sembra che ci siamo assuefatti in un modo penoso alla guerra. Per oltre quattordici degli ultimi ventotto anni siamo andati a combattere da qualche parte e per gli altri quattordici siamo stati pronti a combattere quasi ovunque. La guerra e l’apparato militare sono, come l’inquinamento, divenuti parte delle condizioni ambientali” (2).
E John Bolton è senza dubbio parte della guerra e dell’apparato militare.

Note:
1 – cfr. “We urge you to articulate this aim, and to turn your Administration’s attention to implementing a strategy for removing Saddam’s regime from power. […] We believe the U.S. has the authority under existing UN resolutions to take the necessary steps, including military steps, to protect our vital interests in the Gulf”.
2 – cfr. William J. Fullbright, La macchina di propaganda del Pentagono, Editori riuniti, 1972, p. 32.