Turchia. Prospettive future economiche e politiche: intervista a Federico De Renzi

di Guido Keller

La Turchia è un paese NATO che gioca un ruolo fondamentale nello scacchiere euroasiatico sia a livello politico che economico. Il fallito tentativo colpo di stato del 2016 ha rafforzato la posizione di Erdogan e permesso alla leadership del paese di assestare un duro colpo all’opposizione. Per anni si è discusso il possibile ingresso turco all’interno dell’Unione Europea, eventualità che sembra oramai un’ipotesi lontana. Oggigiorno la Turchia sembra più guardare verso altri partner come la Russia che all’Occidente, seppur esiste un legame tra Ankara, Bruxelles e Washington a livello economico e politico. Per comprendere l’attuale situazione del paese ed i possibili sviluppi futuri abbiamo incontrato Federico De Renzi, turcologo, membro del comitato scientifico di Mediterranean Affairs ed analista geopolitico di ASRIE Associazione.

– Negli ultimi mesi la politica estera di Erdoğan sembra guardare ad Oriente, alla Russia di Vladimir Putin, e non solo per gli accordi commerciali e per i gasdotti. Tuttavia la Turchia fa parte della NATO: ritiene che Erdogan stia giocando su più tavoli per ricavarsi un ruolo di congiunzione fra i due sistemi?
“La Turchia e la Russia hanno una storia lunga secoli, composta da periodi di conflitto e di cooperazione. Come tutti sanno, le relazioni hanno toccato il fondo dopo che un F-16 turco ha abbattuto un Sukhoi SU-24 sui cieli del confine turco-siriano con conseguente abbattimento di uno degli elicotteri di soccorso nel territorio controllato dalle milizie appoggiate da Ankara nel novembre 2015. Queste azioni hanno portato Mosca a imporre delle sanzioni alla Turchia, al fine di escludere la Turchia dal conflitto in Siria, conducendo una campagna di propaganda contro il presidente Erdogan. Secondo quanto riferito, le sanzioni sono costate alla Turchia una perdita di circa 10 miliardi di dollari di scambi. Nel giugno 2016 Erdogan si è scusato con il presidente russo Vladimir Putin in una mossa motivata da preoccupazioni legate all’economia e alla sicurezza. Il “riavvicinamento” si è verificato in un momento di crescente tensione nelle relazioni della Turchia con l’Ue e gli Stati Uniti, risultato fortuito per la Russia. Per non perdere un’opportunità, Putin ha approfittato di questa situazione. Per cominciare ha immediatamente condannato il tentativo di colpo di stato il 16 luglio 2016, che gli è valso il plauso in Turchia. Ora, a quasi 18 mesi da quando Putin ed Erdogan sono venuti ai ferri corti, le sanzioni contro la Turchia sono state revocate – anche se piuttosto lentamente – e la Russia ha finalmente consentito ai pomodori turchi di tornare sui suoi mercati entro la fine del 2017. I turisti russi sono tornati sulle spiagge della Turchia e progetti energetici sono stati riavviati. Ad esempio, solo poco tempo fa la Turchia stava dicendo che la diversificazione energetica era una priorità, compresa la riduzione della dipendenza del paese dal gas russo, che attualmente si attesta a circa il 58%. Ma, salendo a bordo del progetto di gasdotto di Turkish Stream, Ankara sembra che stia prendendo provvedimenti per aumentare la sua dipendenza dal gas russo. Inoltre, la decisione di concedere alla Russia Rosatom i diritti per costruire la centrale nucleare Akkuyu da 20 miliardi di dollari nel sud della Turchia sembrerebbe implicare che la Russia avrà un’importante quota nel mercato dell’elettricità in Turchia. Questa potrebbe essere una mossa rischiosa perché la Russia ha dimostrato che può e sfrutterà la dipendenza quando necessario. I due paesi cooperano anche in Siria e, naturalmente, c’è il famigerato acquisto di missili S-400 in Turchia. Senza questo riavvicinamento, la Turchia non sarebbe stata in grado di lanciare l’operazione “Scudo dell’Eufrate” (Fırat kalkanı, 24 agosto-29 marzo 2017), un intervento militare transfrontaliero turco, nell’agosto del 2016. Gli attacchi aerei russi hanno aiutato le forze armate turche e gli alleati dell’Esercito siriano libero a rimuovere il cosiddetto Stato Islamico (ISIS) da al-Bab nel gennaio 2017. La Turchia è anche co-sponsor dei colloqui di pace di Astana con la Russia e l’Iran. Tuttavia, da quando è iniziata la guerra civile in Siria, la Russia e la Turchia sono state in disaccordo sul futuro del paese. L’intervento militare della Russia nel settembre 2015 per sostenere il regime di al-Assad si è scontrato con la priorità della Turchia di rimuoverlo dal potere. Oggi, la Turchia non è più così aggressiva, diventando più flessibile sullo status di al-Assad nel futuro governo siriano. In un incontro a Sochi all’inizio di novembre Putin ha dichiarato che le relazioni possono essere considerate praticamente ripristinate del tutto. Tuttavia, la Russia non ha ancora ripristinato il regime di esenzione dal visto per i cittadini turchi, che è stato sospeso dall’abbattimento del jet. Questo è particolarmente problematico per gli uomini d’affari turchi. Probabilmente Erdoğan vuole far intendere che ha altri partner a cui rivolgersi quando gli alleati occidentali non appoggiano la Turchia. La Turchia si è sempre rivolta alla Russia quando ha litigato con l’Occidente. Nel frattempo, nonostante la tensione con gli Stati Uniti, la NATO rimane l’ombrello di sicurezza della Turchia e questo non cambierà a breve. Anche per quanto riguarda gli obiettivi geopolitici, la Turchia e la Russia non sono realmente sulla stessa lunghezza d’onda, che si tratti della Siria, del Mar Nero, del Caucaso meridionale o altrove”.

– Dopo il fallito golpe, presunto o meno che sia stato, del 15 luglio, le leadership di Erdogan si è rafforzata con il presidenzialismo, tra arresti degli oppositori e le critiche all’Unione Europea ed all’Occidente: nonostante l’accordo sui migranti, pensa che sia la fine della possibile adesione della Turchia all’Unione Europea?
“Lo scorso settembre Erdogan ha dichiarato che la piena adesione della Turchia è la “cura per i problemi cronici” dell’Unione europea. La Turchia, che ha fatto domanda di adesione nel 1987, ha avviato i negoziati di adesione con l’Ue nel 2005. Ma i negoziati tra le due parti sono stati praticamente congelati da anni di rapporti tesi. Per Erdogan un’Europa senza la Turchia sta per affrontare solo l’isolamento, la disperazione e la lotta civile. La Turchia non ha bisogno dell’Europa. È l’Europa che ha bisogno della Turchia ha detto sempre Erdogan, parlando ad un evento ad Ankara lo scorso ottobre.
L’Europa dal canto suo ha ammonito spesso la Turchia di recente accusandola di condurre una politica interna anti-democratica e di non rispettare i diritti umani. Il tentativo di colpo di stato ha infatti indotto l’avvio di purghe contro i suoi presunti perpetratori, il movimento Gülenista e molti altri avversari del governo. Dal luglio 2016 ad oggi sono state arrestate, detenute e licenziate circa 160mila persone.
La vittoria al referendum, anche se di misura, è stata dovuta essenzialmente all’accresciuta popolarità del presidente a seguito proprio del golpe: la trasformazione della Turchia in Repubblica presidenziale potrà provocare ulteriori tensioni nei rapporti Turchia-Ue. Il Consiglio d’Europa ha dichiarato infatti che i cambiamenti non garantiscono un’adeguata separazione dei poteri, il che implica che la prosecuzione del processo negoziale Turchia-Ue potrebbe essere impossibile. Quindi, a lungo termine, le strutture politiche dell’UE dovrebbero esprimere una strategia comune per ristabilire una certa influenza sulla Turchia, facendo uso di strumenti politici ed economici utili a mantenere sia una cooperazione costante con la Turchia.
La conseguenza più significativa delle riforme costituzionali sulla politica interna della Turchia sarà l’aumento del controllo di Erdogan su ogni aspetto della vita della nazione. La repressione del dissenso rischia di provocare una instabilità sul piano interno: quindi, anche se è previsto un periodo di transizione fino al momento in cui il nuovo sistema entrerà in vigore nel 2019, il presidente Erdoğan sarà in grado di riunirsi nuovamente al suo partito AKP che governerà subito dopo il referendum. Nel marzo 2019 si svolgeranno elezioni locali e, secondo il nuovo sistema, il 3 novembre 2019 si svolgeranno contemporaneamente le elezioni presidenziali e parlamentari. Il desiderio di trasformare la Turchia in un sistema presidenziale forte e l’interruzione del processo di pace curdo, conseguenza della guerra civile siriana, contribuiscono, sul lungo periodo, a danneggiare Ankara”
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– I gulenisti rappresentavano davvero una minaccia per la Turchia o serviva ad Erdogan un nemico contro cui coalizzare le forze democratiche del paese?
“Immediatamente dopo il tentativo di colpo di stato nel luglio 2016, decine di migliaia di sostenitori sia della maggioranza che dei principali partiti di opposizione turchi, solitamente acerrimi nemici, si sono radunati a sostegno della democrazia e del presidente. Il golpe non risultò affatto popolare, ma il partito di governo e il presidente Erdogan lo hanno usato come un’opportunità per aumentare ulteriormente la loro presa sul potere. L’indebolimento delle istituzioni democratiche, già evidente, si è rapidamente accentuato. Il tentativo di colpo di stato ha avuto come effetto l’avvio di una serie purghe contro i suoi presunti perpetratori, ovvero il movimento Gülenista e molti altri avversari del governo.
Dal 2013 il principale nemico di Erdogan è infatti Fethullah Gülen, religioso e pensatore che vive in un auto-esilio in Pennsylvania dal 1997; egli è il fondatore e leader spirituale del movimento Hizmet, fondato su valori del sufismo tradizionale e legato alla confraternita della Naqshibandiyya, che include organizzazioni non governative, costituito da una rete globale di scuole e università che operano in più di 100 paesi, compresi gli Stati Uniti, l’Uganda e la Mongolia. Inoltre comprende anche centinaia di scuole, centri di tutoraggio gratuito, ospedali in tutto il mondo. Gülen è proprietario di Zaman, un giornale a grande circolazione, parte di un gruppo che comprende stazioni TV, miniere d’oro e Bank Asya, una banca molto quotata.
Il religioso è accusato di essere a capo di quella che le autorità e i giornali turchi chiamano l’Organizzazione del Terrore Gülenista (Fethullahçı Terör Örgütü, FETÖ), costituita da un a rete di attività lecite e illecite che hanno come scopo trovare i fondi per rovesciare lo Stato, sebbene Gülen abbia negato tali affermazioni e duramente condannato il colpo di stato. Gülen infatti aiutò e sostenne Erdogan e l’Akp fin dall’inizio della sua avventura politica, solo per rimpiangere questo suo aiuto dopo i cambiamenti costituzionali del 2011”
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– Cosa succederà se gli Stati Uniti non estraderanno, come sembra, Fethullah Gülen?
“Dopo il fallito golpe lo stesso primo ministro minacciò di fare guerra a chiunque assistesse o desse rifugio a Gülen (vale a dire gli Stati Uniti), e inviò una richiesta ufficiale di estradizione del religioso, suscitando seri interrogativi sul ruolo e il peso della Turchia all’interno della NATO. Gli sforzi di Ankara per estradare Gülen si sono già dimostrati onerosi, aggiungendosi alle già gravi tensioni politiche con Washington. Queste tensioni hanno infatti avuto un effetto diretto sulle relazioni con gli Stati Uniti. Il piano per revocare la cittadinanza di Gülen comporterebbe infatti una serie conseguenze legali, anche se potrebbe piacere ai sostenitori di Erdogan. Se la mossa comporta l’eliminazione di tutte le possibilità di estradizione di Gülen, l’onere sarà su Erdogan. Se Ankara dunque sta progettando di revocare la cittadinanza a Gülen, ciò renderebbe ancora più difficile il suo imprigionamento in Turchia. A giudicare dall’enorme rischio politico che ciò comporterebbe, le accuse di motivazioni di fondo sembrano difficili da respingere. anche se la Turchia sembra che per ora non sia intenzionata ad abbandonare né la NATO né il processo formale di adesione all’Ue”.

Recep Tayyp Erdogan.

– Ue e Turchia sono distanti, gli Stati Uniti coltivano ormai solo l’alleanza militare, la percezione dell’opinione pubblica esterna è molto negativa: non converrebbe a Erdoğan mollare tutto ed aderire all’Unione Doganale di Putin?
“Durante l’incontro tra Vladimir Putin e ed Erdogan ad Ankara dello scorso settembre, il presidente russo era accompagnato da una delegazione tra cui il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, il ministro dell’Energia Aleksander Novak, il capo dello stato maggiore generale Valeri Gerasimov, inviato speciale sulla Siria Aleksander Lavrentev, il presidente di Gazprom Alexei Miller e Alexei Lichačev, il direttore generale della Rosatom State Atomic Energy Corporation. A una prima occhiata alla lista dei partecipanti si ha un’idea del perché i russi sono venuti ad Ankara. La stampa di entrambi i paesi era impegnata a discutere le potenziali questioni all’ordine del giorno: la Siria, il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, l’acquisto da parte della Turchia della difesa S-400 della Russia sistema e – non ultimo – l’embargo russo sui pomodori turchi. Proprio a settembre infatti, la Turchia aveva respinto gli avvertimenti della NATO e concluso un accordo per l’acquisto degli avanzati sistemi di difesa missilistica S-400 dalla Russia, una mossa che Erdoğan definì una questione di sicurezza nazionale della Turchia.
La Russia, la Turchia e l’Iran stanno anche cercando una cooperazione più profonda proprio sulla Siria dove, nonostante gli interessi contrastanti, i tre stanno negoziando la fine del conflitto alle loro condizioni. I temi chiave discussi ad Ankara furono la guerra civile siriana e le conseguenze del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, entrambi di grande importanza per i due paesi. In Siria infatti, Turchia e Russia hanno bisogno della cooperazione reciproca per raggiungere i propri interessi di sicurezza. Per la Turchia, con la sua significativa popolazione curda e decenni di attacchi del separatista PKK, il referendum è certamente un punto dolente. Per la Russia, la questione del futuro della Siria, ora che lo Stato islamico è stato sconfitto, proprio grazie all’intervento militare russo, è al momento prioritario.
Durante la conferenza stampa, i leader russi e turchi hanno poi menzionato l’importanza di due importanti progetti: il gasdotto Turkish Stream e la centrale nucleare di Akkuyu. Infatti, dopo una breve interruzione nel 2016 a causa di tensioni politiche, la società statale russa per l’energia atomica (Rosatom) è destinata a costruire una centrale nucleare da 20 miliardi di dollari nel sud della Turchia, che secondo alcuni dovrebbe diventare operativa entro il 2023.
Proprio la sfera dell’energia mette in luce diverse contraddizioni. La Turchia, come molte nazioni europee, si affida ampiamente alla Russia per il suo fabbisogno energetico. Geopoliticamente, la Turchia usa la sua relazione con la Russia come leva nei confronti dei suoi partner europei e della NATO, mentre Putin vede la Turchia come un cuneo di possibile destabilizzazione nella NATO e nella collaborazione transatlantica. In un momento in cui è chiaro che la politica estera turca non può più ruotare attorno agli Stati Uniti e all’Unione europea, l’idea che il paese possa contare esclusivamente sulle potenze regionali eurasiatiche è, ad essere ottimisti, fuori dalla realtà. Non è possibile ignorare le differenze di opinione tra Russia e Iran tanto da sostenere che costituiscano un asse monolitico. Ciò che alla fine conta di più per la Turchia è massimizzare i propri interessi nazionali. Per essere chiari, la Turchia non cerca, e forse non è in grado di farlo, il potere e l’influenza, ma teme per la sua integrità territoriale”
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– Siria: possiamo dire che Ankara esce sconfitta dal conflitto? Se si a quale prezzo?
“Con il senno di poi, l’incursione iniziale di Ankara in Siria può essere definito un esempio di “ingenuità strategica”, ai limiti della follia pura. L’iniziale indifferenza per la crisi siriana ha fornito ad Ankara l’opportunità di proporsi come attore nel possibile cambio di potere. In una guerra a cui pochi hanno prestato seria attenzione, la Turchia poteva fare la prima mossa, per poi quindi emergere non solo come un attore decisivo, che avrebbe avuto voce nel futuro e nella ricostruzione della Siria, ma anche come un peso massimo regionale. I successi geopolitici sarebbero anche stati associati a quelli della reputazione: la Turchia, il tanto acclamato “modello” per il suo “sano matrimonio” tra una democrazia “occidentale” e l’Islam politico, sarebbe stato salutato come “portatore della democrazia” e sostenitore di una causa umanitaria, ponendo fine alla sofferenza di milioni di siriani. Erdogan e Davutoglu non potevano avere più torto.
La Turchia, fino al 2013, era convinta di una rapida caduta del presidente al-Assad, fu solo dopo l’ascesa dello Stato islamico e l’esplosione della crisi dei rifugiati che la guerra civile siriana ha iniziato a fare davvero notizia. Un tempo considerato il “Kissinger turco” e sempre orgoglioso della sua “profonda comprensione” delle dinamiche regionali, la superficialità del calcolo strategico di Davutoglu alimentò la convinzione di Ankara di una rapida e decisiva vittoria su Assad. Ankara infatti fraintese completamente il più ampio contesto strategico. L’omissione degli attori esterni e il loro interesse comune nel mantenere Assad al potere è stata doppiamente tragica per Davutoglu. Ad oggi Assad è ancora aggrappato a ciò che resta del suo regime, mentre Davutoglu è stato licenziato da Erdogan e praticamente scomparso dall’opinione pubblica. La cecità strategica di Ankara non era limitata alla sopravvivenza di al-Assad, ma si estendeva anche ad altri due attori che stavano per trasformare categoricamente la natura del conflitto: i jihadisti salafiti e i curdi siriani. Tuttavia, non è lo Stato islamico a rappresentare la principale sfida per la Turchia nel contesto della guerra civile siriana, ma i gruppi militanti curdi PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, Partito dei Popoli democratico) e il Ypg-G (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione del Popolo).
Negli ultimi due anni lo YPG, non sempre in coordinamento con le forze governative, è riuscito a scacciare lo Stato islamico da quasi tutta la Siria del nord, pagando un enorme prezzo di sangue per raggiungere questi risultati, ma allo stesso tempo ha dimostrato grande abilità nel “crearsi un sostegno mediatico”. I successi del Pyd/Ypg sul campo di battaglia del conflitto siriano costituiscono un problema per Ankara. A breve termine, Ankara si preoccupa del fatto che l’Ypg canalizzi parte del suo personale e materiale per le operazioni del Pkk in Turchia, una volta che l’IS sarà sconfitto in Siria. A più lungo termine, la crescente popolarità e leva della YPG può innescare un processo che “ripulirà” il Pkk.
Lo Ypg sta costruendo la sua ritrovata popolarità cerca di ridurre al minimo la sua vulnerabilità e per servire le sue ambizioni ideologiche e territoriali. Mentre allo stesso tempo la Turchia sta cercando di prevenire esattamente questo. Sia la Turchia che le Ypg stanno cercando di usare la loro influenza sugli attori regionali, soprattutto gli Stati Uniti, per circondarsi e superarsi reciprocamente.
La politica estera turca in Siria ci ricorda che la politica internazionale è cosa ben diversa dalla politica interna. Se giudichi male te stesso e i tuoi nemici, così come gli effetti secondari e terziari della tua strategia iniziale, il mondo reagisce. La Turchia è stata duramente colpita da ciò che sta accadendo in Siria. L’IS ha preso di mira la Turchia molte volte, e probabilmente vi saranno a breve altri attacchi terroristici”.

– Dalle frontiere e dagli aeroporti turchi sono transitati decine di migliaia di foreign fighters di tutto il mondo, e ben 10 mila turchi si sono recati in Siria ed Iraq. La Turchia, già oggetto di attentati, potrebbe pagare a caro prezzo il supporto diretto o indiretto ai gruppi estremisti, ad esempio quando dava assistenza nei propri ospedali ai jihadisti feriti, quando faceva passare il petrolio contrabbandato in un senso e le armi e strumenti logistici nell’altro?
“Ankara si precipitò in Siria per assicurare la caduta del regime di al-Assad, solo per fallire miseramente. L’ossessione iniziale di Ankara con al-Assad l’ha accecata all’ascesa di ISIL e YPG. Il risultato è stato una tragedia: il governo turco sta pagando un prezzo del sangue per aver combattuto l’IS sul terreno, ma di solito è raffigurato come simpatizzante con l’Isil e intrinsecamente anti-curdo.
L’Isis identifica chiaramente Erdogan e Turchia come nemici e bersagli nelle sue pubblicazioni online in lingua inglese e turca; ha anche lanciato numerosi attacchi terroristici in Turchia, uccidendo centinaia di persone. Tuttavia, la sua strategia siriana complessiva ha messo Ankara in una posizione in cui non solo riceve poco credito per essere l’unico attore di stato esterno che lotta contro l’IS, con pesante coinvolgimento sul terreno, ma si trova anche occasionalmente accusata di essere complice del gruppo.
Con l’immagine un tempo gloriosa di Erdogan nell’Occidente che si sta deteriorando di giorno in giorno, le accuse relative ai legami con l’IS sono diventate più popolari, anche in assenza di prove dirette e incriminanti.
Tuttavia, non è quest’ultimo a rappresentare la principale sfida per la Turchia nei confronti della guerra civile siriana, bensì il gruppo militante curdo YPG. Come accennato, Le “ratlines” dei “ribelli” sono state la principale preoccupazione della Turchia nel Nord della Siria. I curdi, inizialmente sconfitti a ovest dell’Eufrate, ora vittorisi costituiscono la preoccupazione primaria, sebbene Ankara accetti a malincuore il loro consolidamento a est dell’Eufrate. È anche vero che le motivazioni di Ankara per entrare direttamente nella guerra siriana non si sovrappongono chiaramente a quelle di Washington e sono in diretto conflitto con quelli del PYD e YPG, formalmente ancora alleati degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico. Data la La politica estera turca in Siria ci ricorda che la politica internazionale è cosa ben diversa dalla politica interna. Se giudichi male te stesso e i tuoi nemici, così come gli effetti secondari e terziari della tua strategia iniziale, il mondo reagisce. La Turchia è stata duramente colpita da ciò che sta accadendo in Siria. L’IS ha preso di mira la Turchia molte volte, e probabilmente vi saranno a breve altri attacchi terroristici”
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Federico De Renzi, PhD, è Turcologo e studioso del Mondo islamico. Dal 2005 al 2012 ha collaborato in qualità di analista politico con la rivista di Geopolitica Limes, e con altre testate di geopolitica e cultura. Dopo essere stato docente di Filologia Uralo-altaica e turcologia presso diverse università ed istituzioni accademiche, dal 2010 è stato ospite su Rai News 24, Radio RAI, Radio Vaticana, Radio Radicale e in altre radio su temi quali le minoranze etniche dell’Asia centrale, orientale e meridionale. Nel 2017 ha conseguito il Dottorato di Ricerca (PhD) presso La Sapienza Università di Roma in Lingue, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa (Curriculum Islam, XXVIII Ciclo) e si occupa di progetti di ricerca specifici sulla storia politica e culturale della Turchia e dell’Eurasia centrale e orientale, oltre che di cicli di conferenze sempre su questi temi (l’ultimo, dal 2014 al 2015 presso La Civiltà Cattolica). Sempre dal 2015 è consigliere scientifico per la rivista di analisi politica in lingua inglese Mediterranean Affairs.