Quale modello per l’Europa?

di Giovanni Ciprotti

BrexitL’esito del referendum del 23 giugno in Gran Bretagna, con il quale il 52% degli elettori britannici ha votato per l’uscita del loro Paese dalla Unione Europea, ha generato un clima di incertezza e preoccupazione che coinvolge tutti i cittadini europei ma che soprattutto chiama in causa il mondo finanziario, quello imprenditoriale e l’intera classe politica europea.
Non sono mancati i tentativi di stimare gli effetti economici della Brexit e molti politici si sono affrettati a diffondere messaggi “positivi” per tranquillizzare sia la pubblica opinione dei 27 Paesi che nel prossimo futuro dovrebbero restare orfani del Regno Unito sia gli investitori. Il nostro presidente del Consiglio Matteo Renzi, il quale nei giorni precedenti il referendum sulla Brexit aveva auspicato una vittoria del fronte del “Remain”, ha ammesso l’eccezionalità del momento – è la prima volta che un Paese membro della Ue decide di uscirne – ma anche approfittato per rilanciare il processo di integrazione di una casa europea definita “da ristrutturare”.
E se da un lato sembrano scontati gli appelli alla calma per limitare i contraccolpi già evidenti dagli andamenti delle principali borse europee, d’altro canto sorprende l’assenza di proposte politiche per l’Europa del futuro.
Politici e analisti si sono concentrati, sia prima sia dopo il referendum, sugli aspetti economici derivanti dal risultato del voto britannico: è stato evidenziato cosa potrebbe perdere o guadagnare la Gran Bretagna restando o lasciando l’Unione e sono stati elencati vantaggi e svantaggi per l’Unione se restasse a 28 Paesi o diventasse a 27.
Poche parole sono state spese sulle possibili origini politiche alla base della crisi della Ue, sulla debolezza istituzionale di questa Unione nella quale ogni Paese si sente autorizzato a restare con il grado di partecipazione e di vincolo che desidera.
Eppure la disaffezione nei confronti della Ue che si può riscontrare in larghi settori della pubblica opinione di tutti i Paesi membri così come in non pochi partiti politici – e non solo quelli dichiaratamente euroscettici – non è originata soltanto dall’egoismo nazionale presente in gradi diversi in tutti i Paesi membri, ma anche dalla frustrazione di chi auspicherebbe un’Unione forte ed efficace ed è costretto a constatare la debolezza delle istituzioni europee quando vengono messe alla prova su temi particolarmente delicati e complessi, quali il fenomeno migratorio, la lotta al terrorismo internazionale e il coinvolgimento nelle crisi internazionali.
All’indomani della fine della Guerra Fredda, mentre ci si illudeva di poter costruire un nuovo ordine mondiale attorno all’unica superpotenza rimasta – la “lonely superpower”, com’era stata ribattezzata – e si sperava di assistere ad una accelerazione del processo di integrazione europeo verso gli Stati Uniti d’Europa, le élite europee occidentali hanno preferito concentrare la loro attenzione sul processo di inclusione nella “Europa a 12” del maggior numero di nuovi Stati membri il più rapidamente possibile, con una particolare attenzione nei confronti degli Stati europei un tempo appartenenti al blocco sovietico. Quel disegno ha innegabilmente avuto successo, se come indicatore si adotta semplicemente il numero di Paesi attualmente aderenti alla Ue. Purtroppo questo obiettivo è stato raggiunto a scapito della riforma del modello istituzionale della Comunità europea – così si chiamava a quel tempo – che non è stato adeguato alle nuove esigenze. Il metodo di “governance” inter-governativa ha prevalso su quello comunitario. Tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila, l’entrata in vigore del Trattato di Schengen e l’adozione dell’euro hanno contribuito ad uniformare alcuni aspetti della vita di milioni di cittadini europei, ma al tempo stesso hanno introdotto numerose eccezioni per diversi Stati membri, con il risultato di un’Unione “a macchie di leopardo”, nella quale uno Stato può essere membro ma non adottare la cosiddetta moneta unica (che unica quindi non è) oppure può decidere se aderire alle regole di Schengen.
Il compromesso del febbraio 2016 che l’Unione Europea ha siglato con la Gran Bretagna per tentare di convincere gli elettori britannici a non votare a favore della Brexit ha aggiunto un’ulteriore, pesante eccezione a quelle già esistenti.
Può un’unione tra Stati, in una forma ibrida che non è ancora ne’ di tipo confederativo ne’ federativo, avere vita lunga se è disposta a concedere con facilità deroghe a qualsiasi Paese membro per timore che quest’ultimo decida di uscire dal gruppo? Può questa istituzione divenire solida se è disposta a riconoscere uno status privilegiato ad un Paese purché diventi membro dell’Unione?
Per cercare qualche precedente che possa aiutarci a chiarire qualche dubbio, facciamo un salto nel passato di poco meno di duecento anni, a metà dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America, una nazione che potrebbe rappresentare un possibile modello di riferimento per noi europei, sebbene sia nata in un contesto storico non paragonabile a quello europeo del XX e del XXI secolo, se ancora ha un senso l’idea di una Europa federale.
Dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, gli Stati Uniti aumentarono progressivamente il loro territorio espandendosi verso ovest ed inclusero nell’Unione federale nuovi Stati, man mano che questi manifestavano la volontà di essere ammessi nella unione e dimostravano di avere i requisiti minimi per essere accolti.
Il processo di inclusione non presentava particolari difficoltà perché i requisiti per l’ammissione erano pochi e chiaramente definiti. Tuttavia, sin dai primi decenni di vita della nuova nazione, una questione aveva diviso cittadini e partiti politici perché era il riflesso di due concezioni opposte di società: la schiavitù.
Gli Stati del Sud, con una economia in prevalenza basata sulle grandi coltivazioni di cotone, ritenevano indispensabile il mantenimento della schiavitù – la “singolare istituzione”, come veniva eufemisticamente chiamata all’epoca – che garantiva loro larga disponibilità di manodopera a prezzi irrisori.
Il nord in rapida industrializzazione, al contrario, non necessitava di schiavi bensì di operai, più o meno specializzati. La schiavitù mal si conciliava con il modello produttivo nordista, ma l’avversione alla schiavitù da parte degli Stati del nord poggiava anche su motivazioni etiche in quanto veniva considerata un’aberrazione da eliminare al più presto.
La contrapposizione tra queste due idee di società si rifletteva anche nelle istituzioni americane, a partire dal Congresso. Nella Camera dei Rappresentanti, in cui i deputati erano eletti in numero proporzionale alla popolazione di ciascuno Stato, ben presto prevalsero, per le diverse dinamiche demografiche, i deputati provenienti dagli Stati del Nord; nel Senato, dove in base alla Costituzione ciascuno Stato elegge due senatori indipendentemente dalla estensione e dalla popolazione, la parità numerica tra Stati del nord e Stati del sud aveva fino al 1820 garantito un equilibrio tra i due corrispondenti gruppi di senatori.
Nel 1820 la richiesta di annessione del territorio del Missouri avrebbe rotto il delicato equilibrio, per cui le forze politiche giunsero ad un accordo, che sarebbe passato alla storia come il “compromesso del Missouri”. In base all’accordo sarebbero stati ammessi contemporaneamente due Stati: il Missouri, che nel suo territorio consentiva la schiavitù, e il Maine, che la vietava. Inoltre veniva stabilito che in seguito sarebbe stata vietata la schiavitù nei futuri Stati a nord del parallelo 36° 30’, mentre sarebbe stata ammessa nei futuri Stati a sud di quella linea.
L’equilibrio garantito dal “compromesso del Missouri” resse per una trentina d’anni e fu messo in discussione quando la California chiese di entrare nella Unione. Era il 1850 e non c’erano le condizioni per un ingresso contemporaneo di una coppia di Stati, uno schiavista e uno antischiavista, per mantenere l’equilibrio numerico in Senato. Dal dibattito emerse un ulteriore compromesso, approvato nel 1850, i cui punti principali erano: l’annessione della California come Stato non schiavista; la costituzione in territori – uno status che precedeva quello di Stato – di Utah e New Mexico (le regioni acquisite con la guerra al Messico di due anni prima) senza alcun vincolo sulla schiavitù, lasciando intendere che sarebbe stata una decisione dei cittadini di quegli Stati ad introdurre o vietare la schiavitù nei rispettivi territori; una legge più severa sugli schiavi fuggiti; la copertura da parte del governo federale del debito nazionale dello Stato del Texas, dove era ammessa la schiavitù (anche allora a volte si discuteva, come oggi, di come fronteggiare singoli debiti nazionali!).
Ancora una volta lo scontro tra Stati a favore della schiavitù, nei quali il malumore aveva già alimentato propositi secessionisti, e Stati abolizionisti era stato evitato, ma il precario equilibrio non sarebbe durato a lungo. Nel 1854, soltanto 4 anni dopo l’ultimo compromesso, il Kansas-Nebraska Act consentiva agli abitanti dei territori di Kansas e Nebraska, situati a nord del parallelo 36° 30’ definito nel 1820, di decidere in merito alla questione della schiavitù. Di fatto veniva annullato il “compromesso del Missouri”. La successiva vittoria delle fazioni pro-schiavismo nel Kansas, accompagnata da uno strascico di brogli e trasferimento “abusivo” di elettori degli Stati confinanti da parte di entrambe le fazioni in lotta, scatenò una serie di sanguinosi scontri tra bande nel territorio del Kansas.
Nello stesso periodo altre due questioni contribuirono ad allontanare gli Stati sudisti da quelli nordisti: un consistente arrivo di immigrati, circa tre milioni tra il 1846 e il 1854, e una grave crisi economica negli ultimi anni Cinquanta. Come sempre accade nei periodi di crisi economiche, la contemporanea presenza di immigrati, solitamente disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare, scatena sentimenti di ostilità nelle popolazioni già residenti sul posto, in particolar modo nelle fasce più svantaggiate, che vivono direttamente la competizione dei nuovi arrivati sul mercato del lavoro. Il nuovo consistente flusso migratorio e la depressione economica incisero in modo diseguale sulle economie degli Stati meridionali e di quelli settentrionali perché disomogenei erano i due sistemi socio-economici e differenti furono gli interventi che i cittadini delle regioni del nord chiesero al governo rispetto ai cittadini del sud, si trattasse di misure a sostegno di specifici settori produttivi o modifiche alle tariffe doganali sui prodotti.
In pochi anni altri episodi drammatici scavarono un solco ancora più profondo nella società statunitense fino allo scoppio, nel 1861, della guerra civile americana, un conflitto terribile che insanguinò gli Stati Uniti per quattro lunghissimi anni.
La classe politica dell’epoca non fu all’altezza della situazione. Lo storico Maldwyn Jones, nel suo libro “Storia degli Stati Uniti”, così scrive di James Buchanan, presidente americano tra il 1857 e il 1861: “il suo gabinetto fu dominato da elementi del Sud e, ossessionato dal timore di una secessione sudista, egli concesse loro tutto quello che richiedevano”.
Gli americani non avevano saputo trovare una soluzione politica e pacifica alla questione della schiavitù e per evitare la secessione di alcuni Stati avevano escogitato deroghe e accettato compromessi al ribasso per decenni. Alla fine, soltanto le armi permisero loro di trovare una soluzione sulla “singolare istituzione” e impedirono la disgregazione della Unione federale.
L’Europa di oggi non sembra correre rischi di guerra civile. Tuttavia, il riaccendersi dei nazionalismi e il recente pronunciamento dei cittadini britannici sull’uscita dalla Unione Europea potrebbero avviare un pericoloso processo di disgregazione.
Se il ritorno agli Stati nazionali fosse uno sbocco auspicabile, non dovremmo far altro che restare alla finestra e avere un po’ di pazienza. Ma se al contrario si volesse rimettere il processo di integrazione europea sui binari che portano all’Europa federale, sarebbe opportuno individuare un modello minimo sia nelle funzioni assegnate al governo federale sia nel numero di Stati che, sin dall’inizio e senza alcuna eccezione né deroga, accettino di rinunciare alla medesima porzione della propria sovranità per cederla ad un centro federale.