Il Messico e il femminicidio

di Marco Dell’Aguzzo

Scarpe rosse““Every Body Counts” è un resoconto che è stato pubblicato lo scorso 8 maggio sul sito della Dichiarazione di Ginevra sulla violenza armata e lo sviluppo e che analizza la diffusione e le cause della violenza nei vari paesi del mondo. Incentrando qui il discorso sul femminicidio (ossia l’omicidio di una donna in quanto donna), quello che si può dire sul Messico è che non ne esce affatto bene.
Il Messico si trova al ventitreesimo posto tra i primi venticinque paesi per più alto tasso di femminicidi dal 2007 al 2012, mentre la percentuale delle donne uccise con armi da fuoco in Messico, nello stesso periodo, è la decima più alta al mondo.
Un paragrafo del terzo capitolo di “Every Body Counts” è addirittura dedicato a Ciudad Juárez, stato di Chihuahua, che è stata soprannominata «città letale per le donne» (e non solo, considerato che «gli uomini continuano ad essere le prime vittime della violenza»). Questo decisamente poco invidiabile epiteto è dovuto alle centinaia e centinaia di donne, molto spesso giovani ragazze e adulte in precarie condizioni economiche, che a Juárez sono state assassinate da quando si è iniziato a tenere un conteggio, e cioè dal 1993, quando venne ritrovato il corpo senza vita della tredicenne Alma Chavira Farel, violentata e poi strangolata. «¡Ni una más!», non una di più, era il grido di ieri. E quello di oggi: il numero dei femminicidi a Juárez, peraltro spesso particolarmente brutali, ha raggiunto un picco tragicamente alto nel 2010; negli ultimi anni si è assistito sì ad un significativo calo, ma la città resta ben sopra la media nazionale.
Qual è il legame tra questa ‘ciudad’ e i numerosi femminicidi che vi si compiono?
Innanzitutto, bisogna considerare la sua posizione geografica. Juárez è una città di frontiera: proprio di fronte c’è El Paso, con cui condivide le acque di quel Rio che è Grande o Bravo a seconda da dove lo si osserva; ci sono gli ‘Estados Unidos’. Ogni città di frontiera attira un sacco di speranzosi valicatori di confine e un sacco di gang – e quindi un sacco di violenza. E la misoginia è un tratto caratteristico di molte organizzazioni criminali messicane.
Poi bisogna tener conto della sua economia. Juárez è famosa per le ‘maquiladoras’, industrie manufatturiere in cui si assemblano prodotti destinati all’esportazione. Questa realtà ha conosciuto una grande crescita in seguito alla firma dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA) tra Messico-Stati Uniti-Canada nel 1994. La prospettiva di un lavoro, per quanto malpagato e dai tratti quasi schiavili, ha spinto in molti – specie se provenienti da piccoli centri rurali – a trasferirsi a Juárez. Gli imprenditori hanno sempre preferito assumere donne e ragazze, che generalmente si accontentano di un salario più basso, e questa scelta può aver scatenato delle ondate di intolleranza verso il sesso femminile, in una città dove il tasso di disoccupazione maschile è piuttosto alto: una non indifferente percentuale delle donne assassinate a Juárez erano impiegate in una qualche ‘maquiladora’.
Infine, non si devono dimenticare i fattori socio-culturali. Moltissime vittime erano casalinghe, o esercitavano professioni ‘stigmatizzate’ (prostitute, ballerine, spogliarelliste…): l’ideologia machista, ancora imperante, ‘giustifica’ la violenza su una donna che rifiuta di sottomersi al marito-maschio.
Dal 2010-11 si è osservata una flessione del tasso di femminicidi in tre dei cinque più feroci stati del Messico – Chihuahua, Baja California e Nayarit –, controbilanciata però da un’impennata di violenza nel Durango e soprattutto nel Guerrero. Considerando l’intero paese in generale, il tasso di crescita dei femminicidi in Messico è il quinto nel mondo: dal 2.4 su 100.000 donne nel 2011 al 3.2 nel 2014. Un dato drammatico. Secondo l’OCNF, l’Osservatorio cittadino nazionale sul femminicidio, ogni giorno in Messico vengono assassinate sei donne. Ma le indagini vengono avviate solo per una piccolissima percentuale di quelle morti (la violenza viene ignorata o, ancora peggio, accettata come una cosa ‘normale’), e una percentuale ancora più minuta di quei casi si conclude con una condanna.
La ‘War on Drugs’, la Guerra alle droghe, ha un ruolo in tutto questo? La risposta data da “Every Body Counts” sembrerebbe affermativa. Riporto qui un breve estratto particolarmente significativo (capitolo 3; pag. 96), tradotto da me: “[…] l’Honduras ha registrato [dal 2011 al 2014] di gran lunga il maggiore aumento del tasso di femminicidi, seguito da El Salvador. Paesi interessati da un elevato volume di narcotraffico – come El Salvador, Honduras e Messico – sono anche gravati da un aumento dei tassi di omicidio femminile, che ha spinto gli attivisti per i diritti umani a rinominare la ‘guerra alle droghe’ in ‘guerra alle donne’. L’uso del pugno di ferro, pensato per migliorare la sicurezza e combattere la violenza legata alla droga, può avere l’effetto contrario, incrementando inavvertitamente l’insicurezza tra la popolazione civile, e in particolare tra le donne. Le donne vengono scelte come ‘muli’ [termine gergale che indica i corrieri della droga; spesso trasportano la droga all’interno del loro corpo, inghiottendo degli ovuli], vengono giustiziate per mandare messaggi pubblici alle autorità per farle desistere dal combattere il narcotraffico, oppure uccise per regolare i conti tra gang rivali”.

Twitter: @marcodellaguzzo