L’Iraq delle confessioni proiettato verso la frammentazione territoriale

di Dario Rivolta *

Mentre la battaglia per Mosul potrebbe entrare nella fase finale, sempre più ci si domanda quale potrà essere il futuro dell’Iraq e se i confini fissati dal famoso patto Sykes-Picot sopravvivranno o saranno drasticamente modificati. Seguendo la stampa internazionale e osservando l’attuale situazione dei conflitti interni, sembra che la divisione tra sunniti, sciiti e curdi sia talmente profonda che è quasi impossibile immaginare che i tre gruppi etno-religiosi possano ancora coesistere all’interno di uno stesso Stato.
La frattura più insanabile, sorprendentemente, non riguarda la differenza etnica tra curdi e arabi, che potrebbe eventualmente trovare la soluzione in una forma confederale. Sta invece all’interno dello stesso mondo arabo e sembrerebbe basarsi sulla storica contrapposizione tra due confessioni entrambe islamiche, la sunnita, minoritaria in Iraq, e la sciita.
Eppure la convivenza tra orientamenti o confessioni diverse non è in Medio Oriente necessariamente un fattore di conflitto e lo si vede benissimo nell’attuale Kurdistan iracheno ove esistono da sempre fedeli molto diversi tra loro che mai hanno avuto problemi a condividere lo stesso territorio. I fattori identitari curdi non sono mai state le religioni, bensì la cultura e la lingua e si tratti di sunniti (la maggior parte) sciiti, cristiani di varie confessioni, yazidi o zarathustriani non fa differenza.
Per quanto riguarda invece il mondo arabo, sembrerebbe che la frattura tra sunniti e sciiti sia qualcosa d’irreparabile e la pubblicistica recente ci ha abituati a considerarla costante nel tempo. Se però si guarda con attenzione alla storia di quel Paese, si scopre che non è così!
Nel corso dei secoli i fattori identitari per gli arabi di Mesopotamia furono le appartenenze tribali (nakhwa) e non contavano la religione o l’etnia. Nelle città i valori di riferimento potevano essere anche religiosi ma solitamente ciò non diventava fattore di conflitto mentre fuori dai grandi agglomerati urbani, la solidarietà era di tipo prettamente “laico” ed etico. Nelle tribù il senso di solidarietà era forte al punto che il “sodale” andava protetto e difeso in qualunque circostanza, avesse lui torto o ragione. Anche nelle città comunque era frequente che vicini di casa appartenessero a confessioni diverse ma esisteva una reciproca tolleranza, se non addirittura una totale indifferenza. Le identità tribali costituirono la base della società irachena fino circa alla fine del 1800 e furono superate a causa dell’invasione britannica che creò, in funzione anti-straniero, un sentimento che oggi chiameremmo di “unità nazionale”. Cominciò a nascere un comune senso di appartenenza e, quando nel 1921 sotto “protezione” inglese, fu creato lo stato iracheno, l’identità nazionale divenne ancora più forte e si sovrappose quasi del tutto alle precedenti identità tribali. Tutte le tribù cominciarono a interloquire direttamente con il governo centrale di cui riconoscevano l’autorità, mentre mantenevano, ma a livello più basso, un sentimento d’identità locale totalmente slegato dalla professione religiosa. E’ bene ricordare che negli anni tra il ‘21 e il ‘58 su ventitré primi ministri, dodici furono sunniti, quattro sciiti, quattro curdi, due cristiani e un turcomanno.
Il cammino verso una differenziazione ostile tra sciiti e sunniti cominciò a diventare importante solo dopo la guerra del 1991 quando Saddam Hussein, partendo col privilegiare a tutti gli effetti la sua provenienza da Tikrit (a nord di Baghdad e prevalentemente sunnita), considerò le tribù del sud del Paese (prevalentemente sciite) come nemiche dello Stato per la loro acquiescenza alla prima invasione americana. Prima di quel momento lo stesso Saddam aveva avvantaggiato come fattore identitario l’adesione al partito Baath e a quella formazione aderivano membri dalle diverse confessioni religiose (basti ricordare il “cristiano” Tarek Aziz, più volte ministro). L’essere baathisti e iracheni prevaleva su ogni altro fattore. Fu con l’arrivo degli americani nel 2003 che la divisione tra sunniti e sciiti fu approfondita. I nuovi conquistatori, per costruire una locale democrazia, decisero di puntare sull’appartenenza religiosa e, di conseguenza, il potere fu lottizzato tenendo in considerazione i numeri delle rispettive appartenenze. Da allora, la confessione cominciò a prevalere nei rapporti interni e andò ad aggiungersi alle preesistenti identità tribali, creando così le premesse di quella che divenne l’attuale profonda frattura. Anche l’Iran ne approfittò presentandosi come il massimo difensore della popolazione sciita grazie al comune orientamento religioso.
Nelle prime elezioni nazionali, per la prima volta da oltre un secolo, si presentarono partiti composti su base religiosa e, rispettando i numeri dei fedeli, i sunniti furono sempre minoranza. Fu seguendo quella logica lottizzatoria che si mosse il primo ministro Nouri al-Maliki con la conseguenza che poco per volta iniziò a escludere dal potere reale i rappresentanti delle tribù sunnite. Ogni ministro e ogni funzionario dello Stato, lungi dal rispondere a un interesse nazionale, distribuiva nomine, investimenti e tangenti (tantissime) solo ai membri della sua stessa appartenenza confessionale e, all’interno di questa, della sua tribù d’origine.
L’arrivo al potere dell’attuale primo ministro, Haider al-Abadi, ha coinciso con un tentativo di recuperare il senso d’identità nazionale e di superare la lottizzazione religiosa. Purtroppo, con un Parlamento ancora eletto su basi confessionali e “drogato” dall’enorme afflusso di denaro derivante dalla corruzione, le sue intenzioni di ridurre i ministeri e assegnarli in base alla competenza e non all’appartenenza hanno incontrato un mare di ostacoli. In suo aiuto, o meglio, in aiuto al tentativo di impedire la frammentazione del Paese sempre più probabile, sono nate le grandi manifestazioni di piazza guidate dall’imam al-Sadr (sciita). Queste manifestazioni sono arrivate perfino a violare la cosiddetta “zona verde”, quella dove si trovano ambasciate straniere, la base americana, e il Parlamento. Si è trattato non solo di proteste totalmente pacifiche che hanno perfino ricevuto la solidarietà dei militari di guardia al Parlamento (per lo più, e non a caso, peshmerga curdi), ma di migliaia di persone che come unico emblema portavano la bandiera nazionale irachena e urlavano slogan contro le divisioni etniche o religiose e chiedevano al governo onestà e competenze.
Anche grazie a quei moti di piazza alcuni ministri sono stati sostituiti ma la battaglia è ancora lunga e non è per niente certo che al-Abadi e chi protestava riuscirà ad avere la meglio. A tutt’oggi la maggior parte dei ministri risponde ancora al proprio gruppo piuttosto che al primo ministro o allo Stato. Se la battaglia contro le lottizzazioni religiose non prevarrà, una volta eliminato l’Isis la divisione del Paese potrebbe divenire ineluttabile. Ne potrebbero gioire i curdi, sempre che Iran, Turchia e Usa dovessero permetterlo (cosa molto improbabile), ma si aprirebbero nuovi contenziosi sui confini di tutti i Paesi dell’area mediorientale con una conseguente instabilità diffusa dagli esiti potenzialmente drammatici.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.