L’inaspettato realismo di un liberal-democratico: Obama, la Siria e la sottile linea rossa

di Marco Passero

Uno dei pilastri della dottrina Obama è stato un rinnovato focus sul teatro dell’Asia/Pacifico, dove è maggiore e più profonda la rete d’interdipendenze strategiche ed economiche che coinvolgono gli Stati Uniti, anche per contenere la Cina in quanto rising power potenzialmente revisionista. Malgrado la propensione per questo pivot to Asia, con un graduale disimpegno da un Medio Oriente ingestibile, gli Stati Uniti hanno tuttavia mostrato interessi ancora forti nell’area del Greater Middle East. Per quanto riguarda la crisi siriana, l’iniziale posizione interventista di Obama aveva spiazzato quanti erano a conoscenza del suo essere un presidente più hamiltoniano che jeffersoniano, ma fu l’improvviso cambio di direzione a spiazzare chi attendeva solo il via libera definitivo da Washington per colpire Bashar al-Assad.

Siria, la rivolta e la repressione.
Nel marzo 2011 in Siria è scoppiata una guerra civile tra le forze governative e quelle dell’opposizione nota come guerra civile siriana o crisi siriana. Essa viene inserita nel contesto più ampio delle primavere arabe: anche nel caso del regime di Damasco, infatti, il punto di partenza è individuabile in alcune proteste popolari che hanno interessato il mondo arabo nei primi mesi di quell’anno.
Gli obiettivi di una protesta inizialmente improntata ad un generico anelito di libertà e finalizzata a spingere il presidente siriano al-Assad alle dimissioni, eliminando la struttura istituzionale monopartitica del Baath (Schiavone 2013), erano la fine degli arresti arbitrari, la liberazione dei detenuti politici, la libertà di stampa e d’informazione e l’abolizione dell’articolo 8 della Costituzione che definisce il partito Baath “guida dello Stato e della società”.
Il 15 marzo 2011 una massiccia protesta antiregime coinvolse per le strade del paese migliaia di persone stanche di divisioni sociali, tribali e religiose esacerbate dalla dittatura siriana. Dopo aver preso le armi per reagire agli apparati di sicurezza, il 3 luglio ad Hama i dimostranti diedero vita a un’imponente manifestazione antigovernativa e la repressione da parte del regime fu durissima.

La reazione americana e la sottile linea rossa di Obama.
Quando arrivò alla Casa Bianca, Obama aveva come obiettivo quello di porre fine all’impegno militare in Medio Oriente. Non cercava mostri da sconfiggere ed era particolarmente attento a non promettere la vittoria in conflitti che riteneva impossibili da vincere. In un’intervista rilasciata al giornalista Jeffrey Goldberg egli dichiarò che non avrebbe fatto la fine di George W. Bush, ritrovatosi tragicamente esposto in Medio Oriente e colpevole di aver riempito di soldati americani gli ospedali militari: “Sganciare bombe su qualcuno solo per dimostrare di essere pronti a farlo è il motivo peggiore per usare la forza”; il primo compito di un presidente americano sulla scena internazionale dopo Bush era, dunque, “non fare stupidaggini” (Goldberg 2016). Per Obama – secondo il quale un presidente non dovrebbe far correre gravi rischi ai suoi soldati per scongiurare catastrofi umanitarie a meno che queste non rappresentino un’esplicita minaccia alla sicurezza del paese – la Siria era una strada potenzialmente scivolosa come l’Iraq. Egli era convinto che poche minacce avrebbe potuto giustificare un intervento militare in quell’area.
Tuttavia nell’estate 2012, quando si sospettava che il regime di al-Assad stesse valutando l’opportunità di usare armi chimiche, Obama dichiarò: “Siamo stati molto chiari con il regime di al-Assad: la linea rossa per noi è quando cominciamo a osservare una serie di armi chimiche che entrano in circolazione o vengono usate. Questo cambierebbe i calcoli nella mia equazione (The White House Office of the Press Secretary 2012).
Considerata la sua contrarietà a un intervento, la netta linea rossa che Obama stava tracciando era sorprendente, anche se si trattava di una postura pubblica difensiva, non intimidatoria. L’obiettivo era scongiurare l’incubo di intervenire a Damasco e, notificando ad al-Assad l’unica mossa da evitare per non scatenare una più veemente reazione, Obama fissava una linea proprio perché essa non venisse superata. Si scommetteva sulla razionalità del dittatore siriano il quale, secondo i calcoli del presidente, mai avrebbe segnato la propria condanna con un attacco chimico.

L’escalation di al-Assad e il non-intervento Usa.
Il 21 agosto 2013 la guerra civile siriana registrò la pagina più cupa sin dall’inizio dei disordini: le forze pro-Assad bombardarono diversi sobborghi a sud-est di Damasco usando missili contenenti il gas nervino sarin che colpisce il sistema nervoso. Il rapporto redatto da un team delle Nazioni Unite appositamente incaricato fu la prima e immediata conferma proveniente da una fonte indipendente e ufficiale dell’uso effettivo di armi chimiche (UN 2013). Il mondo intero aveva ascoltato le dichiarazioni di Obama e colto la fermezza dei suoi avvertimenti riguardo a un intervento non appena la linea rossa fosse stata varcata.
Subito dopo l’“attacco chimico di Gutha” Obama rafforzò il messaggio del segretario di Stato John Kerry che aveva sottolineato quanto fosse in gioco la “credibilità americana” (Us. Department of State 2013): “È importante riconoscere che quando vengono uccise più di mille persone, tra cui centinaia di bambini innocenti, con un’arma che secondo il 98-99% dell’umanità non dovrebbe essere usata neanche in guerra, e non viene intrapresa nessuna azione, allora stiamo mandando il segnale che quella norma internazionale non significa molto. E questo è un pericolo per la nostra sicurezza”. (The White House Office of the Press Secretary 2013a).
Obama sembrava dunque essere giunto alla conclusione che in Siria fosse davvero in gioco la credibilità della deterrenza americana, e un eventuale danno dal Medio Oriente avrebbe potuto estendersi anche ad altre regioni del mondo. al-Assad apparentemente era riuscito a spingere il presidente americano su una posizione che egli non aveva mai pensato di dover assumere e venne pubblicamente accusato dalla Casa Bianca di essersi macchiato di un crimine contro l’umanità (The White House Office of the Press Secretary 2013b). Il discorso di Kerry sulla credibilità statunitense aveva segnato il culmine di quella campagna, e in effetti Obama aveva già ordinato al Pentagono di preparare la lista dei bersagli, con cinque cacciatorpediniere nel Mediterraneo pronti a lanciare missili da crociera sugli obiettivi del regime. Ciononostante in quelle ore Obama era “particolarmente inquieto” (Goldberg 2016), si era convinto che stava per cadere in una trappola, alimentata dalle aspettative su quello che il presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto fare. Decise dunque di comunicare ai funzionari della sicurezza nazionale di voler fare un passo indietro, e il fatto di cambiare idea il giorno prima dell’attacco costituì uno shock per tutti.
Ma c’era un fattore chiave alla base della decisione e aveva a che fare con il timore di un Assad capace di resistere all’attacco ed ergersi come il dittatore capace di azzerare il temuto intervento americano: “un nostro attacco avrebbe potuto infliggere qualche danno, ma non avrebbe eliminato le armi chimiche. A quel punto mi sarei trovato di fronte alla prospettiva di un al-Assad che sopravvive e dice di aver sconfitto gli Stati Uniti, che avevano agito in assenza di un mandato dell’Onu. Alla fine ne sarebbe uscito rafforzato invece che indebolito” (Goldberg 2016).
Obama sapeva che la sua decisione di rinunciare agli attacchi aerei e di consentire che la violazione di un suo diktat restasse impunito avrebbe potuto essere giudicata in modo spietato. Il 30 agosto 2013 potrebbe infatti essere ricordato come il giorno in cui egli permise che il Medio Oriente sfuggisse dalle mani statunitensi per passare in quelle della Russia, dell’Iran e dello Stato Islamico. O magari esso passerà alla storia come il giorno in cui Obama impedì agli Usa e al mondo intero di entrare nell’ennesima disastrosa guerra civile.

Bibliografia
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