Il processo di pace israelo-palestinese: ne parliamo con Izzeldin Abuelaish, “il medico di Gaza”

di Maddalena Pezzotti – 

La Conferenza di Parigi sul Vicino Oriente non ha prodotto esiti storici, o almeno costruttivi nel rilancio del dialogo fra Israele e Palestina. Nel limbo del processo di pace, l’erosione del capitale diplomatico, la recrudescenza fondamentalista di Israele, e la frammentazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) sono le voci di coloro che la pace la costruiscono giorno per giorno, lontano dai riflettori, a essere fonte di ispirazione e speranza.
Izzeldin Abuelaish, cresciuto nel campo rifugiati di Jabalia, è celebre come “il medico di Gaza”. Specialista in diagnosi e terapia dell’infertilità ha lavorato in istituti ospedalieri israeliani, aiutando donne ebree e musulmane a dare alla luce i loro figli e ha attraversato tutte le barriere fisiche e intangibili dei territori occupati, nella sua attività medica e umanitaria per la salute pubblica, l’educazione sanitaria femminile e la convivenza pacifica. Autore di “I Shall Not Hate”, pubblicato da Vintage Canada, Abuelaish ha perso tre figlie e una nipote quando un carro armato israeliano ha colpito la sua casa nel 2009. Campione della riconciliazione, e vincitore di premi internazionali, reputa che i medici possano fungere da messaggeri di pace e costruire ponti fra popoli in conflitto. Ha fondato Daughters for Life che assegna borse di studio a ragazze, indipendentemente dalla confessione religiosa e dalla nazionalità, affinché possano esprimere il proprio potenziale.

– Hamas ha annunciato la sua adesione alle elezioni municipali promosse dalla Anp. La fine del boicottaggio, scaturito dal successo con il 44 per cento dei voti e 74 seggi alla camera al suffragio generale, avviene in seguito all’indebolimento di Hamas in Cisgiordania ad opera della Anp. Pianificate per ottobre del 2016, le elezioni sono state posticipate dalla Corte Suprema. Ritiene che, se mai avrà luogo, questa tornata elettorale potrebbe scuotere il radicato settarismo originando, con un cambio di leadership, lo slancio necessario per le invocate elezioni parlamentari e presidenziali?
L’agenda dell’Anp è legata all’andamento del processo di pace con Israele e i cambiamenti negli equilibri globali. Non si può separare dal contesto. L’assenso di Hamas alle elezioni è la battuta iniziale. D’altra parte la volontà dei cittadini non va mai sottostimata e i politici devono saperne servire i bisogni e rispondere alla domanda di partecipazione civile. Il libero voto è basilare per mantenere la stabilità. Non ne abbiamo goduto ormai da troppo tempo e riguarda il nostro futuro. Purtroppo la polarizzazione politica è diventata più importante delle persone stesse, che ne rimangono ostaggio. Le elezioni devono avvenire con urgenza, poiché ci renderanno forti sia internamente sia esternamente. La loro attuazione è però influenzata dalla pressione dell’occupazione israeliana e qualsiasi governo che venga eletto non potrà agire in autonomia. Il mondo ha la responsabilità di garantire al popolo palestinese il diritto al voto, ma soprattutto le condizioni affinché i rappresentanti eletti possano svolgere le loro funzioni in libertà, altrimenti sarà un esercizio senza senso.

– I palestinesi ritengono che la ricostruzione a Gaza, dopo l’“Operazione Margine di Protezione” lanciata da Israele nel 2014, sia stata lenta e che la disoccupazione sia al momento la problematica maggiore per i territori. La disaffezione per il governo in Cisgiordania e Gaza, evidente nei sondaggi, potrebbe essere arginata con una performance locale effettiva in ambito economico e occupazionale nella lotta alla corruzione e il rafforzamento della sicurezza. Secondo lei le elezioni municipali vengono utilizzate per puntellare l’azione dell’esecutivo, in sostituzione delle disattese riforme a livello centrale? In altre parole, osserva un sufficiente impegno per un riassetto della stagnazione politica?
 In tutti i conflitti sono le persone comuni quelle che pagano il prezzo. A Gaza ci sono due milioni di abitanti, il 50 per cento è composto da giovani e bambini. L’Anp non può non contrastare la stagnazione esistente, perché la gente tiene testa quotidianamente a privazioni vitali. Si tratta di una tragedia umana. Ci sono ancora senza tetto. E la salute mentale? Un’intera popolazione sta affogando. Non va dimenticato che la distruzione è conseguenza dell’occupazione e questo è il principale status quo che deve essere infranto.

– Ahmed Halawa, agente di polizia di lunga data e veterano della Brigata dei Martiri di al-Aqsa, è stato ucciso durante un’ingente operazione delle forze di sicurezza dell’autorità palestinese (Pasf). Braccio armato dormiente di al-Fatah, anima dell’Anp, la Brigata è in molti casi meglio equipaggiata delle Pasf e, dal punto di vista della Anp, si starebbe profilando una minaccia interna. Si potrebbe affermare che la stabilità dipenda da come verrà gestita questa incipiente guerra civile?
Nessuno può fare della legge un uso personale e tutti devono avere accesso a un equo processo. Vogliamo ordine e giustizia, ma esigiamo pure onestà e una libera circolazione di informazione. Dobbiamo agire con verità, essere congruenti con le nostre azioni, e lasciarci guidare unicamente dai fatti. Una riconciliazione è impellente. Con tutto ciò, non parlerei di guerra civile in Cisgiordania. I palestinesi hanno imparato dai propri errori. L’obiettivo è uno: essere coesi. L’unità di al-Fatah è la nostra forza. E’ stato l’incubatore del popolo palestinese e continua a essere la nostra famiglia. L’instabilità in Cisgiordania deriva dall’occupazione. Nell’area A, corrispondente al 17 per cento del territorio e dove vive il 55 per cento della popolazione palestinese, l’Anp ha il controllo dell’amministrazione e la sicurezza, ma i carri armati israeliani possono fare irruzione in qualsiasi momento e catturare chi vogliano. Persino il presidente Abbas deve avere un salvacondotto per muoversi da un’area all’altra.

– Informative documentano la pressione esercitata su Mahmoud Abbas, da Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ai fini di una riconciliazione con Dahlan, già alto funzionario di al-Fatah a Gaza in esilio per uno scontro con Abbas. Alacre nell’orchestrazione del proprio rientro, grazie a connessioni americane e israeliane e conquibus dal golfo arabo, Dahlan ha iniettato risorse nei campi rifugiati e altre località marginalizzate, per incrementare la propria influenza come potenziale successore di Abbas. A sua volta l’Anp ha agito con durezza nei confronti di membri del suo entourage, espellendoli da al-Fatah e Pasf. L’Anp ha ragione a supporre che si stia costituendo una sfida politica?
Lancio un appello a tutti i leader per riaggregare la Palestina. E’ una vergogna mantenere o fomentare divisioni nel nostro popolo. Il primo stadio verso qualsivoglia grado di riconciliazione è una al-Fatah con mete chiare e membri affidabili. Si potrà poi lavorare su un governo di unità nazionale.

– Israele ha approvato l’indennizzo di 20 milioni di dollari dei cittadini turchi che hanno perso la vita nel raid contro la flotta Mavi Marmara nel 2010, l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza attraverso il porto di Ashdod e il sostegno della Turchia a progetti di infrastruttura, fra i quali un ospedale, una centrale elettrica e una pianta di desalinizzazione. In cambio la Turchia ha accettato di non proseguire la querela ai danni degli ufficiali israeliani accusati delle uccisioni, di impedire ad Hamas di lanciare o finanziare operazioni terroristiche entro i confini dello stato di Israele e assicurare il ritorno di civili e militari trattenuti a Gaza. Le sezioni del patto collegate ad Hamas sono spinose. Le condizioni a Gaza non sono migliorate dall’ultima guerra, che né Israele né Hamas sono stati in grado di evitare o arrestare mentre in media sono scoppiate ostilità ogni due anni. La relazione decennale coltivata da Erdogan con Khaled Meshaal, ai vertici di Hamas, è un vantaggio o un ostacolo?
Molti paesi hanno contestato le violazioni del diritto internazionale e umanitario del blocco della Striscia di Gaza e hanno cercato forme per non lasciare che la gente morisse, il mondo intero lo rigetta. La Turchia ha saputo trovare una via pacifica alle tensioni con Israele, con un’intesa sulla ricostruzione e credo che saremo testimoni di sviluppi positivi.

– Alla conferenza annuale di Herzliya del 2016, Ehud Barak, ex-premier e ministro della Difesa di Netanyahu in una precedente coalizione, ha stroncato il Likud per aver messo Israele “nelle mani di fanatici” che stanno soffocando l’autonomia giudiziaria e il dibattito culturale e sociale. Moderato quando le circostanze lo richiedano, Netanyahu è a capo del governo più a destra della storia del paese. Si trova d’accordo con quanti asseriscono che si sta cercando di sostituire la classe dirigente laica con una nazionalista e confessionale ?
La mappa politica di Israele si muove drammaticamente verso una destra autoritaria. L’arroganza della sua avanzata è una pesante provocazione, ma Netanyahu non è un uomo di pace. Gli arabi israeliani hanno dato una prova magistrale di civismo partecipando in massa alle elezioni. Il governo ha interpretato il gesto come un attacco, senza comprendere che uno stato non può dirsi democratico se lo è solo per un gruppo etnico e che l’unilateralità in democrazia non è mai un indice di buona salute.

– Nessuno come Shimon Peres, scomparso un anno fa, ha cambiato il corso di Israele in tante e tali aree come la difesa, il potere nucleare, l’economia, il commercio regionale e il processo di pace. Sono note le sue parole sul valore della vita umana, ma è anche colui che ha permesso l’espansione degli insediamenti nella metà degli anni ’70. Quando poi, negli anni ’90, l’opinione pubblica internazionale si è volta a sfavore dell’occupazione di Israele, ne è divenuto il suo principale oppositore, agevolando un colloquio diretto con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina al fine di ridurre la presenza israeliana in Cisgiordania e Gaza. I suoi sforzi si sono tradotti in risultati concreti?
Peres ha raggiunto molti traguardi, peraltro gli insediamenti perdurano, e hanno continuato a diffondersi, tanto con governi di destra quanto di sinistra. Il punto essenziale è che sono illegali e da qui nasce la loro insicurezza e instabilità. Israele non avrà mai pace se non edifica la propria prosperità sulla giustizia. Gli indicatori della pace e della sicurezza sono l’uguaglianza dei cittadini, la distribuzione equa dei beni e dei benefici, il mantenimento di relazioni amichevoli con i paesi confinanti. Il comando mantenuto con la paura, l’ingordigia di risorse, l’aggressione territoriale e fisica non rientrano nell’equazione. Non si è dato il passo della solidarietà, della condivisione, della maturità politica. Il traguardo a cui aspiriamo è congelato negli Accordi di Oslo.

– La forbice della povertà in Israele è tra le più estese in occidente, specialmente per il 20 per cento di arabi musulmani e cristiani di nazionalità israeliana, oltretutto soggetti a coercizioni dei diritti politici. Tuttavia ricerche mostrano un congruo declino, dal 26.1 per cento nel 1998 all’attuale 14.3, nell’assimilazione di Israele a uno stato democratico, da parte dei giovani ebrei israeliani. Ci sarebbero elementi, pur embrionici, per rivitalizzare l’idea dello stato liberale di David Ben-Gurion, Abba Eban, Golda Meir, e Yitzhak Rabin, o l’élite socialista Ashkenazi? Che ruolo possono giocare i giovani ebrei israeliani nel sovvertimento delle inclinazioni del governo verso l’autoritarismo tribale?
Israele è una grande nazione. Eccelle in diverse branche della scienza, della tecnologia, della medicina. Eppure il risultato più insigne per qualsiasi paese è la pace. Israele deve investire nelle relazioni umane e interrompere la catena della violenza e le divisioni. I suoi giovani stanno lanciando un grido di allarme. Per essere colto, in ogni caso, è indispensabile una compagine politica, ideologica e accademica di rilievo.

– La metà dei bambini israeliani in età pre-scolare proviene da famiglie di confessione musulmana o ebrea ultra-ortodossa. Ciò nondimeno, mentre il tasso di fecondità dei musulmani è approssimativamente il medesimo di quello degli ebrei moderati, ovvero 3 figli per coppia; gli ebrei ultra-ortodossi toccano lo sbalorditivo tasso di 7.7 figli per coppia. Nel tempo, dunque, la popolazione fondamentalista, diventerà un coefficiente determinante per la politica e la società israeliane, e il suo esercito nazionale. Nel 1990, il 2.5 per cento dei candidati a posizioni di ufficiale si auto-identificava come “religioso”; nel 2008, il dato era salito al 26. Questa impennata è notevole in quanto l’integralismo religioso tende ad accompagnarsi con attitudini che indeboliscono la democrazia. Israele è condannato a un incalzante etno-nazionalismo?
Gli israeliani vorrebbero farne un conflitto religioso e i coloni ultra-ortodossi servono allo scopo, ma con un effetto boomerang si stanno distorcendo i contrappesi domestici. La disputa resta territoriale, da un lato c’è un occupante e dall’altro un occupato. La religione dovrebbe essere una faccenda personale, non un’arma di stato. Israele ha sempre prestato un’enorme attenzione alla propria crescita demografica. La procreazione in vitro viene addirittura finanziata dallo stato come parte dell’assistenza medica nazionale alle famiglie. Per queste nuove generazioni bisognerebbe seminare un futuro di pace.

– In un rilevamento del 2014, alla domanda sull’opportunità di un’uguaglianza di diritti fra ebrei e musulmani, ha risposto positivamente poco oltre la metà degli ebrei “tradizionalisti”, un terzo degli ebrei “religiosi”, e il 28 per cento degli Haredi. Tra il 55 e il 58 per cento degli intervistati ortodossi ha riferito che i soldati, ai quali venga ordinato lo smantellamento degli insediamenti, hanno la libertà di disobbedire. Yitzhak Rabin è stato assassinato per aver formulato l’ipotesi e lo spettro di una guerra intestina è costantemente in agguato. Con grossomodo un terzo dei coloni appartenente alla fazione Haredi, è remoto un ritiro di Israele dalla Cisgiordania?
Gli insediamenti sono illeciti. La loro durata non ne modifica la natura giuridica. Gli Haredi sono un gruppo di interesse. Se gli insediamenti nel Sinai sono stati definitivamente sgombrati [1982, ndr], questo può avvenire anche per la Cisgiordania. La terra va restituita ai legittimi proprietari.

– La soluzione “due popoli, due stati”, auspicata da Obama, non si è materializzata nel suo duplice mandato. Nonostante le aspettative, tantomeno si è concepita alcuna decisione del Consiglio di sicurezza che ne contenga il principio, rimpiazzando la Risoluzione 242 del 1967, o un piano per progredire in questa direzione. Obama l’unico titolare della Casa Bianca in quarant’anni a non aver raggiunto nulla di sostanziale, a eccezione del colpo di coda, per storicizzare la propria presidenza, dell’astensione Usa nella votazione di una risoluzione che sancisce l’illegittimità degli insediamenti israeliani in Cisgiordania (la stessa amministrazione Obama aveva vietato un’analoga risoluzione nel 2011 e impedito ad Abbas di ottenere il riconoscimento dell’Onu dello stato della Palestina nel 2012). A suo parere, per quale motivo la comunità internazionale e la Lega Araba si sono tenute ai margini? La soluzione “due popoli, due stati” è arrivata al capolinea?
C’è stata una mancanza di volontà degli Stati Uniti. In politica estera Obama ha applicato un doppio standard e calcoli politici personali. Malgrado ciò la validità della soluzione non è decaduta. Le negoziazioni dirette si sono dimostrate un fallimento, per questo è critico l’accompagnamento di una piattaforma internazionale. In un mondo dove la violenza è una realtà endemica e le primavere arabe largamente inconcluse, il suo impatto favorirà la stabilità globale.

– Un’indagine del centro di ricerca Pew rivela che il 57 per cento dei giovani statunitensi “liberali democratici” simpatizza per la causa palestinese (la stessa denota che sono i giovani democratici quelli che si definiscono liberali). Persino fra gli ebrei la connessione con Israele si va allentando, riflettendo un vasto trend giovanile verso l’agnosticismo, con solo uno su cinque che valuta l’appoggio politico a Israele come un elemento essenziale della propria identità. E’ plausibile pensare che il considerevole segmento accertato dall’indagine, a medio e lungo termine, riuscirà a influenzare la politica estera degli Stati Uniti?
Io sono palestinese. Sono leale al Canada, dove vivo e lavoro. Sono anche leale all’idea di umanità e pace. La nostra lealtà deve essere più ampia della nostra nazionalità e dobbiamo alzare la voce davanti agli arbitri. Sia abbracciando, sia allontanandosi, da Israele, gli ebrei statunitensi non devono farlo con miopia. Riguardo a Trump, Gerusalemme è la capitale dei tre monoteismi, ma è anche la capitale dei territori occupati. Su questo non si può transigere. Lungo la strada dell’intimidazione e dell’antagonismo, e del crescendo della violenza, non aiuterà nemmeno Israele.