Siria. Erdogan ammassa truppe per un’azione armata contro i curdi

di Enrico Oliari

La Siria sembra non essere destinata a conoscere pace, a maggior ragione dopo che da più parte viene dato come imminente un intervento manu militari del presidente turco Recep Tayyp nei confronti dei curdi dell’Ypg, per intenderci verso coloro che si sono per primi contrapposti all’espansione dell’Isis a cominciare con la resistenza di Kobane.
Per Erdogan i curdi dell’Ypg, ala armata del Pyd (Partito democratico curdo), sono la versione siriana del Pkk ed in quanto tali “terroristi”, per cui “Domani, o il giorno dopo, libereremo presto i covi dei terroristi in Siria, a cominciare da Minbej e Afrin”. Già nel 2016 con l’operazione “Scudo dell’Eufrate” i turchi avevano costretto i curdi del Rojava a non oltrepassare il fiume riprendendo il controllo , anche a seguito di aspri combattimenti, di Jarabulus, al-Rai, Dabiq e al-Bab, tutti centri che l’Ypg aveva strappato ai jihadisti, ma ora l’ammassamento delle truppe oltre confine e il coinvolgimento delle forze turcomanne (popolazioni siriane di etnia turca) lasciano pensare che nei desiderata di Erdogan l’operazione sia tutt’altro che conclusa.
Kobane, Afrin e Minbej sono le tre province che i curdi hanno stabilito come elementi della confederazione del Rojava da inserire in un contesto autonomistico (ma non indipendentista) del futuro assetto siriano, tuttavia proprio Afrin e Minbej sono i due obiettivi che Erdogan si è proposto di liberare dalla presenza dei curdi.
Si noti che all’inizio del conflitto siriano il presidente turco aveva chiesto una zona cuscinetto di 20 chilometri nel territorio siriano per tenere lontano i curdi anche per prevenire una loro interazione geografica con il Pkk, ed aveva addirittura sostenuto l’Isis a tale scopo sia facendo passare dagli aeroporti turchi decine di migliaia di foreign fighters, sia curando negli ospedali turchi i jihadisti feriti, sia fornendo loro armi e beni logistici, sia acquistando da loro il petrolio.
Tuttavia – è bene ricordare – se non fosse stato per la resistenza dei curdi dell’Ypg prima di tutto a Kobane, i jihadisti dell’Isis si sarebbero assicurati una continuità del territorio lungo il confine turco di 400 chilometri fino a congiungersi con l’Iraq e quindi a nord di Mosul.
In un’intervista ieri Erdogan si è detto pronto a sfidare i 30mila (secondo il Pentagono) curdi dell’Ypg coinvolgendo i ribelli siriani, e già posizioni dei curdi sono state oggetto di colpi dell’artiglieria curda. L’Ypg ha risposto distruggendo alcuni mezzi corazzati turchi.
L’apertura di un nuovo fronte di guerra non va giù innanzitutto agli alleati statunitensi, che in funzione anti-Isis hanno armato e sostenuto in questi anni ed ancora oggi sia i curdo-siriani che quelli iracheni, ma davanti alle perplessità di Washington il capo di stato maggiore turco Hulusi Akar si è incontrato con il collega statunitense Joseph Dunford per dirgli in modo perentorio che “Non permetteremo all’Ypg di essere supportato e armato con il pretesto di un partenariato operativo”. Erdogan vuole coinvolgere nell’iniziativa anti-curda gli Usa e la Nato, di cui la Turchia è membro, ma il segretario generale Jens Stoltemberg ha preso tempo informandolo che al momento non è stata richiesta o formata nessuna forza dell’Alleanza. Fatto sta che Erdogan, che davanti a un rifiuto da parte della Nato potrebbe ulteriormente stringersi a Mosca, ha parlato di “obbligo della Nato a prendere posizione se un alleato subisce molestie e minacce ai propri confini”.
Quello che è certo è certo è che qualsiasi iniziativa militare dovrà avere il bene stare della Russia, unico paese realmente invitato dal governo regolare di Damasco ad operare sul proprio territorio ma parte dei tre, insieme a Iran e, appunto, Turchia che stanno lavorando ai colloqui di Astana. Tuttavia, proprio per ottenere la salvezza del governo di Bashar al-Assad e per coltivare in funziona enti-Nato l’alleanza con il doppiogiochista Erdogan, il Cremlino potrebbe acconsentire ad un intervento turco contro i curdi, i quali – come si diceva – sono stati armati dagli Usa, cioè dal nemico.
Oggi il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, ha reso noto nel corso di un intervento all’Università di Stanford che per il momento i militari statunitensi presenti in Siria resteranno al loro posto, ufficialmente per “non consentire ad al-Assad di continuare il trattamento brutale del suo stesso popolo” e per contrastare l’influenza iraniana, come pure per “non commettere gli stessi errori fatti nel 2011, quando una prematura partenza dall’Iraq ha consentito ad al-Qaeda in Iraq di sopravvivere e trasformarsi nell’Isis”. Tuttavia il messaggio appare di molteplice lettura: già gli Usa sono stati esclusi dai colloqui di Astana, ed ora non vogliono perdere un ruolo nell’accelerarsi degli eventi.
Intanto l’Isis, dato ovunque per sconfitto, potrebbe essere il primo a giovare di una ripresa degli scontri fra i curdi e i turchi, e proprio per gli attacchi di queste ore hanno permesso ai jihadisti di approfittare della distrazione delle Forze democratiche siriane (Sdf, sigla che raccoglie curdi, milizie cristiane, milizie sciite e milizie sunnite anti-Isis) e di conquistare posizioni a Gharanij e a nord tra Hama e Idlib.