Kenya. Dadaab, il campo-città della disperazione

di C. Alessandro Mauceri –

Le liti tra magistratura e governi legate al problema dei migranti non sono solo un problema americano. Anche se pochi ne parlano, si tratta di un problema che riguarda molti paesi, specie quelli che si trovano in aree limitrofe a zone di guerra o dove sono in atto disordini razziali o religiosi.
Come il Kenya, che da anni ospita i profughi provenienti dalla Somalia. Lì è stato costruito il campo profughi più grande del mondo: a Daadab, in pieno deserto, l’UNHCR ha organizzato cinque campi attaccati l’uno l’altro (Dagahaley, Hagadera, Ifo, Ifo II and Kambioos) che insieme ospitano oltre 320mila rifugiati, ma fino a non molto tempo fa erano più di 400mila.
Una vera e propria metropoli nel deserto. Ma chiamarla così non è possibile dato che è priva di tutto ciò che sono i servizi essenziali: mancano tutte le infrastrutture per i servizi igienici a cominciare dalle fognature, per l’approvvigionamento idrico o per l’energia. E anche i servizi essenziali per la popolazione che vive (ma forse sarebbe meglio dire “sopravvive”) qui da anni sono scarsi. Come quelli per i minori, a cominciare da posti dove i ragazzi e i bambini possano apprendere qualcosa, ed ancora una volta chiamarle “scuole” è impossibile. Eppure più della metà di quelli che cercano di sopravvivere in questi campi non hanno ancora raggiunto i diciotto anni: quasi un quinto (17%) sono di età compresa tra 0 e 4 anni, un quarto del totale (24%) è tra 5 e 11 anni e il 17% ha tra i 12 e i 17 anni. Tutto è demandato all’UNHCR e a una miriade di Ong.
In questi campi centinaia di migliaia di giovani, donne e bambini vivono in condizioni disumane in una zona semidesertica in cui manca praticamente tutto. Anche i servizi per garantire la sicurezza dei rifugiati. Fonti governative di Nairobi sostengono che il campo di Dadaab viene utilizzato dal gruppo terroristico al-Shabab per reclutare nuovi membri e come base per sferrare attacchi in Kenya.
Per questo il governo keniano ha deciso di chiudere questi campi con la motivazione ufficiale di rischi per la sicurezza, senza però fornire prove concrete o dati certi. A ribaltare questa decisione, da cui dipende la vita di centinaia di migliaia di persone, è stato un tribunale del paese che ha stabilito che, in mancanza di prove certe del fatto che i rifugiati somali possano tornare in patria in sicurezza, non è possibile chiudere i cinque campi. A presentare la denuncia sono state la Commissione Nazionale per i diritti del Kenya, l’UNHCR e l’Ong Kituo Cha Sheria. “La decisione del governo di cacciare i rifugiati somali – ha detto il giudice – costituisce un atto di persecuzione di un gruppo, è illegale, discriminatoria e quindi incostituzionale e viola il diritto internazionale”. 
Nella sentenza del tribunale si legge anche che “La decisione del governo della Repubblica di Kenya del campo di Dadaab è da considerare nullo”, come ha spiegato il giudice John Mativo.
Ma dietro a queste istanze e proteste potrebbe celarsi l’ombra del giro d’affari che ruota intorno a queste città-campi. In mancanza di infrastrutture, tutti i servizi sono gestiti, oltre che dalle Nazioni Unite, da un folto gruppo di organizzazioni umanitarie: decine e decine di soggetti che operano in servizi che vanno dalla protezione dei bambini all’educazione, dalla fornitura di cibo e derrate alimentari alla gestione dei problemi ambientali: non è nemmeno immaginabile quali problemi possa creare un simile raggruppamento di centinaia di migliaia di persone in uno spazio ridotto e senza infrastrutture adeguate, dai trasporti alla fornitura delle risorse idriche, dai servizi sanitari alla gestione delle malattie trasmissibili come l’Hiv, che è oggetto delle attenzioni di ben otto Ong oltre all’UNHCR, e molti altri.
Un giro d’affari pazzesco che in Africa come in Europa e negli USA ruota intorno ad uno dei problemi sociali più gravi che il pianeta si sta trovando ad affrontare dall’inizio del millennio. E per il quale (forse non a caso) nessuno è riuscito a trovare una soluzione.