Russia: la retorica di Trump alla prova della realtà

di Dario Rivolta * –

L’agenzia Bloomberg riferisce che l’Unione Europea avrebbe in programma di estendere le sanzioni contro la Russia per ulteriori sei mesi dopo la scadenza prevista per il giugno prossimo. Ne saranno contente, lo dico con ironia, tutte quelle aziende italiane che giorno dopo giorno vedono in quel grande mercato sostituire le loro merci con quelle concorrenti di Paesi che non aderiscono alle sanzioni.
La notizia non è ancora certa e potrebbe essere smentita dai fatti, ma le probabilità che sia confermata durante uno dei prossimi incontri dei ministri europei è molto probabile.
Durante la sua campagna elettorale il presidente Usa Donald Trump aveva più volte ripetuto che sarebbe stata sua intenzione riallacciare rapporti costruttivi con Mosca e tutti hanno pensato che l’eliminazione dell’embargo sarebbe stata una delle sue prime decisioni. Purtroppo la storia delle presunte interferenze russe in merito alle elezioni americane e, recentemente, il pseudo – scandalo che ha colpito il suo consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, obbligato poi alle dimissioni, hanno creato un’atmosfera per la quale ogni provvedimento in quella direzione è diventato politicamente impraticabile. Durante la conversazione telefonica tra i due presidenti, avvenuta lo scorso 28 gennaio, era stata riconfermata la reciproca volontà di “restaurare commerci e legami economici di mutuo beneficio” e di “lavorare insieme anche su temi di politica internazionale”. Tuttavia, l’atteggiamento di alcuni parlamentari americani, sia democratici sia repubblicani, aveva fatto capire che percorrere quella strada non sarebbe stato per nulla facile, almeno a Washington. L’ex candidato repubblicano alla presidenza, John Mc Cain, aveva perfino rilasciato un pubblico comunicato prima che la telefonata avesse luogo diffidando Trump dall’ipotizzare la fine delle sanzioni, per non passare per un “ingenuo e pericoloso”. Per dare maggior forza alle sue parole, Mc Cain ipotizzava anche che le sanzioni stesse potessero diventare oggetto di una specifica legge, in modo da rendere quasi impossibile una decisione autonoma del Presidente su quell’argomento. In effetti, una legge di questo tipo è stata presentata e approvata al Senato e attende ora il voto del Congresso. Il provvedimento, chiamato Russia Sanction Review Act, prevede che qualunque azione presidenziale che riguardi le sanzioni debba ottenere l’approvazione delle due Camere e le stesse avranno anche il potere di veto.
E’ naturale che in questo clima le dichiarazioni di Trump e dei suoi collaboratori si siano fatte molto prudenti. Al punto che l’ex tycoon, interrogato in proposito, già il 27 gennaio disse che era “prematuro discutere la possibilità di eliminare le sanzioni contro la Russia”. Aggiunse poi che aveva un grande rispetto per Putin ma che non sapeva se sarebbero potuti “andare d’accordo”. Nei giorni successivi sia lui che i suoi collaboratori diretti hanno addirittura cominciato a mettere paletti sempre più stretti all’ipotesi. Il Segretario di Stato Tillerson, giudicato un amico della Russia, durante la sua audizione al Senato degli Stati Uniti ha testualmente dichiarato che “i nostri alleati della Nato hanno ragione ad essere allarmati per la Russia che risorge”. E il Segretario alla Difesa Mattis, non da meno, ha confermato la volontà di mantenere truppe della Nato nei Paesi Baltici e accusato la Russia di voler “rompere” l’Alleanza Atlantiva. Nel recente incontro tra Tillerson e Lavrov tenuto a Berlino il 16 febbraio il Segretario di Stato americano ha ribadito che la Russia deve “rispettare gli accordi di Minsk 2. Anche il nuovo Ambasciatore americano all’ONU, Nikki Haley, ha espresso una “ferma condanna alle azioni della Russia in est-Ucraina” e affermato che le sanzioni non saranno eliminate fino a che la Crimea non sarà “restituita” a Kiev. Lo stesso concetto e’ stato ripetuto recentemente da Sean Spice, portavoce ufficiale di Trump. Evidentemente l’ipotesi e’ del tutto irrealistica e il Ministero degli esteri russo l’ha dichiarato senza mezze parole. D’altra parte, nella penisola si era tenuto un referendum che aveva visto la stragrande maggioranza dei cittadini scegliere di rimanere russi a tutti gli effetti ed è ben difficile immaginare che il Cremlino, supportato in ciò da tutta l’opinione pubblica russa, voglia decidere di rinunciare a una parte del proprio territorio che, lo ricordiamo, fu “donato” all’Ucraina solo quando questa era parte integrante dell’Unione Sovietica.
Ad aiutare lo spiegamento di forze anti-russe che assedia il presidente Trump ci pensa anche l’Ucraina stessa che, non a caso e proprio in prossimità alla data del suo insediamento, ha visto ricominciare gli scontri nelle zone contese. Naturalmente i vari Mc Cain sostengono sia stata la Russia a fomentare questi nuovi conflitti e lo avrebbe fatto per “mettere alla prova” la capacità di reazione americana. Gli analisti al contrario ritengono che Mosca non avesse nessuna utilità alla ripresa delle ostilità, mentre il presidente ucraino Petro Poroshenko, preoccupatissimo del possibile venir meno del sostegno americano, aveva tutto l’interesse al peggioramento della situazione per ottenere nuovi aiuti e la conferma del mantenimento delle sanzioni. D’altra parte era già stato previsto, proprio da molti analisti indipendenti, che qualcosa sarebbe successo in Ucraina contro la tregua in atto e prima dell’entrata in carica del nuovo Presidente per poter giustificare il “necessario” permanere dell’embargo.
Se, come ormai sembra certo, nemmeno Trump riuscirà a por fine (almeno a breve termine) alla nuova guerra fredda contro la Russia, è prevedibile che anche in Europa avranno la meglio i sostenitori delle sanzioni. In altre parole, le ostilità verso Mosca continueranno. Bruxelles e Washington continuano a porre l’accento sul non rispetto degli accordi di Minsk 2 (quelli che consentirono di concordare il cessate il fuoco) ma si rivolgono ipocritamente solo ai separatisti (e alla Russia). Perché non ricordare che una delle principali condizioni, non rispettata, era che Kiev dovesse realizzare, entro la fine del 2015, una riforma costituzionale che avrebbe consentito alle regioni dell’est una certa autonomia amministrativa? Era questo uno dei passaggi indispensabili per convincere gli abitanti del Donbass a por fine alle loro rivendicazioni. Eppure, in Europa nessuno ne parla.
Confesso che, pur sforzandomi, non riesco a capire la nostra logica nell’accettare questa situazione. E’ sotto gli occhi di tutti che checché ne dicano i polacchi e i loro emuli, l’orso russo non costituisce nessun pericolo per la sicurezza dei Paesi europei, tanto è vero che lo stesso Jens Stoltenberg, il egretario generale della Nato, ha ammesso che non esiste nessuna minaccia imminente da quella direzione. E’ ormai pure assodato che quanto successo a Maidan fosse frutto d’interventi esterni miranti unicamente a eliminare il legittimo presidente Viktor Yanukovich, giudicato, a torto o a ragione, troppo vicino a Mosca. E’ anche certo che il Cremlino non potrà mai accettare ne’ di cedere la Crimea ne’ di rinunciare a proteggere gli abitanti etnicamente russi del Donbass.
E allora? Qualcuno vuole la guerra a tutti i costi?
Che lo dica apertamente e forse anche gli spiriti troppo accomodanti si sveglieranno. Nel frattempo le uniche cose che mi sembrano incontrovertibili sono che alcune nostre aziende chiudono, che sempre più raramente i ricchi turisti russi comprano o passano le vacanze da noi, che chi voleva creare problemi in (e con) l’Europa per indebolirla al suo interno ci sta riuscendo benissimo.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.