Trump, la Russia e quel dannato bisogno di spaccare l’Europa

di Dario Rivolta *

Cosa avranno in comune Donald Trump e Vladimir Putin ora che si incontreranno a quattr’occhi a Helsinki? Non alludo a tratti caratteriali o al loro comportamento di leader di governo, penso, piuttosto, ai loro obiettivi politici. Ebbene, gli argomenti da discutere sul loro tavolo saranno molti ma uno li vedrà certamente concordi: una vera unione politica dell’Europa non dovrà mai vedere la luce. Naturalmente non lo dichiareranno mai esplicitamente, ma tutte le loro azioni passate e presenti lo dimostrano. Trump è persino più trasparente e, pur non alludendo all’Europa in quanto Unione, ha plaudito alla Brexit e durante il recente viaggio in Gran Bretagna è perfino arrivato a criticare la premier Theresa May per aver ella osato ipotizzare una soft-exit.
Anche prima di lui, comunque, Washington ha sempre sabotato con modi diversi secondo le circostanze ogni tentativo di implementare una unità che potesse andare oltre la zona di libero scambio.
Di là da ogni retorica sui valori “occidentali” condivisi, di là dalla convenienza militare e soprattutto economica (risparmio sulle nostre spese per la difesa nazionale) che l’Europa ha tratto dalla sua appartenenza alla Nato a guida americana, perfino di là dal sostegno che gli USA hanno dato (all’inizio) all’unificazione europea, una cosa è evidente se ce lo diciamo con sincerità: Washington (e così anche Mosca) non vuole trovarsi di fronte un unico interlocutore continentale e non accetta l’idea che possano nascere un’unica politica estera e un esercito comune. Durante la guerra fredda una certa compattezza dell’Europa occidentale era indispensabile per fronteggiare adeguatamente il “pericolo comunista”. Anche il Mercato Comune era funzionale perché per molti anni dalla fine della Seconda guerra mondiale le aziende americane hanno potuto sguazzare nelle nostre economie, trovandovi sbocchi sempre più ricchi per le proprie merci. Anche il famoso Piano Marshall, certamente utilissimo per la nostra rinascita sulle distruzioni di cinque anni di guerra, fu lo strumento indispensabile per legare il nostro sviluppo all’espansione delle loro produzioni.
Con il trascorrere del tempo le cose han cominciato a cambiare e lo sviluppo industriale e commerciale europeo han fatto sì che le nostre aziende diventassero più competitive verso quelle a stelle e strisce. Ciò nonostante la necessità di far fronte comune al nemico di allora, l’Unione Sovietica, aveva convinto gli americani che una bilancia commerciale passiva accompagnasse virtuosamente con un soft power quell’hard power che si erano conquistati sul campo. Niente di grave se le importazioni americane superavano le esportazioni. Nessuna preoccupazione per un bilancio statale sempre più deficitario (in valori assoluti è il deficit più grande al mondo): in ogni caso, si potevano stampare quanti dollari si giudicassero necessari senza doverne subire le conseguenze, visto che quella valuta era la valuta di riferimento per tutto il mondo. Anche lo sviluppo interno, alimentato da un immane e crescente debito privato, era “protetto” dall’egemonia politica che gli USA esercitavano dapprima su tutto il mondo “libero” e poi (dopo la fine dell’URSS) anche (temporaneamente) su tutto il resto.
La caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’ideologia comunista hanno però consentito l’affacciarsi di nuove potenze economiche e gli scenari sono cambiati. L’Europa non temeva più aggressioni esterne, l’economia interna del continente era in costante e magnifico sviluppo e la necessità percepita da alcuni nostri politici di affrontare con nuovi strumenti la crescente globalizzazione avrebbe potuto spingerci a trasformare la nostra potenza da puramente economica a politica. Un’Europa Unita sarebbe allora potuta diventare anche un pericoloso concorrente globale. Fino a quel momento era bastata la presenza del “cavallo di Troia” britannico per assicurare che l’Europa restasse un semplice mercato e nulla più, ma una Germania unificata e, soprattutto, la nascita di una forte moneta comune potenzialmente alternativa al dollaro potevano costituire un insidioso pericolo per il benessere del cittadino americano e una sfida ad un’egemonia che sembrava eterna. Il rischio, poi, che potesse nascere una forte collaborazione, magari anche solo economica, con il Paese più ricco al mondo di materie prime, la Russia, aveva cominciato a popolare di incubi i sonni dei politici americani.
Occorreva fare qualcosa per impedire quell’avvicinamento. E anche per fermare ogni processo di ulteriore unificazione tra gli Stati europei. Non fu difficile trovare cosa fare e come al solito si usò la complicità dei britannici e la pavidità dei politici nostrani. La soluzione percorreva due strade: convincere tutti di una rinascente pericolosità di Mosca e spingere per un veloce e immediato allargamento dell’Unione ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Tra costoro, tutti allettati dai ricchi fondi di aiuto in arrivo, la Polonia, sicuramente più filoamericana che filoeuropea, si aggiungeva così agli inglesi come cane da guardia contro ogni “avventura sovranazionale”. Qualche azione di lobby su giornalisti, inconsapevoli o “comprati”, all’interno dei Paesi già membri completò l’operazione riuscendo a far fallire ogni iniziativa di sinceri europeisti che speravano in un “approfondimento” prima di ogni ulteriore “allargamento”.
Nel frattempo, dall’altra parte, quella russa, nascevano preoccupazioni per l’estendersi della Nato anche a Stati che fino a poco prima erano sotto il suo controllo e, soprattutto, quelli confinanti con la Russia stessa. Mosca aveva sempre desiderato ottenere dai Paesi europei finanziamenti e know-how ma per godere di un maggiore potere contrattuale aveva privilegiato ovunque possibile i contatti bilaterali e snobbato quelli con Bruxelles. La nascita di una nuova “cortina di ferro” spostata più a est e il venir meno dei Partiti Comunisti fratelli ha obbligato il Cremlino a trovare nuovi interlocutori per continuare la tradizione sovietica del cercare di dividere i vicini, sia tra loro sia al loro interno. La crisi economica del 2007 e il diffondersi di nuovi mezzi di comunicazione via internet han offerto le condizioni per una nuova forma di intromissione nella vita politica e sociale di molti Stati europei. L’inefficienza e l’ineffabile burocrazia dell’attuale Unione, la debolezza e la mancanza di solidarietà interna dimostrate nella crisi greca o, più recentemente, la crisi migratoria hanno permesso la nascita e lo sviluppo di partiti demagogici e populisti e proprio in loro i russi hanno trovato naturali interfacce. I “servizi” moscoviti vi si sono gettati con tutti gli strumenti a loro disposizione, incoraggiando il malcontento e suscitando facilmente nuove ragioni di divisione.
Ai nostri giorni realisticamente la Russia non è più in grado di competere mondialmente con gli USA ed è del tutto inverosimile immaginare una sua aggressione contro un qualunque Paese europeo. Tuttavia una serie di azioni giudicate ostili da una parte hanno provocato controreazioni dall’altra e l’immagine di una Russia “pericolosa” da cui doversi difendere (anche grazie ad una stampa servile verso un certo potere) ha preso piede nella maggior parte dei Paesi europei.
In questa “situazione di rischio”, Trump ha buon gioco nel ricattare gli europei sia sulla Nato, come ha fatto a Bruxelles, sia con le minacce di dazi doganali. Se la Russia è un pericolo, l’Europa da sola non saprà difendersi e avrà sempre bisogno dell’America. Se è un nemico, bisogna che l’Europa insista nelle sanzioni economiche, anche se ciò significa rinunciare ad una collaborazione economica che si prospettava eccezionalmente fruttuosa.
Ora però, ottenuto il risultato voluto, il Tycoon può permettersi di giocare un’altra partita. Si farà forte della paura dell’abbandono suscitata negli europei e si offrirà come unico e vero “maître du jeu” all’”amico” Putin. Noi non sapremo mai cosa veramente si diranno, ma sappiamo di certo che il loro sarà un rapporto diretto e sopra le nostre teste. E non certo per il nostro bene. Non è detto che trovino un accordo tra loro su tutti i temi che affronteranno, ma entrambi, certamente, se ne infischieranno degli interessi europei. Salvo essere pronti, all’occorrenza, a usarci come strumento di pressione verso la controparte ri-scatenando i loro agit-prop già presenti all’interno dei nostri Paesi.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.