Iraq, Siria e l’Operazione Aiace

di Filippo Sardella –

La spirale di violenza e distruzione in cui è stata coinvolta la Siria negli ultimi cinque anni potrebbe essere analizzata sotto un ulteriore punto di vista, mostrando finalmente una spiegazione alternativa rispetto quella inerente l’estremismo islamico. All’incirca un anno prima che iniziasse il dramma che ha coinvolto l’intero popolo siriano, Damasco aveva ospitato “La Settima Esibizione Internazionale Siriana del Petrolio e del Gas”, convocata dal ministero del Petrolio di al-Assad. L’esibizione fu sponsorizzata dalla CNPC (China National Petroleum Company), dalla Shell e dalla Total francese, e vide la partecipazione di centinaia di rappresentanti di imprese petrolifere internazionali, il 40% delle quali avevano sede in Europa.
Un memorandum del 2010 redatto dagli organizzatori dell’evento, Allied Expo, per conto del ministero del Petrolio siriano, spiega come la società britannica Shell, prima fra tutte, contava di lavorare a stretto contatto con il regime di al-Assad per sviluppare la produzione di gas siriano. La compagnia petrolifera anglosassone fu talmente determinata nel proprio intento che durante l’intero corso del 2010 fece incontrare i più alti funzionari della Shell stessa, coi diversi ministri del governo britannico. Tra questi i più importanti erano il ministro degli Affari Esteri David Howell, il ministro del Dipartimento dell’Energia e del Cambiamento climatico Charles Hendry e lo stesso David Cameron. Questi incontri di alto livello coi vari dipartimenti del governo si sono susseguiti ogni singolo mese (ad eccezione del giugno del 2010) fino alle fine dell’anno seguente ed avevano come obiettivo quello di pianificare una politica comune sia al governo britannico sia alle compagnie petrolifere.
Tale comunione di intenti del governo britannico con le maggiori compagnie petrolifere anglosassoni non risulta essere un caso isolato e limitato a quello siriano, infatti le analogie con le vicende che hanno coinvolto l’Iraq all’inizio del nuovo millennio sono molte; tanto che alcuni documenti del governo britannico declassificati nel corso del 2015, mostrano che si è cercato di applicare la stessa dinamica che ha preceduto l’invasione dell’Iraq avvenuta nel 2003 anche alla Siria, tanto che le azioni perpetrate dal governo di Londra prima nei confronti di Baghdad e poi di Damasco risultano essere irrimediabilmente similari. Infatti, secondo tali documenti le compagnie petrolifere britanniche British Petroil e Shell, prima della caduta di Saddam Hussein, avevano tenuto diversi incontri i quali ebbero tutti esito negativo, con ufficiali di alto rango del governo iracheno per garantire alle imprese energetiche britanniche un ruolo nell’Iraq post-conflitto. I legami con il fallimento delle trattative delle compagnie petrolifere con l’invasione irachena sono sempre sembrati fin dal principio molto chiari, anche se l’allora primo ministro Tony Blair accusava di “cospirazionismo” chiunque osasse tracciare un legame tra l’invasione dell’Iraq e la volontà da parte dei governi occidentali di accaparrarsi le risorse petrolifere del paese, anche se in privato esso ammetteva che “Difficilmente potrebbe essere negato un ruolo alle imprese britanniche in Iraq se il governo si dimostrerà un alleato fedele degli Stati Uniti”.
Dopo quasi una decade, esattamente nel 2011, il copione sembra ripetersi in Siria, quando il vento “idealistico” di quelle che furono immediatamente battezzate dall’opinione pubblica occidentale come le “Primavere Arabe”, che avevano investito gran parte del Maghreb, iniziò a minacciare anche le frontiere del governo di al-Assad. Ancora nell’autunno del 2011 quando le forze di sicurezza siriane iniziarono a reprimere le prime manifestazioni pacifiche, Bashar al-Assad incassava la fiducia del segretario di Stato statunitense Hillary Clinton. Proprio lei infatti aveva insistito nel sottolineare che la figura riformatrice di al-Assad era essenziale per la Siria, di fatto concedendogli carta bianca sulle modalità da perseguire per sedare le proteste interne.
Con il dilagare della guerra civile siriana, vista l’emergenza di sicurezza interna che il paese stava attraversando, si ebbe la rottura di ogni trattativa da parte del governo di al-Assad con le maggiori aziende petrolifere occidentali, rinviando il dialogo sulle concessioni estrattive a data da destinarsi. Tale interruzione dei rapporti fece saltare i progetti che la Shell, la BP e le altre gradi imprese petrolifere avevano pianificato per sfruttare i bacini offshore della Siria: improvviso fu il deterioramento della crisi siriana al punto che saltarono anche quei piani che già erano in corso da tempo per avviare l’esplorazione e lo sviluppo delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale.
Le multinazionali petrolifere occidentali però nel caos interno siriano più che un ostacolo videro una migliore opportunità per la realizzazione dei loro piani, infatti la caduta di al-Assad e del suo governo avrebbe portato ad una velocizzazione dell’implementazione delle proprie strategie.
Da qui verrebbe semplice pensare che la Nascita del Califfato Nero o forse anche più semplicemente la miope volontà di non vedere gli orrori che stava perpetrando alle popolazioni civili che imbrigliava sotto il proprio barbaro potere, sia stata supportata dalla volontà di quei pochi attori occidentali che sembravano vedere nello Stato Islamico quel giusto partner con cui contrattare per poter derubare le risorse energetiche di un paese sovrano.
Infatti, ad un anno dallo scoppio della guerra civile in Siria venne pubblicato un rapporto datato dicembre 2014 ad opera dello Strategic Studies Institute (SSI) dell’esercito statunitense che mostra chiaramente come gli strateghi americani e britannici, influenzati dalle stesse compagnie petrolifere, vedevano il Mediterraneo come un’opportunità per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo, quest’ultimo attore che nel frattempo aveva preso sempre più importanza sullo scacchiere internazionale nella difficile situazione siriana e nella complicata gestione dell’Ucraina post Janukovic.
Inoltre quanto appena delineato, ovvero il tentativo di rovesciare un regime non accondiscendente con le politiche delle più grandi multinazionali del petrolio appare come una strategia già lungamente collaudata dai governi statunitense e britannico e vede coinvolti come ”vittime” principali i paesi del mediorientali. A conferma di quanto detto basta rievocare l’“operazione Aiace”, la prima di questo genere. Questa fu una missione coperta da segreto e promossa nell’agosto del 1953 dai governi del Regno Unito e degli Stati Uniti per sovvertire il regime democratico dell’Iran, allora governato dal nazionalista Mohammad Mossadeq, che aveva da poco nazionalizzato l’industria petrolifera arrecando un enorme danno alle più grandi compagnie petrolifere occidentali.
Oggi come allora la Russia era un avversario importante nello scacchiere internazionale e gli Stati Uniti temevano che la crisi economica e politica dell’Iran potesse aprire la porta alla penetrazione sovietica in Medio Oriente. Nel 2013 si presenta con la Siria una situazione analoga e simile a quella iraniana del 1953; si temeva che la crisi politica interna del governo di al-Assad potesse essere risolta esclusivamente con l’aiuto del Cremlino, facilitando così la penetrazione di quell’unica impresa che era rimasta insoddisfatta dalla “Settima Esibizione Internazionale Siriana del Petrolio e del Gas” del 2010, la Gazprom.
L’intervento massiccio con cui Vladimir Putin ha voluto intervenite in Siria è giustificato non solo dal fatto di non voler più vedere la Russia relegata ad attore di secondo livello nelle regione mediorientale ma anche dalla volontà di non vedere nuovamente estromesso il Cremlino (come accadde in Iraq nel 2003) da quella che è la corsa all’accaparramento delle risorse energetiche mediorientali.