Trump sgancia la Moab e lancia avvertimenti a Kim. Perché è “America first”, anche fuori casa

di Enrico Oliari –

Donald Trump sta piano piano scoprendo le sue carte, da cui appare una strategia tutt’altro che fatta di disordine e casualità.
Tutto ruota attorno alla Corea del Nord, al sesto test nucleare che il regime di Pyongyang ha annunciato ed ai suoi continui e snervanti test di missili balistici che stanno allarmando i paesi dell’area e costringendo i governi a correre al riarmo. Ma anche alla strutturazione della propria figura di presidente degli Stati Uniti, da leggersi sia in chiave interna che esterna, basti pensare che già dopo l’attacco con 59 missili alla base siriana di al-Shayrat il suo indice di gradimento è passato dal 34 al 42 per cento.
L’interventismo di Trump è in antitesi con la linea che lo stesso Tycoon aveva tracciato in campagna elettorale, e piace agli americani quel ruolo di sceriffi del mondo, per quanto gli scenari non siano quelli delle ere dei Bush e il quadro oggi sia multipolare e quindi imprevedibile.
Fatto sta che la “Moab”, la superbomba convenzionale degli Usa (Massive ordnance air blast) da quasi 10 tonnellate sganciata ieri sulle posizioni all’Isis in Afghanistan assume un significato più comunicativo che pratico, un messaggio chiaro rivolto alla Corea del Nord. Come d’altronde è stato il bombardamento della base aerea siriana di al-Shayrat: 59 missili Tomahawk avrebbero dovuto creare enorme, eppure già poco dopo l’attacco ordinato da Trump dalla stessa base già decollavano gli aerei siriani; non solo: dell’operazione gli Usa avevano avvertito la Russia, che a sua volta ha avvertito Damasco.
Se, tuttavia, i siriani non rappresentano un pericolo al di fuori del loro contesto, ed i miliziani dell’Isis in Afganistan operano in un’area circoscritta (nell’attacco con la Moab ne sono morti solo 36), la minaccia rappresentata dal regime nordcoreano è esterna, rivolta cioè ad alleati strategici degli Stati Uniti che oggi chiedono protezione.
I due bombardamenti sono quindi messaggi concreti e forti rivolti a Kim Jong-un, i quali arrivano dopo che Trump ha incontrato a Washington il presidente cinese Xi Jinping ed ha quindi messo a posto presumibilmente le cose sul piano diplomatico usando come arma di ricatto il mercato e le importazioni.
Da più parti si parla di un imminente attacco preventivo, ed il presidente Usa ha twittato con toni più soft di quelli dei giorni scorsi che “Ho una grande fiducia nel fatto che la Cina gestirà bene la situazione della Corea del Nord. Se non è in grado di farlo, gli Usa, con i suoi alleati, lo faranno”. Tuttavia nel fine settimana potrebbe succedere qualcosa, quando i nordcoreani festeggeranno il 105mo anniversario della nascita del fondatore Kim Il Sung, e magari oltre ai fuchi d’artificio faranno scoppiare anche qualcos’altro.
Gli Usa hanno già dislocato nell’area, oltre ai 28mila militari che già sono stanziati in Corea del Sud, bombardieri presso la base aerea di Guam, due cacciatorpedinieri capaci di lanciare missili Tomahawk e la portaerei portaerei nucleare americana Carl Vinson con il suo convoglio di supporto.
Da Pechino, dov’è in visita, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che un conflitto “potrebbe scoppiare in qualsiasi momento”, ma che “Il dialogo è la sola via”, per quanto la Corea del Nord di “dialogo” non ne abbia mai voluto sapere, tant’è che i lanci dei missili sono quasi settimanali e si sta parlando del sesto test atomico (l’ultimo era del settembre 2016).
Pechino qualche tentativo con l’alleato storico lo ha fatto, ad esempio sospendendo le importazioni di carbone, ma il regime di Kim è sembrato non esserne scalfito ed intenzionato ad andare avanti per la sua strada. D’altro canto il continuo brandire i muscoli della Corea del Nord va letto sia in chiave esterna ma anche interna, per giustificare ad un popolo costretto specie nelle zone rurali alla fame le continue spese in armamenti.
“Gli Usa disturbano la pace e la stabilità globale, oltre a insistere con una logica da gangster che l’invasione di uno stato sovrano è ‘decisiva, giusta e proporzionata’ e contribuisce a ‘difendere’ l’ordine internazionale nel suo tentativo di applicarla alla Penisola coreana”, la riportato oggi la Kcna, l’agenzia ufficiale nordcoreana citando un non meglio precisato funzionario governativo.
Ma siamo davvero davanti ad un pericolo (secondo dati raccolti dalle agenzie di intelligence internazionali la Corea del Nord disporrebbe di un numero di testate atomiche compreso tra 10 e 16), oppure quello di Trump è una risposta alle richieste degli alleati dell’area rivolta al vero problema, cioè la potenza militare cinese?
L’anno scorso l’incremento degli stanziamenti di Pechino per la spesa militare è stato del 7,6%, e secondo la pianificazione del 2017, la cifra destinata sarà di 1.044 miliardi di yuan (pari a circa 143 miliardi di euro.
La cosa ha costretto un po’ tutti i paesi dell’area ad incrementare le spese militari e a riarmarsi, e persino il Giappone a rivedere la propria Costituzione antimilitarista al fine di avere un esercito competitivo; isole artificiali a scopo militare ne stanno sorgendo un po’ ovunque nel Mar Cinese Meridionale, mentre gruppi nazionalisti continuano a manifestare per le isole contese, il particolare le Senkaku e le Takeshima.
Trump sta quindi lanciando messaggi rivolti a più soggetti, dagli elettori Usa agli alleati, dai siriani ai nordcoreani, dai movimenti jihadisti ai cinesi: con lui è “America first”. Anche fuori casa.