Libia. L’Assemblea dei Tebu risponde al Consiglio presidenziale riguardo alle violenze in Sebha, addio all’accordo di Roma

di Jamal Adel e Vanessa Tomassini – 

Malgrado i tentativi e le assemblee tribali per mettere fine all’escalation di violenza nella città di Sebha, vanno avanti gli scontri iniziati l’inizio di questo mese tra i Tebu e la tribù di Awlad Sulieman. Il consiglio presidenziale e il Governo di Accordo Nazionale non si erano pronunciati sulla vicenda da quando sono iniziati gli scontri fino a quando il governo provvisorio, riconosciuto dalla Comunità internazionale e rappresentato da Fayez al- Serraj, ha emesso nei giorni scorsi una nota in cui si parla di “mercenari” e “stranieri” all’attacco della sesta brigata di Sebha, in gran parte formata da membri della tribù Sulieman, esortando i libici a opporsi a questa “invasione” straniera, a salvare le risorse della Libia meridionale e difendere la sovranità della Libia.
La dichiarazione del Consiglio presidenziale è arrivata dopo che nella Sala del Popolo del consiglio comunale di Sebha, controllata dalla tribù dei Tebu, si sono intensificati gli scontri, facendo registrare 5 morti e diversi feriti. In serata è arrivata la risposta dell’assemblea dei Tebu la quale ha chiesto un’indagine da parte di un comitato indipendente per accertare i fatti, accusando il governo provvisorio di ignorare la realtà e di coprire le responsabilità del clan rivale, Sulieman.
Oltre allo scambio di accuse vanno avanti gli scontri: incendi e sparatorie hanno reso inaccessibili alcune aree della città, secondo quanto riferito da alcuni abitanti del posto che parlano di 10 vittime e 8 feriti tra le due fazioni. Gli esperti collegano questa recente esplosione di violenza a Sebha a una più grande divisione della politica libica ancora troppo caratterizzata, soprattutto nel sud, dal tribalismo.
Questi ultimi eventi rappresentano il terzo scontro tra Tebu e Awlad Sulieman a Sebha dalla caduta del colonnello Muammar Gheddafi, alla fine del 2011. La prima guerra tra i due clan si era scatenata nel giugno 2012 e si era conclusa con un accordo di riconciliazione a Tripoli, sponsorizzato dal gabinetto del primo ministro Abdulraheem Al Kieb. Il secondo round, tra gennaio e febbraio 2014, si chiuse invece con la firma dell’Accordo di Roma nel marzo 2017, con la partecipazione della tribù Touareg e con la facilitazione del Consiglio presidenziale libico e del ministro dell’Interno, Marco Minniti. Il testo dell’accordo di pace tra le tribù del Fezzan è ancora secretato e venne siglato in un clima di massima segretezza nell’ampia sala del Viminale. Dalle informazioni trapelate, si era appreso che l’accordo doveva servire ad accelerare la lotta ai flussi migratori attraverso il confine meridionale del paese con Ciad, Algeria e Nigeria, lungo 5 mila chilometri. Il capo del Viminale nei mesi precedenti il meeting top-secret aveva incontrato a Roma singolarmente i capi tribù Tebu, Suleiman e Tuareg, per ascoltare le ragioni di ciascuno, rispettando la diplomazia del deserto basata sulla fiducia e sulla mediazione personale.
La guerra tra le due tribù, solamente negli ultimi anni, ha provocato oltre 500 morti, causando gravi disagi agli abitanti della zona, tra i quali si aggirano i trafficanti dediti al contrabbando di ogni sorta, dagli esseri umani al gasolio, dalle armi alla droga. “Sigillare la frontiera sud della Libia significa sigillare la frontiera meridionale dell’Europa» era stato il commento del capo del Viminale a termine della discussione dei capi clan intorno ad un enorme tavolo ovale in legno scuro. Per i Tebu era intervenuto il sultano Zilawi Minah Salah, per i Suleiman il generale Senussi Omar Massaoud mentre per i Tuareg, lo sceicco Abu Bakr Al Faqwi”. Peccato che tutti gli sforzi sembrano oggi più che mai un ricordo lontano, nonostante tutte le promesse e i patti di sangue di cui si era parlato.