La politica estera di Tito-Dopo la rottura con l’URSS

di Andrea Cantelmo

C’è una sottile connessione storico-geopolitica che lega la consolidata predominanza dell’allora URSS e oggi Russia con i Paesi satelliti che, soprattutto in passato, hanno subito la sudditanza politica di Mosca. A riportarci indietro nel tempo, nel secolo scorso, in quella che è stata l’allora Repubblica di Jugoslavia è l’analisi contenuta nel volume «La politica estera di Tito – Dopo la rottura con l’URSS» di Andrea Cantelmo (Solfanelli Editore), fine analista di geopolitica, laureatosi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Roma Tre.
Nel suo libro Cantelmo cerca di mettere minuziosamente in luce le mosse della Jugoslavia post-bellica, focalizzandosi su determinati argomenti ritenuti di elevata importanza per gli equilibri del Paese, dell’area balcanica e di quelli internazionali. Lo Stato guidato da Josip Broz Tito può essere visto, in quel periodo, come l’ago della bilancia nella guerra fredda combattuta, non militarmente ma ideologicamente e sul piano diplomatico, tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il Maresciallo Tito, nei suoi primi anni al potere aveva goduto di ottima stima all’interno della cerchia ristretta di Stalin, essendo considerato come il miglior esempio di comunismo al di fuori dell’Urss. La luna di miele tra i due leader non durò molto poiché la definitiva rottura diplomatica tra Jugoslavia e Unione Sovietica avvenuta il 1° marzo 1948, ribadita con l’espulsione della prima dal Cominform nel giugno seguente, aveva come motivazione formale l’atteggiamento poco accorto tenuto da Tito sulla questione dell’Albania. In realtà, però, i rapporti tra i due Paesi erano da tempo deteriorati: infatti Stalin era sempre più preoccupato per la piega presa dall’azione politica del partito comunista jugoslavo, convinto che esso si fosse smarcato da alcuni principi fondamentali dettati da Lenin. Di contro, Tito e i suoi collaboratori non fecero mai un passo indietro, anzi, rincararono la dose ritenendo che avevano le forze per intraprendere una politica autonoma e che la politica sovietica si fosse discostata a sua volta dall’insegnamento leninista.
Per i dirigenti jugoslavi fu molto complicato dover prendere una posizione contraria a Mosca, poiché – come scrisse Djilas nel libro «Conversazioni con Stalin» – essa era considerata, fino ad allora, il centro politico e spirituale del socialismo. Di fronte a questa profonda e difficilmente sanabile spaccatura, l’Occidente rimase inizialmente sorpreso. Infatti, nessun diplomatico occidentale aveva colto in anticipo la tensione tra i due Paesi, poiché i Governi sovietico e jugoslavo erano stati piuttosto abili a mascherarla. Ma, una volta divenuta pubblica la rottura, a seguito dell’esclusione del Pcj dal Cominform, in particolar modo Stati Uniti e Gran Bretagna cominciarono a fare pressioni sulla Jugoslavia offrendo aiuti economici affinché essa lasciasse definitivamente il blocco sovietico per schierarsi con l’Occidente.
Una eventuale riuscita di questo tentativo avrebbe avuto un valore inestimabile per l’intero andamento della Guerra fredda: sarebbe stato un grave danno di immagine per l’Unione Sovietica, e avrebbe potuto indurre alcuni Paesi satellite a sfidare il gigante sovietico, con la consapevolezza di avere possibilità d’uscita dal sistema creato dall’URSS. La grave divergenza tra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, considerato uno dei Paesi più importanti e fedeli al regime comunista sovietico, sembrò dimostrare che, nonostante un apparato politico e organizzativo ben collaudato e attivo anche all’estero, l’URSS non fosse in grado di tenere sotto controllo tutti gli Stati che le erano ideologicamente affini e tutti i partiti comunisti affiliati.
Tuttavia, la Jugoslavia mantenne sempre una certa ambiguità nelle relazioni diplomatiche con l’Occidente. Essa accettò di buon grado gli aiuti economici, ma non volle mai entrare a pieno titolo nell’alleanza militare della NATO. Il Maresciallo Tito era convinto che il suo Stato poteva trarre grandi benefici dalla situazione venutasi a creare, poiché poteva usufruire dei sovvenzionamenti delle potenze occidentali senza, però, contrarre obblighi a livello internazionale.
Il leader jugoslavo, volendo uscire dal momentaneo isolamento in cui il suo Paese si era venuto a trovare, avviò nuove e approfondite relazioni diplomatiche con Grecia e Turchia. Tutto ciò naturalmente non lasciò indifferenti gli Stati occidentali, che guardarono con grande interesse ad un eventuale accordo tra questi tre Paesi – Grecia, Jugoslavia e Turchia – poiché avrebbe potuto garantire una certa stabilità in quella regione. Nello stesso periodo, vennero avviate trattative con India ed Egitto per fondare un Movimento che avrebbe dovuto comprendere tutti i Paesi che non facevano parte dei due blocchi. Sorgeva così la conformazione dei Paesi Non Allineati.
Il libro-analisi di Andrea Cantelmo si sofferma sulle cause che hanno scatenato la rottura diplomatica tra URSS e Jugoslavia e le sue principali conseguenze: la libertà in politica estera di Tito, il Patto balcanico del 1953 siglato con Turchia e Grecia e, infine, appunto la nascita del Movimento dei Paesi non Allineati.

“La politica estera di Tito – Dopo la rottura con l’URSS”, di Andrea Cantelmo – Solfanelli Editore – pagine. 112 – € 10,00

Articolo in mediapartnership con il Giornale Diplomatico.