La ribellione socio-economica: dalla secessione geopolitica alla rivolta contro l’establishment​

di Domenico Carbone

La recente vittoria di Donald Trump negli Usa ha confermato ciò che negli ultimi anni sembra essere divenuta, più che l’eccezione, la regola: il popolo vota sempre più deciso a favore di quei candidati che meglio riescono a incarnare la lotta contro i detentori del potere socio-economico. Un establishment oramai inviso al popolo occidentale e sempre più distante dalle necessità sociali e lavorative. L’Unione Europea e a quanto pare anche i piani alti nordamericani sembrano essere diventati, più che una garanzia di intenti per il miglioramento del benessere collettivo, la dimora burocratica di grandi finanzieri lontani anni luce dal malcontento popolare.
Considerato questo stato di cose è inevitabile come alle diverse elezioni si affermino poi puntuali tutti quei partiti/movimenti che convogliano la ribellione verso questo genere di governo. Donald Trump ha vinto contro tutti i media (nazionali e internazionali), le grandi lobby finanziatrici della candidata Clinton e perfino contro i suoi “compagni di partito” (in primis i Bush, padre e figlio). Probabilmente per il popolo yankee il tycoon è riuscito ad incarnare il nuovo politico (pur non essendo mai stato un politico) in contrasto con tutto ciò che rappresenta Hillary Clinton.
In Francia Marine Le Pen l’anno prossimo potrebbe ricevere la fiducia della maggioranza del popolo transalpino in una nazione in cui per mesi si sono susseguite le proteste contro il governo, sia da parte di cittadini comuni, che degli agenti di polizia. Nella “merkeliana” Germania il movimento euroscettico e di destra “Alternative für Deutschland” sembra pronto a superare il partito della cancelliera anche a livello nazionale, dopo l’exploit ottenuto alle elezioni regionali di quest’anno. Sono ormai consolidate anche la crescita costante di Nigel Farage e del suo UKIP in Inghilterra e del “Partito per la Libertà” in Olanda.
In Italia pur non esistendo movimenti politici dichiaratamente di destra tanto ambiziosi da competere alla guida del paese, la realtà incarnata dal Movimento 5 Stelle è cresciuta e si è affermata proprio negli anni in cui la scena politica era dominata da personaggi forse non abbastanza popolari e troppo distanti da una visione sociale collettiva.
In tutto ciò tali affermazioni elettorali hanno come sfondo un clima indipendentista che da molti anni aleggia nel territorio nord-occidentale del pianeta. La Brexit votata a giugno ha permesso di riportare alla ribalta l’importante tematica dell’indipendentismo geopolitico. Popoli di determinate regioni europee reclamano la secessione dai governi centrali del proprio paese (e del proprio continente), sia per ragioni meramente “etniche” che soprattutto per recriminazioni economiche.
img_1719La realtà indipendentista più celebre nel panorama continentale è sicuramente quella della Catalogna, il cui governo ormai da tempo reclama la secessione da Madrid e il diritto ad attuare un referendum decisionale (che si svolgerà probabilmente il prossimo anno). Una comunità decisamente distante dall’apparato centrale in un territorio, quello iberico, che per decenni ha subìto gli attacchi dell’ETA, organizzazione terroristica simbolo della lotta separatista dei Paesi Baschi.
Rimanendo nell’aerea geografica europea richiami indipendentisti riecheggiano anche nelle Fiandre e in Corsica, anche se forse in maniera minore rispetto a quanto avviene nelle due regioni spagnole. Celebre è anche la questione Cecena, la cui volontà separatista ha causato nel corso degli anni numerosi attentati e morti nel territorio Russo. Sebbene nella regione la corruzione dilaghi e la disoccupazione in certe aree superi il 70%, la popolazione rivendica una propria autonomia da Mosca fin dal ‘700. Negli ultimi giorni invece nella lontana Cina si è svolta una manifestazione di protesta da parte di alcuni abitanti di Hong Kong che, seppur politicamente e amministrativamente indipendenti, continuano a subire il potere decisionale di Pechino.
Benchè non si possa effettivamente attuare una connessione diretta tra la rivolta all’establishment e l’ideologia separatista, considerando le significative rivendicazioni etniche presenti in quest’ultima, è comunque evidente come entrambe le battaglie siano accomunate da un malcontento verso i governi centrali in carica. Se nel corso degli anni la battaglia socio-economica è stata incanalata da partiti secessionisti contrari alla visione politica centralista di una classe dirigente troppo distante dai territori, oggi si assiste ad una battaglia molto simile da parte di movimenti privi però di alcuna ambizione territoriale.
Così mentre talune autonomie regionali già citate mirano a rendersi indipendenti dall’oppressione centralista (qualcuno, anni fa, sintetizzava il concetto coniando il motto “Roma ladrona!”), gli elettori dei vari Trump e Le Pen richiedono una nuova forma di governo, capace di sostituire i responsabili di tale oppressione con politiche incentrate più su una visione nazionalpopolare che sull’affarismo lobbista.
Le misure di rigore imposte negli ultimi anni e il tasso di disoccupazione sempre più alto hanno causato una frattura insanabile tra la ormai “vecchia” classe politica e i movimenti più giovani. Rottura che tra Barcellona e Madrid esiste da parecchi anni, con la prima che non si stanca di rivendicare come il 20% del Pil spagnolo sia prodotto in Catalogna. Una regione contraria al pagamento delle proprie imposte al governo centrale, proprio come i “nuovi” partiti in crescita sono stanchi dell’egemonia di una classe politica oramai lontana dagli interessi popolari.
Lontana come Barcellona da Madrid.
Come Londra da Bruxelles.

Nella seconda foto: alcuni leader dei movimenti europei “anti-establishment”.