Persiste la piaga del lavoro minorile

di C. Alessandro Mauceri

Ennesimo schiaffo alle promesse di eliminare una delle maggiori piaghe dei nostri tempi: il lavoro minorile.
L’ultimo rapporto pubblicato dall’UNICEF non lascia abito a dubbi: “I bambini di tutto il mondo sono regolarmente impegnati in forme, a volte retribuite altre volte non pagate, di lavoro”. Secondo l’UNICEF oggi in tutto il mondo sono oltre 150milioni i bambini costretti a lavorare. Un numero enorme ma che potrebbe essere sottostimato.
Spesso sono coinvolti in attività pericolose che possono compromettere il loro sviluppo fisico, mentale, sociale o educativo con conseguenze devastanti per il futuro di tutto il pianeta. “La prevalenza del lavoro minorile è più elevata nell’Africa subsahariana. Nei paesi meno sviluppati, circa uno su quattro bambini (dai 5 ai 17 anni) sono impegnati in manodopera che è considerata dannosa per la loro salute e sviluppo”.
Dati che ricordano i motivi per cui, già da decenni, sono stati emananti regolamenti, norme e accordi internazionali. Come la Convenzione sull’organizzazione internazionale del lavoro (OIL) n. 138 riguardante l’età minima per l’ammissione all’occupazione e la raccomandazione n. 146 (1973); o la Convenzione dell’OIL n. 182 (concernente il divieto e l’azione immediata per l’eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile) e la raccomandazione n. 190 (1999); e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo.
Accordi sottoscritti e spesso anche ratificati, ma poi dimenticati in un cassetto in molti paesi del mondo. Regole che non servono a nulla di fronte alla bramosia delle multinazionali di avere materie prime e forza lavoro a prezzi sempre più bassi. Sono questi soggetti dalle dimensioni economiche e geopolitiche impressionanti che non si pongono alcun limite. Interessano solo i costi: più bassi sono meglio è, anche se il prezzo di ridurli così tanto ed essere “competitive” (ma il realtà lo sono già) o di guadagnare di più, è la vita stessa di milioni di bambini.
Così fingono di non sapere. Al massimo accusano qualche otto fornitore locale il cui nome cambia nel giro di pochi giorni (poi tutto ricomincia come prima).
Molte volte anche i clienti fingono di non vedere e di non sapere chi e come ha prodotto i beni che acquistano nei negozi al capo opposto del mondo. Prodotti che, grazie a leggi accondiscendenti – come gli accordi internazionali sugli scambi di cui si parla tanto come il TTIP o le norme sulla tracciabilità dei prodotti alimentari (introdotta nell’UE e poi modificata ad hoc) – permettono a miliardi di oggetti di fare il giro del mondo quasi senza controlli.
Prendere coscienza del problema è, però, solo la prima fase. In mancanza di norme internazionali rispettate, servono strumenti per imporle o almeno per scoraggiare lo sfruttamento del lavoro minorile: controlli severi e pesanti sanzioni non solo per gli imprenditori che schiavizzano migliaia di bambini, ma anche per i governi che fingono di non vedere cosa accade all’interno dei confini nazionali.
Come in India, paese di cui si parla spesso lodandolo per la crescita economica, ma di cui nessuno riferisce che, secondo i dati dell’UNICEF, il 12 per cento dei minori è sfruttato per lavori (spesso molto dannosi per la crescita e la salute). Situazione analoga riguarda l’America Latina. E ben peggiore è quanto accade nei paesi africani dove queste percentuali raggiungono e superano il 30 per cento. Qui la fame di materie prime e di prodotti agricoli fa girare los guardo altrove ai paesi più sviluppati. In questi paesi un minore su tre rinuncia al proprio futuro per lavorare (in alcuni casi la fascia d’età dei dati raccolti è tra 5 e 17 anni: un grave errore dato che unisce fasce d’età tropo diverse tra loro)
In molti paesi del mondo, i bambini-lavoratori devono faticare lunghe ore per guadagnare quanto basta per sopravvivere, loro e le loro famiglie. Le cause dello sfruttamento minorile sono le stesse dappertutto: povertà, disuguaglianza sociale e mancanza di istruzione. Secondo il rapporto dell’UNICEF, in molte zone rurali e impoverite del mondo, molti bambini non hanno alcuna alternativa reale: mancano le scuole e gli insegnanti anche quando ci sono, spesso possono frequentarle non più di un bambino per famigli. Per gli altri c’è solo “lavoro”. Nelle campagne come nelle città dove i bambini diventano anelli della catena di produzione di prodotti a bassissimo costo, facili da assumere e facile da licenziare. Prodotti alimentari (il settore agricolo non organizzato impiega circa il 60 per cento del lavoro minorile), ma anche l’estrazione mineraria e l’assemblaggio non organizzato. Piccoli operai che lavorano spesso in ambienti non sicuri dove sussiste un pericolo costante di incidenti.
In tutti i casi si tratta di minori costretti a condurre una vita di povertà, analfabetismo e privazioni: le cattive condizioni di lavoro e la tenera età spesso causano problemi di salute. La tortura fisica e mentale cui sono sottoposti causa anche altri problemi: i lavoratori bambini diventano mentalmente ed emotivamente maturi troppo velocemente.
Per cercare di sensibilizzare la popolazione mondiale su questo argomento, Justin Dillon, un ex fotografo diventato attivista, ha creato Slavery Footprint, un “gioco” online che, dopo aver ricevuto determinate informazioni, elabora il numero di persone che lavorano in uno stato di schiavitù per produrre gli oggetti che possediamo. Bastano una decina di domande sui dati della persona che partecipa (età, sesso, residenza, veicoli che possiede, cibo consumato mangia, alimenti che indossa e poco altro) per far fare al software una stima del numero di schiavi che “lavorano per te”.
Ma non serve una app per sapere che il computer o lo smartphone che si sta usando per leggere questo articolo ha una batteria che è fatta prelevando il Litio dal coltan un minerale che proviene da pochi paesi africani dove lo sfruttamento minorile nelle miniere è prassi diffusa. Così come tutti sanno bene che molti capi di abbigliamento vengono prodotti in Cina o in Turchia, paesi che hanno fatto dello sfruttamento minorile la propria ricchezza. Eppure, non solo questi prodotti continuano ad essere venduti in tutto il mondo, ma i leader di questi paesi vengono accolti a braccia aperti dai governanti delle nazioni “sviluppate”, posti dove nessuno oserebbe mai far fare ad un bambino quello che in molte fabbriche cinesi o turche è l’unico modo per sopravvivere.
E nessuno dei leader dei paesi sviluppati ha mai neanche osato pensare di porre un veto a molti dei prodotti alimentari e alle merendine realizzate mediante lo sfruttamento di milioni di bambini che, per non morire di fame, lavorano nelle piantagioni di cacao in America Latina e in Africa.
Fino a quando non si prenderà coscienza di tutto questo e fino a quando non cambierà l’atteggiamento dei governi e dei consumatori, gli annunci dell’UNICEF non serviranno a nulla. Fino a quando, non verranno imposte regole comuni a quella che oggi, volenti o nolenti, è un’economia globale, le multinazionali avranno sempre la meglio sui diritti sociali.
E a pagarne le conseguenze saranno i bambini di tutto il mondo.