Libia. Le milizie bloccano il ritorno dei Tawergha. Stessi problemi a Bengasi

di Vanessa Tomassini

La situazione degli sfollati interni in Libia diventa sempre più difficile. Ieri gli abitanti della città di Tawergha in fuga dal 2011 hanno iniziato a mettersi in viaggio per il loro ritorno previsto a partire da oggi, secondo l’accordo con la città di Misurata, facilitato dal ministro di Stato per i Migranti e i rifugiati e il Consiglio presidenziale di Fayez al-Serraj. Tuttavia malgrado il ministro ci aveva anticipato a margine di alcuni incontri di lunedì che ci fossero ancora diversi problemi, questa mattina ad ostacolare i primi rientri ci hanno pensato alcune milizie, come il gruppo Haya e una milizia parte delle forze Bunyan-al Marsus di Misurata, a circa 20 km ad est dalla città di Sirte. Ahmed Asmel, direttore dell’ufficio del ministero del Governo di Accordo Nazionale, ha detto a Notizie Geopolotiche questa mattina che “alcuni gruppi armati stanno chiedendo 150 milioni per permettere agli sfollati di proseguire il loro percorso sulla strada di ritorno”. “Stiamo cercando di risolvere la situazione”, ha aggiunto. Alcuni sfollati Tawergha hanno anche riferito che circa 200 di loro sono stati trattenuti dalla stessa milizia al-Bunyan al-Marsus e sono ora ritornati nell’area 40, a circa 40 km ad ovest dalla città di Aidabiya. Nel pomeriggio di ieri era giunto anche un comunicato da parte del Consiglio locale di Misurata che “proibisce alla popolazione di Tawergha di tornare in città fino a quando tutti i punti dell’accordo non siano stati implementati” ci ha spiegato il funzionario del ministero per i migranti. Alcune famiglie invece provenienti dalla parte occidentale della Libia sarebbero arrivate nella città di Bani Waleed, anche il loro viaggio è stato impedito nei pressi della porta Kararem, unico punto d’accesso occidentale alla città fantasma.
La situazione dei Tawergha, pur essendo quella più protratta nel tempo, non è l’unica: nella parte orientale del Paese nordafricano, stanno affrontando gli stessi problemi le famiglie fuggite dalla città di Bengasi, bloccate dalle forze dell’esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, che secondo anche Human Rights Watch accuserebbero le famiglie di terrorismo o di sostegno al terrorismo. Dal maggio 2014, quando il cirenaico Haftar ha annunciato l’inizio dell’operazione Dignità per sradicare i “terroristi” da Bengasi, circa 13mila famiglie sono fuggite verso la zona occidentale o all’estero. Le persone sfollate intervistate da Human Rights Watch hanno detto che i gruppi collegati all’autoproclamato esercito libico hanno sequestrato le loro proprietà, riferendo anche torture, rapimenti ed arresti forzati senza alcun motivo. In questo quadro non va dimenticata la condanna del comandante Mahmoud al-Werfalli per crimini di guerra da parte della Corte di Giustizia internazionale lo scorso giugno, nonostante l’uomo forte di Tobruk non abbia mai collaborato alla sua consegna; è evidente che l’ufficiale stesse solamente eseguendo gli ordini dello stesso generale, con cui anche l’Italia di recente ha iniziato a dialogare.
Proprio ieri siamo stati contattati da una famiglia di Tobruk, che ci ha riferito dell’arresto di un loro familiare accusato del tentato omicidio ad un esponente dell’esercito a cui sono state rotte le gambe ed un braccio senza alcun processo, ovviamente ci riserviamo di pubblicare i nomi delle persone coinvolte in questo caso fino a quando non avverrà il rilascio, stando a quanto ci hanno riferito alcune nostre fonti militari dalle prigioni di Tobruk e Bengasi. Il 6 gennaio 2018 lo stesso generale Haftar ha rilasciato una dichiarazione in cui denunciava il saccheggio, la distruzione e l’appropriazione indebita di proprietà private, nonché il trasferimento forzato di persone da Bengasi, istruendo le forze dell’esercito per facilitare il ritorno degli sfollati interni, a meno che non ci fossero “giustificazioni legali”. Possibile che un uomo così forte, non sia stato ascoltato?
Questi fatti riportano ancora una volta l’attenzione sull’importanza di raggiungere l’unificazione delle istituzioni, ma soprattutto di un esercito libico tutt’oggi inesistente in quanto frammentato in milizie, difficili da disarmare, come primo step per la costruzione di una democrazia, ancor prima di giungere alle elezioni.