La Russia in Medio Oriente

di Francesco Cirillo – 

Mosca è ritornata stabilmente attore protagonista nella regione mediorientale: l’Intervento militare al fianco del presidente siriano Bashar al-Assad ha portato a notevoli successi, legittimando di fatto la Russia come intermediario politico-diplomatico. Dal 2015 alla fine del 2017 il presidente russo Vladimir Putin sta infatti occupando gli spazi che le diverse amministrazioni statunitensi, dal 2003 ad oggi, hanno lasciato liberi.
Giunto a sorpresa nella base russa di Khmeimim, in Siria, facendo tappa nel suo viaggio verso l’Egitto, il capo del Cremlino ha infatti annunciato il ritiro parziale delle truppe di Mosca dal paese mediorientale, con l’eccezione della base aerea di Latakia e quella navale di Tartus, che è in fase di ampliamento.
Dopo la visita in Siria, in cui ha avuto anche un incontro con Assad, Putin si è recato in Egitto per partecipare ad un incontro con il presidente egiziano al-Sisi, al fine di ratificare accordi economici e militari con il Cairo. In questa occasione, alla presenza del direttore della Rosatom Alexey Likhachev e del ministro egiziano dell’Energia Mohamed Shaker, è stato infatti firmato un contratto del valore di 21 miliardi di dollari per la costruzione di una centrale nucleare da 4 reattori, che verrà realizzata nella città di Dabaa, sulla costa mediterranea dell’Egitto.
Oltre alle intese economiche, il viaggio in Egitto ha portato a Mosca risultati strategici: i due paesi hanno infatti deciso di cooperare nell’utilizzo delle basi aeree egiziane, ciò consente quindi di fatto alla Russia di far volare i propri caccia all’interno dello spazio aereo dello stato nordafricano, permettendole così di sorvegliare così l’area del mediterraneo orientale.
La rinnovata cooperazione russo-egiziana riguarda però direttamente anche l’Italia e la crisi libica: il generale Haftar è infatti supportato dall’Egitto e dalla Russia e nella base di Sidi Barrani, nei pressi del confine libico-egiziano, sono presenti unità delle forze speciali russe. Mercoledì scorso il generale Haftar ha incontrato a Roma il ministro della difesa italiano Roberta Pinotti e il capo della Farnesina Angelino Alfano. Dall’inizio della crisi Roma tenta infatti di utilizzare la diplomazia per proteggere gli interessi italiani e dell’Eni in una Libia sconvolta da oltre cinque anni di guerra civile post-gheddafiana. Gli ottimi rapporti dell’Eni con Mosca, vivi sin dai tempi di Enrico Mattei, potrebbero infatti facilitare la mediazione con il generale di Tobruk.
Ma l’area di influenza di Mosca non si ferma solo a Siria ed Egitto: prima di far ritorno in patria, Putin è giunto in Turchia per incontrare il suo omologo Recep Tayyip Erdogan. Con il presidente turco ha discusso della questione di Gerusalemme, dei missili S-400 che Ankara acquisterà entro la fine dell’anno e del gasdotto Turkish Stream.
Paradosso diplomatico di due paesi che, nel 2015, erano ai ferri corti dopo che l’aviazione turca aveva abbattuto un caccia russo; ora Ankara e Mosca hanno invece rafforzato i propri rapporti essendo che l’avanzata curda rappresenta per la Turchia la principale fonte di preoccupazione. In poco più di due anni un membro fondamentale della Nato, che ha sul suo territorio la base di Incirlik, complesso militare strategico per l’Alleanza Atlantica, è entrato nella sfera d’influenza di Mosca, riaprendo canali diplomatici con l’Iran sciita.
In poco più di due anni la Russia ha intensificato la propria presenza in Medio Oriente, stringendo accordi con Egitto, Turchia e con l’Arabia Saudita del Re Salman, volato lo scorso ottobre a Mosca. Allo stesso tempo il Cremlino ha riallacciato canali diplomatici con Teheran, con gli Hezbollah libanesi e con l’Iraq.
All’inquilino del Cremlino manca solamente un tassello per terminare il disegno nella regione: un clamoroso incontro tra il presidente turco Erdogan e il capo del governo di Damasco Assad per riportare tra i due una parvenza di pace e per consentire alle due nazioni di riallacciare i rapporti.
La Siria è de facto un codominio militare in cui sono presenti, oltre a quelle russe, truppe turche, milizie sciite filo-iraniane, curdi e jihadisti nella zona di Idlib. Ma è l’asse Mosca-Teheran-Ankara che ha in mano le sorti del regime alauita di Damasco, la cui vittoria è l’obiettivo finale della trama diplomatica e geopolitica che Putin sta disegnando nella regione.
Ma Mosca guarda, oltretutto, anche agli affari. La Federazione Russa mira infatti ad essere in prima linea nella futura ricostruzione della Siria postbellica e nelle forniture di equipaggiamento militare non solo a Damasco ma anche a monarchi del Golfo.
Altro fattore che si è inserito di prepotenza nello scacchiere mediorientale attuale è la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, scelta che ha scoperchiato un vaso di Pandora. Anche Mosca è infatti in equilibrio su un filo molto sottile, poiché deve rimanere con un piede in due staffe: sia dalla parte degli stati arabo-musulmani, sia con Tel-Aviv, in quanto circa un milione di cittadini israeliani sono di origine russa. Putin, a differenza del suo omologo alla Casa Bianca, evita di lanciare annunci sensazionalistici e, finora, ha calibrato le sue mosse e le parole. Il capo del Cremlino sa che in questo momento si sta attuando una partita mondiale dell’ipocrisia che è tutto fumo e niente arrosto: Gerusalemme è infatti sotto controllo israeliano dal 1967.
Il suo ritratto è nelle gallerie dei maggiori autocrati e rais non solo grazie alle sue abilità ciniche e calcolatrici ma soprattutto grazie agli errori geopolitici commessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati negli ultimi anni.