Maduro-Capriles: la sfida che infiamma un Venezuela già in subbuglio

di Gianluca Vivacqua

Uno è il diadoco di Chávez. Il baffuto burocrate di regime che forse non sarebbe mai diventato presidente all’ombra del nuovo Bolivar, ma è finito per esserlo sull’onda emotiva provocata dalla morte di quello, e anche alla luce di un’investitura forte, proveniente direttamente da lui. L’altro è l’uomo che cercò, per vie democratiche ma senza fortuna, di porre fine prima all’era di Chávez, nel 2012, e poi a quella di Maduro, l’anno successivo.
Tra Nicolas Maduro ed Henrique Capriles Radonski passano esattamente dieci anni di differenza: entrambi sono di Caracas, il primo ha visto la luce nel ’62, il secondo nel ’72. Partiti da origini molto simili (entrambi provengono da famiglie ebraiche sefardite), hanno poi intrapreso strade politiche diverse. Uno, Maduro, fece carriera nel sindacato della metropolitana di Caracas per poi sposare la causa del partito socialista venezuelano ed entrare nella cerchia dei fedelissimi di Hugo Chávez. Nel 2006 divenne ministro degli Esteri del governo del colonnello, e mantenne tale carica fino al gennaio 2013. Nel frattempo, più precisamente dall’ottobre 2012, era divenuto già vicepresidente del Venezuela, carica che fu il trampolino di lancio per il suo insediamento fortuito, imprevisto, insperato, a Palazzo di Miraflores.
L’altro, Capriles, divenne il deputato più giovane della storia del Venezuela nel 1998 con un partito centrista, il COPEI. Da esso però si distaccò molto presto per partecipare da fondatore a un progetto politico nuovo di zecca, il partito Primero Justicia, alla cui guida venne eletto nel 2008 governatore dello stato di Miranda (che comprende anche una parte dell’area metropolitana di Caracas) e si presentò per due volte come candidato alle presidenziali. Avrebbe potuto essere un Macron in salsa sudamericana ante litteram, ma fallì in entrambe le occasioni.
Frattanto Maduro s’incaricava di non deludere le attese di chi sospettava che la sua dedizione a Chávez lo avrebbe obbligato a non discostarsi dalla linea del predecessore, neppure a livello di paranoie: dall’inizio del suo mandato, infatti, non sprecò un giorno nel ribadire che in Venezuela (e ciò giustificava l’autoritarismo) era in atto un “golpe continuo” da parte degli oppositori, anche se il governo poteva comunque contare sull’appoggio della popolazione, almeno di quella lealista-chavista, e delle forze armate, la benemerita Guardia Nacional Bolivariana. In effetti dal 2013 ad oggi le tensioni sociali in Venezuela non hanno fatto che crescere di pari passo con la crisi economica e, dopo un primo picco a fine 2013 – metà 2014, hanno avuto una nuova improvvisa escalation a partire dal marzo di quest’anno. A far da detonatore la decisione della Corte suprema, praticamente un’appendice giudiziaria del governo, di esautorare il Parlamento avocando a sé il potere legislativo: il fronte politico e civile anti-chavista, scrollatosi di dosso il malumore sonnecchiante, è tornato ad essere violentemente protagonista in strada, e la spirale di sdegno non si è fermata neppure quando la Corte suprema ha fatto frettolosamente dietrofront sulla sua decisione, giudicata golpista anche a livello internazionale. Ormai la miccia per una nuova stagione di turbolenze di piazza era accesa; ormai il guanto per una nuova sfida tra Maduro e Capriles era lanciato. E ora, mentre il Macron venezuelano, pur senza En Marche, si mette ugualmente in marcia per le vie di Caracas, l’apostolo del verbo chavista si tormenta nel pensiero che, qualunque mossa decida di tentare (come ad esempio convocare un’assemblea costituente del popolo per riscrivere la Costituzione), potrebbe essere un passo ulteriore per incrementare il caos.

Nella seconda foto: Henrique Capriles.