Sparisce per legge l’antisionismo dei polacchi. Che in molti casi ci fu, fino agli eccidi

di Dario Rivolta * –

Tutta la stampa europea si è occupata della sciagurata legge con la quale il Parlamento polacco ha reso punibile con tre anni di carcere chiunque parli a proposito dei vari Auschwitz, Treblinka, ecc. di campi di concentramento “polacchi” Da oggi in Polonia verrà altresì punito chi parlerà di complicità polacca con i nazisti nello sterminio degli ebrei. Da qualche tempo Varsavia si è indirizzata su di una strada che la allontana sempre più dall’Europa e dai suoi valori ma, con questa legge ha forse passato il limite. In precedenza si erano approvate leggi contro la divisione dei poteri e si era subordinata l’azione della magistratura al governo, contraddicendo così il principio basilare della divisione dei poteri. Che la Polonia non tenesse in alcuna considerazione gli impegni assunti in qualità di membro dell’Unione Europea lo si era visto anche con la volontà di sottrarsi all’obbligo, pur sottoscritto in Consiglio europeo, di ricevere anche una piccola quota di migranti. Perfino in politica estera si è nei fatti allontanata da Bruxelles (vedi Trimarium e ciò che esso significa verso il concetto di difesa europea).
Con l’approvazione di quest’ultima legge i politici polacchi hanno deciso di riscrivere la storia.
E’ ovvio per tutti che quando si parla di campi di sterminio “polacchi” lo si fa in senso geografico, poiché le località in cui furono eretti si trovano esattamente in quel territorio. E’ però evidentemente assurdo considerare un crimine penale il nominarli con quell’aggettivo geografico ed è ancor più incredibile che qualcuno voglia negare le responsabilità di una certa parte della popolazione polacca nelle persecuzioni cui gli ebrei furono sottoposti. Non si può, né si deve, generalizzare e non va dimenticato che nello stesso Yad Vashem di Gerusalemme più di 6mila privati cittadini polacchi siano ricordati come Giusti fra le nazioni. Tuttavia… negare che in Polonia, e non solo durante l’occupazione tedesca, abbia avuto luogo un diffuso e forte antisemitismo è smentire i fatti.
Perfino prima che i nazisti occupassero il paese i sentimenti contro la presenza ebraica erano piuttosto comuni e, se non più che in Germania, lo erano almeno alla pari. Un caro amico che è nato e vive in Israele mi raccontò di come la sua famiglia, ebrea-polacca da generazioni, avesse deciso di emigrare verso la Palestina (non ancora Israele) ben prima dell’arrivo dei nazisti e lo fecero proprio perché il clima sociale del luogo ove erano nati, diventava ogni giorno più ostile verso la loro etnia. Anche durante l’occupazione esistettero incontrovertibili fatti di collaborazionismo e furono molti i comuni cittadini che parteciparono entusiasticamente a denunciare gli ebrei pur di impossessarsi dei loro beni. Erano polacchi anche i responsabili di alcuni massacri che non videro la presenza di tedeschi, incluso quello di Jedwabne del 1941, nel quale più di 300 ebrei furono rinchiusi in una stalla e bruciati vivi. Ben prima dell’invasione nazista, la destra politica polacca era arrivata persino a chiedere con forza che tutti gli ebrei presenti in Polonia fossero espulsi e mandati in Madagascar.
Non si trattava dunque di casi isolati bensì di sentimenti diffusi, anche se certamente non tutti i polacchi li condividevano. D’altronde anche in altri Paesi europei era comune coltivare idee antisemite. L’Ottocento in particolare vide nascere in Europa un’ampia pubblicistica contro gli ebrei e quando Hitler scrisse il Mein Kampf non era certo il primo ad accusare i figli di Israele di ogni malefatta. In Italia, almeno nel secolo scorso, il fenomeno fu molto minore e, nonostante le leggi razziali e fino alla caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943, nessun ebreo fu mai deportato verso i campi di sterminio (non va però dimenticato che i primi “ghetti” furono creati proprio in Italia, a Venezia, all’inizio del ‘500. Seguirono Roma e poi altre città europee).
Che l’antisemitismo fosse un fenomeno europeo anche prima del nazismo non giustifica però in alcun modo cosa successe dopo la guerra e non c’è riscrittura della storia o legge punitiva che possa negarlo.
Pochi oggi conoscono cosa successe nella città polacca di Kielce nel luglio 1946.
Con l’accusa (rivelatasi poi, ovviamente, del tutto infondata) di aver rapito bambini polacchi per farne sangue utile a produrre pane azimo, una folla di “pacifici” cittadini di quella città si radunò nella zona abitata da ebrei per “farsi giustizia”. Anche se l’accusa fosse di per sé ridicola, la polizia decise una perquisizione delle case sospettate e naturalmente non trovò alcuna traccia né di bambini polacchi né di sangue. Ciononostante la folla aggredì gli ebrei mettendo a soqquadro le loro case e gettando dalla finestra, uccidendolo, uno degli abitanti. Il responsabile del Comitato provinciale ebraico chiese subito l’intervento della polizia che però rifiutò di “intromettersi” adducendo impegni in altre località. Anche il vescovo cattolico della città, tale Czeslaw Kaczmarek, disse che non poteva farci nulla e lo stesso risposero le truppe russe di stanza in loco. Il pogrom proseguì fino all’intervento dell’esercito che arrivò molte ore più tardi. Nel frattempo 42 ebrei erano stati uccisi dalla folla, 5 dalla polizia (sic!) e 70 gravemente feriti. Seguì un processo che decise la condanna a morte di otto responsabili dell’eccidio e di due poliziotti accusati soltanto di saccheggio e di un “unico” assassinio.
Sarebbe facile pensare che si sia trattato dell’azione di un gruppo isolato di esaltati accecati da un odio irrazionale se non fosse che, saputa la notizia della condanna degli assalitori, gli operai di una fabbrica tessile della vicina città di Lodz indissero addirittura uno sciopero per protestare contro una sentenza che colpiva dei “cittadini polacchi”. Anche i poliziotti che non intervennero pur essendo presenti furono poi assolti da ogni accusa e il loro comandante addirittura premiato e promosso per aver “salvato dal pogrom altri ebrei”. Non c’è da stupirsi se si ricorda che, sempre nel dopoguerra, il governo comunista decise che le proprietà private confiscate dai nazisti a cittadini polacchi di religione (o etnia) ebreica non dovessero essere restituite. Molti ebrei, finita la guerra, furono uccisi per non dover loro restituire un piumone… A tutt’oggi ci sono villaggi in Polonia dove i figli dei figli dei Giusti vengono ostracizzati perché i loro nonni hanno aiutato il nemico: gli ebrei.
Anche una volta caduto il comunismo, e cioè nella Polonia che abbiamo accettato come membro dell’Unione, nessuna legge in merito alla dovuta restituzione è mai stata approvata. Quando il problema è stato suscitato, i politici (compreso il presidente della Repubblica Dud a- quello che ha condiviso e contro-firmato la legge “revisionista” di cui si parlava in apertura) rifiutano il concetto di “restituzione” e parlano semplicemente di “compensazione per gli ebrei”, tra l’altro negandola.
Quanto sia stato, e sia, diffuso l’odio antisemita in molti polacchi è molto ben documentato nel libro scritto da Gabriele Eschenazy e Gabriele Nissim: Gli ebrei invisibili (2013, Mondadori). Nel libro si citano numerosi episodi d’intolleranza etnica e uno di questi ricorda come durante il cosiddetto ’68 polacco, sotto il governo Gomulka, tutti gli ebrei polacchi fossero accusati di essere quinte colonne del sionismo e molti venissero espulsi dal Paese.
Anche se non tutti i polacchi nostri contemporanei hanno responsabilità o colpa per i crimini di altri, passati e presenti, hanno tuttavia il dovere di ricordare, indipendentemente da quanto ciò possa essere un tema sensibile e particolarmente doloroso da affrontare. Cancellare la storia con la legge, non solo compromette la verità e la comprensione degli eventi, ma ha anche serie implicazioni politiche.
Il Partito della Legge e della Giustizia al potere non vede perché dovrebbe accettare queste verità e così, il mese scorso, il ministro dell’Istruzione polacco Anna Zalewska ha dichiarato durante un’intervista alla televisione che il massacro di Jedbawne nel 1941 era “questione di opinioni”. Un sondaggio pubblico a riguardo dei suoi commenti ha rivelato che il 33% dei polacchi fosse d’accordo con lei.
Che il governo nazionalista di destra sia particolarmente insofferente verso chi non condivide il suo estremismo è confermato da quanto sta succedendo nelle rappresentanze diplomatiche polacche all’estero: tutti i “non allineati” sono in via di sostituzione e al loro posto sono inviati dei “fedeli” alla nuova ideologia dominante.
Quando in Austria il Partito Democristiano locale fu obbligato dai numeri a far entrare in maggioranza i nazionalisti (e antieuropei) locali, allora guidati da Jorg Haider, da Bruxelles partì un linciaggio politico contro quel Paese e qualcuno minacciò l’espulsione dall’Unione. Ciò avvenne nonostante si trattasse, in quella circostanza, di una coalizione in cui l’estrema destra era soltanto minoritaria. Oggi in Polonia il Partito antiliberale (e antieuropeo, salvo per ricevere il nostro denaro) di Kaczynski fa il bello e il cattivo tempo e se ne frega di consigli o “avvertimenti” europei, eppure le reazioni dei partner sono timide. Perché questa “prudenza”?

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.