Il Russiagate nell’era delle fake news. E se a contattare i russi furono gli uomini della Clinton…

di Dario Rivolta *

La farsa del Russiagate contro Trump continua senza sosta e anche i giornali italiani fanno a gara per aumentare tra i lettori nostrani i sospetti che il magnate americano abbia vinto grazie a un subdolo e poco sotterraneo aiuto russo. Peccato che, di là dai toni allusivi e da certezze che si basano sul nulla, di prove o almeno di sicuri indizi che ciò sia realmente avvenuto, nemmeno l’ombra.
Che a Mosca potessero guardare con più simpatia verso un Trump che sosteneva si dovessero migliorare i rapporti con la Russia è ovvio: sarebbe stato bizzarro fare il tifo per chi predicava esattamente il contrario. Tuttavia, auspicarlo o poter influenzare in quella direzione milioni di americani sono cose ben distinte e la seconda ipotesi è in concreto irrealizzabile, qualunque strumento si voglia utilizzare.
Si continua a parlare di “fake news” a proposito delle informazioni diffuse da più fonti via internet che davano della signora Clinton un’immagine poco lusinghiera e si dice fossero state veicolate da pirati informatici russi ma, chiunque ne fosse l’autore, non sono mai state smentite e si può ora affermare con certezza che erano tutte vere. Al contrario, fanno parte della categoria “notizie false” i modi in cui si riferisce sulla stampa dell’incriminazione, con relativi arresti domiciliari, dell’ex capo della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort e del suo socio Rick Gates. Chi ne legge in Italia (o ascolta la corrispondenza dei corrispondenti RAI) si convince che l’imputazione riguardi una “cospirazione contro gli Stati Uniti” condotta per conto dell’attuale presidente grazie ai russi al fine di favorirne l’elezione. Se però si vanno a leggere i contenuti delle accuse rivoltegli, si scopre che è incriminato per “non aver presentato al dipartimento del Tesoro americano” i moduli previsti dal Bank Secrecy Act, quello che impone agli americani di presentare un rapporto sui propri conti esteri ogni anno se le cifre coinvolte superano un certo ammontare. In altre parole l’unica vera accusa contro di lui è di evasione fiscale per i 75 milioni di dollari ricevuti dall’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich in cambio di lobby svolta a suo favore. La cosa è certamente grave, ma non ha niente a che fare con Trump o con la sua campagna elettorale. Perché allora lasciar intendere che stiano emergendo “prove” che dimostrino una qualche intesa tra il Tycoon e il Cremlino?
Ma lo scandalo più grave sta emergendo ora, poco a poco, ed è qualcosa di cui si stanno occupando anche giornali non certo amici dell’attuale presidente. Si sta scoprendo, documenti alla mano, che il tentativo di utilizzare fonti russe (non precisate) per influenzare l’elettorato non fu fatto da Trump o dai suoi, bensì proprio dallo staff della Clinton.
Ecco i fatti: prima ancora dell’inizio della campagna elettorale e fino a dopo le elezioni, il legale rappresentante della candidata e del Comitato democratico, l’avvocato Marc Elias, si rivolse a un’azienda di Washington, la Fusion Gps affinché svolgesse ricerche sul candidato avversario. La Fusion chiese collaborazione a un ex agente segreto britannico, tale Christopher Steele, che a sua volta si rivolse ad alcuni suoi contatti in Russia perché gli passassero certe informazioni. A partire dal giugno 2015 la Clinton versò a Elias ben 5,6 milioni di dollari a titolo di consulenze legali generiche mentre il Comitato gliene dette 3,6. Cosa strana, la Fusion era una società che, contemporaneamente, lavorava anche per dei gruppi russi. Nell’estate 2016 cominciarono a circolare “voci” che parlavano di collusioni tra Mosca e il magnate che aveva nel frattempo vinto le primarie repubblicane. Steele passò le sue “informazioni” anche alla FBI e ottenne un contratto anche da loro per continuare quel tipo di “ricerche”. Purtroppo per lui e per la Clinton, il dossier preparato da Steele per la Fusion e per la campagna Clinton si dimostrò contenere informazioni del tutto inaffidabili e le “fonti” anonime furono giudicate non credibili. Lo stesso direttore della CIA in carica, James Comey, le giudicò “volgari e non verificate” e la collaborazione con Steele fu sospesa. Ciò non impedì tuttavia di far partire la campagna denominata “Russiagate” che, abilmente montata dai giornali anti-trumpisti, continua ancora oggi. La FBI fu quindi innocente e virtuosa per aver non preso in considerazione “informazioni inaffidabili” o addirittura false? Tutt’altro!
Anche l’agenzia ha le sue gravi responsabilità e non solo per aver passato all’amministrazione Obama informazioni che lei stessa giudicava non attendibili ma soprattutto per aver fatto passare sotto silenzio un altro Russiagate, quello che coinvolgeva direttamente la signora Clinton e il marito Bill.
Andiamo con ordine, cominciando dall’inizio. Nell’aprile del 2015 il New York Times cita un libro uscito poco prima, “Clinton cash”, che descriveva come e da chi arrivassero i soldi alla Fondazione Clinton. L’articolo cade nel nulla e più nessuno ne parla fino a tempi molto recenti. Tra l’altro, vi si parlava di come Rosatom, colosso russo per l’energia atomica, avesse comprato tra il 2009 e il 2013 più tranche (fino ad averne la maggioranza) della società canadese Uranium One che al suo interno possedeva circa un quinto di tutto l’uranio americano. Coinvolgendo gli Stati Uniti e come previsto dalle procedure, tale acquisizione necessitava il via libera da: Commissione per gli Investimenti esteri degli USA, ministero della Giustizia e mipartimento di Stato. Nonostante la Russia fosse considerata un potenziale nemico e l’uranio sia uno dei materiali definiti strategici, l’autorizzazione fu concessa nel 2010. Chi era allora a capo del Dipartimento di Stato, ovverossia il ministero degli esteri americano che autorizzò l’acquisto? Hillary Clinton. Fu probabilmente per pura coincidenza che in quegli stessi anni, e cioè dal 2009 al 2013, la Clinton Foundation ricevette donazioni per 145 milioni di dollari da dirigenti della Uranium One e da investitori in quella stessa società. Nello stesso periodo, l’ex Presidente Clinton fu invitato a Mosca per tenere una conferenza che in un giorno gli fruttò mezzo milione di dollari e a pagarlo fu una banca d’affari giudicata vicina al Cremlino. Naturalmente, prima di accettare l’invito (e il relativo pagamento) Bill chiese il permesso al dipartimento di Stato, permesso che il ministro in carica (la moglie) gli concesse. La storia però non finisce. Dal 2009 una società americana di Rosatom, la Tenam, era finita sotto inchiesta nella persona del suo direttore, tale Vadim Mikerin, con l’accusa di corruzione, estorsione e frode mentre cercava di accrescere il business nucleare russo negli Stati Uniti. Chi aveva raccolto le prove del malaffare tramite un informatore fu la FBI, allora guidato da Robert Mueller, lo stesso uomo che oggi si trova a capo della Commissione d’inchiesta per il Russiagate. L’agenzia investigativa americana scoprì che tra gli obiettivi di Mikerin c’era l’intenzione di ingraziarsi i Clinton tramite “donazioni” alla loro Fondazione. L’indagine, continuato per quattro anni e cioè fino al 2014, fu tenuta segreta per la stampa e per il Congresso ma ne furono informati i Ministeri della Giustizia e, appunto, il Dipartimento di Stato. Mentre a capo di quest’ultimo c’era Hillary Clinton, direttamente coinvolta nell’affare, alla Giustizia c’era Eric Holder, un fedelissimo di Obama. Va da sé che se la notizia fosse stata resa pubblica ciò avrebbe messo a totale rischio la futura candidatura della stessa Clinton anche perché il permesso di acquisizione di Uranium One fu da lei concesso nel 2010, quando l’affare Mikerin era già in corso. Invece di denunciare le strane coincidenze temporali, la FBI obbligò l’informatore che aveva denunciato i maneggi della Tenam a firmare un accordo di riservatezza, con la minaccia di essere perseguito in caso contrario. Perché la cosa è potuta tornare di attualità solo adesso (ne parla tra gli altri il Washington Post), dopo la fine della campagna elettorale? Il giornalista di Radio Radicale Federico Punzi (cui devo molte delle notizie qui citate) scrive: “Qualcuno potrebbe maliziosamente osservare che proprio coloro che giocarono un ruolo nel coprire, o quanto meno nell’impedire che emergessero, le attività illecite russe nel settore nucleare americano connesse all’accordo per Uranium One sono gli stessi che oggi stanno affannosamente cercando prove in grado di dimostrare la “connection” Trump-Cremlino”.
Come mai la stampa italiana e quella europea non dedicano attenzione e spazio a questi fatti e continuano a lasciar credere che sia Trump e non la Clinton ad aver condotto affari con i poteri russi?

Robert Mueller. (Foto autoblog.com).

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.