Russiagate. Nuova tegola per Trump: Gates si dichiara colpevole di cospirazione

di Enrico Oliari

La nuova tegola su Donald Trump si chiama Rick Gates. E non si tratta semplicemente di un’ombra o di un sospetto, perché l’ex numero due della campagna elettorale e consigliere del Tycoon ha fatto sapere di volersi dichiarare colpevole di cospirazione e di aver mentito all’Fbi. Il Russiagate si arricchisce così di un nuovo punto fermo, dopo che agli inizi di dicembre altrettanto aveva fatto l’ex consigliere Michael Flynn, da subito silurato per aver promesso (in cambio di cosa?) all’ambasciatore russo a Washington Sergey I. Kislyak l’eliminazione delle sanzioni al suo paese.
Della decisione di dichiararsi colpevole e di collaborare con il procuratore speciale Robert Mueller, Gates ne ha parlato in una lettera inviata a parenti e amici ed intercettata dalla Abc, nella quale il 45enne repubblicano scrive che “Nonostante il mio iniziale proposito di difendermi con forza dalle accuse, ho avuto un ripensamento. La verità è che la lunghezza di questo procedimento legale, i costi e l’atmosfera da circo che abbiamo già visto sui media per questo processo sono troppo. Uscirò da tutto questo per il bene della mia famiglia. Vi sarà per me un’umiliazione pubblica, ma al momento sembra un piccolo prezzo da pagare rispetto a quanto i nostri bambini avrebbero dovuto sopportare”.
Collaborando con gli inquirenti Gates avrà uno sconto di pena sulle accuse più gravi, e non sono poche. Il suo nome è legato a doppio filo a quello di Paul Manafort per un totale di 32 capi d’accusa che vanno dalla cospirazione alla frode fiscale e al riciclaggio, nelle carte si parla di “agenti non registrati di un governo straniero e di partito politici stranieri”, probabilmente dell’Ucraina nella sua parte filorussa. Manafort, il numero uno della campagna elettorale di Trump che interagiva con Gates, è risultato essere stato sul libro paga del partito filorusso dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich (consulenze per 12,7 milioni di dollari) e per un affare da 18 milioni di dollari inerente la vendita di partecipazioni della tv via cavo ucraina a una società creata in partnership tra lo stesso Manafort e un oligarca russo, Oleg Deripaska, vicino al presidente russo Vladimir Putin.
Stando alle accuse i due avrebbero fatto transitare sui loro conti più di 75 milioni di dollari, e Manafort con l’aiuto di Gates avrebbe riciclato oltre 30 milioni di dollari, “reddito che è stato nascosto al dipartimento del Tesoro e al dipartimento di Giustizia”. Manafort continua a dichiararsi non colpevole, mentre Gates lo ha fatto fino ad oggi.
La Casa Bianca, comprensibilmente, continua a tenere le distanze, ed oggi Mercedes Schlapp, direttore delle comunicazioni strategiche, ha comunicato che “Quest’incriminazione non ha nulla a che fare con la Casa Bianca o il presidente: come sapete, abbiamo collaborato con il consulente speciale e non ci sono prove di collusione, nessuna prova di irregolarità”.
Si stringe tuttavia il cerchio attorno a Trump, con l’ex candidata ed ex segretario di Stato Hillay Clinton in paziente e silenziosa attesa, pronta a mettere in discussione l’elezione del presidente Usa. Già in settembre aveva dichiarato che “Non escludo l’ipotesi di contestare la legittimità della vittoria di Trump nel 2016”.
Perché, a quale scopo e in cambio di cosa, ci si chiede e si chiedono gli inquirenti, nel giugno 2016 hacker russi hanno improvvisamente divulgato in piena campagna elettorale oltre 20mila email del partito democratico che avevano portato alla luce un’operazione del comitato centrale, che avrebbe dovuto essere neutrale, volta a screditare il candidato alle primarie Bernie Sanders a vantaggio della Clinton? Lo scandalo fece crollare in breve tempo il vantaggio dell’ex segretario di Stato su Trump di ben 9 punti.
Nei giorni scorsi Mueller ha ripreso in mano la posizione del genero di Donald Trump, Jared Kushner, il quale è anche consigliere del presidente: accanto alle indagini sui contatti di Kushner con l’ex consigliere Michael Flynn, il procuratore speciale ha messo le mani sui capitali attratti dalla sua azienda immobiliare, la Kushner Companies, provenienti dalla Russia e dalla Cina.
Gli altri nomi del Russiagate sono quelli del ministro della Giustizia Jeff Sessions, il quale anche in gennaio è stato riascoltato dalla stessa commissione senatoriale dove ancora una volta ha negato sotto giuramento di avere avuto rapporti con i russi durante la campagna elettorale, mentre l’Fbi continua a dirsi certa di avere le prove di almeno tre incontri dell’Attorney General con l’ambasciatore russo Kislyak; del consigliere politico del presidente e figura di primissimo piano alla Casa Bianca Stephen Miller, il quale è stato interrogato da Mueller in merito al siluramento del 9 maggio 2017 del capo dell’Fbi James Comey, che stava indagando proprio sulla collaborazione dello staff del presidente con i russi; dell’ex capo stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, il quale ha definito in una dichiarazione sul nuovo libro di Michael Wolff “sovversivo” e “antipatriottico” l’incontro tra il figlio di Trump, Donald jr., e un gruppo di russi avvenuto durante la campagna elettorale del 2016 alla Trump Tower; di Donald Trump Jr., il quale avrebbe ha incontrato il 9 giugno 2016 l’avvocata russa Natalia Veselnitskaya, considerata vicina al Cremlino, per ottenere informazioni utili a screditare in campagna elettorale la concorrente Clinton. Erano addirittura “avidi” di informazioni, ha detto Veselnitskaya in un’intervista alla Nbc.