Schiavismo dietro gli sponsor degli Europei di calcio

di C. Alessandro Mauceri

Cina fabbric nikeIn questi giorni ad attirare l’attenzione degli appassionati di calcio (e non solo) è il Campionato europeo in svolgimento in Francia. Un evento così importante da far passare in secondo piano anche i durissimi scontri che, da settimane ormai, vanno avanti oltralpe con milioni di persone scese in piazza per protestare contro la riforma dei contratti di lavoro, il JobsAct francese.
Gli occhi di tutti restano concentrati su squadre di calcio, stadi e giocatori. E, che lo si voglia o no, sulla pubblicità e sugli sponsor. È inutile negarlo: se le squadre di calcio possono permettersi di spendere somme spaventose per i propri giocatori e per tutto il resto è solo grazie alle laute provvigioni concesse dalle aziende che le finanziano. In pochi, però, guardando una partita, pensano mai che le scarpe o le magliette indossate dai campioni sono le stesse che escono dalle mani di milioni di lavoratori sfruttati fino a regimi di quasi schiavitù dall’altra parte del mondo. Del resto la sola differenza è che il giocatore che le indossa quelle scarpe o quelle magliette viene pagato profumatamente per farlo. Chi invece quei capi di abbigliamento li realizza spesso riceve alla fine del mese (quando va bene) molto meno di quello che sindacati e organizzazioni non governative valutano essere il salario di sussistenza.
Secondo una recente ricerca, il contratto di sponsorizzazione che una delle maggiori case produttrici di abbigliamento sportivo ha stipulato con alcuni dei campioni che stanno giocando in Francia, ammonta ad una somma sufficiente per pagare gli stipendi di un anno a 19.500 lavoratori vietnamiti che lavorano nelle fabbriche di quell’azienda. “Queste cifre scioccanti mostrano il modello delle grandi aziende sportive: un’escalation nelle comunicazioni di marketing e di ricerca della redditività per gli azionisti, senza che i lavoratori che contribuiscono alla loro crescita davvero ne beneficino”, ha detto Nayla Ajaltouni del Collectif Ethique sur l’étiquette, che da anni promuove azioni per i diritti umani sul lavoro e che comprende diverse associazioni di solidarietà internazionale e organizzazioni sindacali, e che ha realizzato lo studio.
È questo il paradosso del mondo dello sport: mentre da una parte spese di marketing e di sponsorizzazione (e i dividendi) crescono, i salari pagati alle ditte produttrici (spesso si tratta di contratti di subappalto) in Asia, specialmente in Cina, in Vietnam, in Cambogia e in Indonesia, restano su livelli troppo bassi. Ad esempio, secondo i dati forniti dal Collectif Ethique sur l’étiquette, nel 2015 i dividendi versati agli azionisti dalla Nike sono cresciuti di oltre il cento per cento, fino a raggiungere quasi 3 miliardi di euro. Lo stesso per Adidas, dove l’aumento è stato di oltre il sessanta per cento, 600 milioni di euro l’anno. E così per tutti i maggiori marchi di abbigliamento sportivo. Eppure, secondo i ricercatori, su 100 euro spesi da un consumatore per un paio di scarpe, al lavoratore che le ha realizzate spettano solo 2 euro. E su 50 euro pagati per una maglietta, nelle tasche dell’operaio finiscono circa 50 centesimi.
Il resto va in spese per il marketing, per la commercializzazione e per tutto meno che per la produzione. Come per la sponsorizzazione dei club calcistici. I dieci maggiori club europei solo nel 2015 avrebbero ricevuto circa 400 milioni di euro in sponsorizzazioni. Non pochi, specie se si considera che, nonostante la crisi dilagante, questa somma è cresciuta di un terzo dal 2013. Eppure a nessuno è venuto in mente che con questi 400 milioni di euro era possibile rendere almeno accettabile il salario di ben 310mila lavoratori indonesiani che lavorano per produrre questi prodotti. A loro sono toccate solo le promesse fatte dalle maggiori aziende produttrici di abbigliamento sportivo. Promesse fatte di frasi come “pratiche responsabili” o “importanza di rispettare e promuovere i diritti umani nel complesso” o “preoccupazioni dei salari dei lavoratori restano tra le priorità individuate durante il nostro audit nelle fabbriche”.
La realtà, però, è completamente diversa. Nonostante le promesse e gli accordi sottoscritti già nel 2011 per garantire la libertà di associazione nelle fabbriche dei subappaltatori e tutelare i diritti dei lavoratori, la situazione non è cambiata. Anzi. Al punto che, un paio d’anni fa, una delle maggiori aziende produttrici di abbigliamento sportivo ha dovuto accettare di partecipare al risarcimento di 2.800 lavoratori indonesiani brutalmente licenziati.
Ma non basta. Dato che nell’ultimo periodo lo stipendio medio annuo in Cina è aumentato di 2,5 volte e il salario minimo di tre, queste industrie hanno deciso di “cambiare aria” e si sono spostate in altri paesi come Vietnam e Indonesia. Un modo come un altro per fuggire dalla “minaccia” alla “stabilità del valore aggiunto”. E di trasferire la produzione in paesi dove i diritti dei lavoratori sono praticamente inesistenti. Paesi come il Vietnam dove, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), nel 2015, quasi nove fabbriche su dieci non hanno rispettavano le leggi sul congedo pagato. O in Indonesia dove quasi una fabbrica su tre non paga i propri lavoratori in base al salario minimo locale, fissato a 80 euro al mese. E dove in due terzi delle fabbriche la durata dei turni di lavoro viene regolarmente superata. In compenso in questi paesi il salario medio degli operai di molte dei queste fabbriche è più basso perfino del salario di sussistenza: 102 euro contro 209 euro in Indonesia, 115 contro 229 in Cambogia e 174 euro contro 247 euro in Vietnam.
Tutti soldi risparmiati. Denaro che servirà a queste multinazionali per concedere dividendi ai propri azionisti ignari di essere i nuovi schiavisti del XXI secolo, e per sponsorizzare le squadre e i giocatori che stanno partecipando ai Campionati europei di calcio.