La svolta del Sudan sulla Corte penale internazionale: un monito per i talebani

L'affermazione della giustizia penale internazionale può essere un monito concreto contro i signori della guerra e un modello da attuare in Afghanistan, con l'istituzione di un ufficio permanente della Corte Penale Internazionale.

di Maurizio Delli Santi * –

Le preoccupanti notizie sulla evoluzione della crisi in Afghanistan non hanno consentito di dare il giusto risalto ad una vicenda che potrebbe rappresentare una svolta assai significativa sul percorso della affermazione della giustizia penale internazionale. Il Sudan, per voce della ministra degli esteri Miram al-Mahdi, ha annunciato l’approvazione governativa del disegno di legge sulla adesione allo Statuto della Corte Penale Internazionale. Il provvedimento è stato presentato anticipando anche la possibile consegna alla Corte di Omar al-Sharif Bahir, che nel 1989 diventò presidente dopo aver deposto con un colpo di stato al-Mahdi, il padre dell’attuale ministra che ha annunciato la svolta. La mancata esecuzione dell’ordine di cattura emesso 12 anni fa dalla Corte Penale Internazionale nei confronti dell’allora presidente sudanese in carica al-Bashir è stato uno dei mantra con cui si è accusata la Corte dell’Aja di sostanziale incapacità nell’affermare la sua giurisdizione universale sui crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio. Si tratta dei reati di cui è appunto accusato al-Bashir, insieme ad altri due responsabili governativi – l’ex ministro della difesa e un ex governatore – per fatti commessi nel 2003 durante la ribellione nel Darfur dell’etnia nilotica. La repressione fu compiuta in un bagno di sangue, con distruzioni delle infrastrutture idriche e bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, che causarono 300mila vittime e 3 milioni di sfollati.
Dal 2011 il Sud Sudan è ormai repubblica autonoma, e il Sudan nel 2019 ha visto le proteste popolari che hanno portato l’esercito a destituire al-Bashir. Ora vive la difficile fase di “transizione democratica”, aggravata dalla crisi economica e dalla pandemia, che dovrebbe compiersi con libere elezioni entro il 2022. Il governo di Khartoum, costituito da un Consiglio sovrano, una coalizione fra esponenti civili e militari, ha però deciso un taglio netto con il passato ed è consapevole della necessità del supporto della comunità internazionale per ottenere sostegno finanziario e stabilità. In tale contesto ha avuto un peso la revoca delle sanzioni statunitensi, probabilmente uno dei pochi lasciti positivi della presidenza Trump.
Sulla vicenda hanno comunque inciso gli eccessi di al-Bashir, un despota legato a Bin Laden che è già recluso a seguito di accuse per gravi fatti corruttivi, comprovati dal rinvenimento nei suoi domicili di oltre 115 milioni di euro e dall’intestazione di un conto di 4 miliardi di dollari.
“Giustizia e responsabilità sono la spina dorsale su cui si reggerà il nuovo Sudan”, ha commentato il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok, confermando inoltre una piena adesione ai principi di “uno Stato di diritto che ci impegniamo a costruire”.
La svolta probabilmente si deve anche alle iniziative di cooperazione internazionale con cui il nuovo procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha inteso rilanciare il ruolo della giurisdizione complementare della Corte dell’Aja, una istituzione che ha assoluto bisogno di un ampio sostegno degli Stati. E tra questi, almeno quelli che si professano liberali e democratici, hanno tutto l’interesse a valorizzarla come monito concreto per i nuovi signori della guerra e gli autocrati responsabili dei più gravi crimini contro l’umanità di fronte ai quali non si può rimanere inermi. In questa prospettiva, di fronte agli scenari preoccupanti che si vanno delineando in Afghanistan una risposta della comunità internazionale potrebbe essere diretta e concreta: istituire subito a Kabul un ufficio permanente della Corte Penale Internazionale, con un mandato esteso alla persecuzione femminile e ad ogni forma di terrorismo e al suo sostegno anche indiretto. Visto che non si vogliono più dispiegare altre onerose missioni militari in Afghanistan (almeno nella configurazione di quella appena fallita), questa risposta potrebbe almeno dare ai talebani il segnale univoco di una linea rossa sulla violenza che non dovrà essere più superata impunemente.

* Membro dell’International Law Association.