Ue. Consegnata la lettera: sarà “hard Brexit”, ed “Empire 2.0”. Ma a rischio i piani militari

di Francesco Cirillo

Il 29 marzo 2017 è una data storica per il cammino, claudicante, dell’Unione Europea. Una data che segna l’inizio della un tempo paventata Brexit, ma anche oggi dagli esiti inimmaginabili.
La lettera che richiama l’articolo 50 del Trattato di Lisbona è stata firmata ieri sera ed oggi è stata consegnata al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il quale ne ha dato notizia al Parlamento europeo.
Ed è “hard Brexit”, per quanto edulcorata dalle belle parole, come d’altronde aveva detto la premier britannica Theresa May già in gennaio, ovvero senza mezze misure o “pezzi di Ue” nel sistema britannico, “non vogliamo una parziale appartenenza all’Ue, nessuna associazione con l’Ue, niente che ci lasci metà dentro, metà fuori”.
Questo nonostante lo scenario pronosticato un anno fa dall’ex cancelliere dello Scacchiere George Osborne: il suo studio riportava che un’eventuale “hard Brexit” sarebbe potuta costare alle casse del Tesoro britannico qualcosa come 66 miliardi di sterline, pari a circa 73 miliardi di euro.
Cifra che May non intende sborsare, ma per la quale il capo della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha fatto sapere che “I britannici sono tenuti a rispettare gli impegni che hanno condiviso. E dunque il conto sarà, diciamolo volgarmente, molto salato”. In soldoni significa che la Gran Bretagna dovrà tenere fede agli impegni presi per i progetti in corso, perlomeno fino al 2023, cioè ben oltre l’uscita di Londra dall’Unione Europea. D’altro canto se la Gran Bretagna non dovesse versare quanto stabilito di comune accordo, si verrebbe a creare un ammanco di bilancio di decine di miliardi di euro.
In sede di trattative la Commissione farà leva sui rapporti commerciali: il 47 per cento delle esportazioni della Gran Bretagna sono dirette verso i paesi dell’Unione Europea, mentre le importazioni ammontano al 51 per cento del totale.
Certo è che a Londra si sta pensando di rimodulare l’economia rafforzando i rapporti con i paesi del Commonwealth: il progetto “Empire 2.0” consisterà nel costruire una rete di collaborazione fra Gran Bretagna ed ex colonie, una rete che secondo i piani di Theresa May dovrà sostituire l’Unione Europea.
Nella riunione del Commonwealth, tenuta nella prima settimana di marzo, il ministro del Commercio estero Liam Fox ha dichiarato che la Gran Bretagna post-Ue si impegnerà nel migliorare le relazioni con le sue ex colonie. Downing Street sta già lavorando ad accordi con le nazioni dell’Africa appartenenti al Commonwealth, per la creazione di relazioni commerciali di libero scambio. Le trattative si dovrebbero concludere nel 2018, anno in cui Londra ospiterà il vertice annuale dei capi di governo dei paesi del Commonwealth.
Secondo il Times, la Gran Bretagna spera in quell’occasione di porre le basi per un accordo con tutti i paesi membri, compresi Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Il progetto Empire 2.0 sembra sia stato ideato da Nigel Farage, anti europeista ed ex-leader dell’Ukip (United Kingdom Independence Party). Durante la campagna referendaria per la Brexit l’allora leader del partito populista dichiarava che il Regno Unito non aveva bisogno dell’Europa, visto che Londra fa parte di un ente come il Commonwealth, organo che raccoglie più di 2 miliardi di persone, quasi un terzo della popolazione mondiale. Esperti ritengono tuttavia che difficilmente il Regno Unito potrà raggiungere accordi di libero commercio con l’intero Commonwealth. Tim Farron, leader del partito liberaldemocratico, ha spiegato infatti che il commercio con i paesi del Commonwealth è fondamentale, ma che Downing Street si illude se immagina di poter rimpiazzare i rapporti commerciali che si erano stretti in Europa. Farron ha inoltre aggiunto che “Se si farà l’hard Brexit, una recessione completa dei trattati come l’uscita dal mercato comune e dall’Unione doganale, per Londra non sarà possibile avere una politica commerciale efficace”.

La cooperazione militare con l’Europa e il ruolo della Royal Navy nella Gran Bretagna post-Brexit.
La Brexit priverà l’Ue della prima potenza militare del continente. Nonostante sia membro della Nato, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe portare ad un indebolimento dell’Alleanza. Per evitare che la Brexit finisca con l’isolare militarmente il Regno Unito dall’Unione Europea, Londra sta trattando ad un accordo di cooperazione militare con la Germania, testa di ponte dell’Unione Europea. L’intesa dovrebbe rassicurare i paesi europei sull’impegno militare britannico nel Vecchio continente.
Nel progetto dell’Empire 2.0 e in quello del Global Britain il governo britannico progetta di rafforzare il ruolo internazionale della Royal Navy.
Oggi la Marina britannica gioca un ruolo strategico nella protezione degli interessi economici, energetici e commerciali con la protezione delle linee di comunicazione fondamentali per supportare le linfe dell’economia britannica. La Brexit ha riesumato lo spettro dello smembramento della Gran Bretagna, che potrebbe minare il bilancio della Difesa, e questo potrebbe danneggiare le capacità della Royal Navy nei mari vicini e lontani.
Tuttavia i contraccolpi negativi dell’economia britannica e il deprezzamento della sterlina sul dollaro statunitense potrebbero spingere l’ammodernamento della Marina, i cui programmi sono legati al valore della valuta britannica.
La minaccia primaria per Londra è l’indipendenza scozzese, riesumata dopo la Brexit dal primo ministro Nicola Sturgeon. Già prima della vittoria del fronte filo-britannico al referendum secessionista della Scozia del 2014, i leader dei partiti indipendentisti scozzesi affermarono che in una futura Scozia indipendente non ci sarebbe stato posto ne’ per le armi nucleari ne’ per i sottomarini a propulsione nucleare. Dopo queste dichiarazioni Londra ha iniziato un lavoro per trovare basi alternative dove posizionare i due sommergibili a propulsione nucleare della classe Vanguard e della classe Astute attualmente di stanza nella base del Clyde.
Nei piani dell’ammiragliato la base dovrà accogliere anche quelli d’attacco: il sito, per ragioni di sicurezza, è suddiviso in due parti: Faslane sul Gareloch, dove attraccano i sottomarini, e Coulport, a 8 miglia sul Loch Long, dove sono conservate le testate nucleari che armano i missili Trident. La nuova consultazione sull’indipendenza scozzese, già annunciata da Sturgeon ma che sarà improbabile senza il consenso di Westminster ,potrebbe minacciare l’intero sistema di deterrenza atomica del Regno Unito, unica potenza nucleare il cui proprio arsenale è stanziato quasi per intero sulla componente navale. L’ammiragliato sta tuttavia individuando, con la minaccia indipendentista scozzese, una base alternativa a quella del Clyde.
Ciò peserà finanziariamente con lo spostamento delle infrastrutture per un valore stimato in 20 miliardi di sterline: si tratta di una spesa importante, se si pensa che il bilancio della Difesa, che sarà inferiore dopo il 2017, è attualmente di 34 miliardi di sterline. Secondo esperti del Comitato per gli Affari scozzesi di Westminster, il trasferimento potrebbe durare dai 10 anni ai 20 ipotizzati da Philip Hammond, se ai lavori si dovesse assegnare la massima priorità.
Esistono alternative come in Galles, operazione che avrebbe anche il sostegno di Cardiff, capitale del Galles. Londra ha individuato nella città-portuale Milford Haven un’alternativa possibile; ma questo scalo portuale ospita una raffineria e alcuni rigassificatori, per non parlare dell’intenso via-vai commerciale. Un’altra alternativa sarebbe a Plymouth, in Inghilterra e dove ha sede la base navale più grande d’Europa, ma dove abitano 160 mila persone, troppe per un sito dove stoccare armamenti nucleari; sempre in Inghilterra è situata la Barrow-in-Eurness. La zona è la stessa dove la BAE Systems, azienda britannica che produce gli armamenti per le forze armate britanniche, la quale sta costruendo i nuovi sommergibili d’attacco della classe Astute. La zona di Eurness però dispone di acque troppo poco profonde ed è vicina ad una città abitata da 70 mila anime. Sono al vaglio di Londra anche opzioni estere, anche se l’idea di basare in un paese straniero gli assetti strategici e di deterrenza nucleare della Flotta solleva enormi resistenze.
Altra questione spinosa è il fatto che il ministero della Difesa ha trasformato la Scozia nella fucina della Royal Navy concentrando la testa ponte della cantieristica britannica a nord del confine anglo-scozzese. Londra, con la minaccia indipendentistica scozzese, rischia di perdere il controllo della situazione se al secondo referendum, ancora non autorizzato da Londra, Edimburgo dovesse diventare indipendente.
Alla vigilia del referendum scozzese del 2014 la BAE decise di posticipare a dopo le votazioni un investimento da 200 milioni di sterline necessari per l’ammodernamento dei cantieri scozzesi di Govan e Scotstoun, necessari per iniziare la costruzione delle nuove fregate della Classe Type-26, spine dorsali della Flotta per i prossimi anni. I vertici della Royal Navy sono preoccupati, con il rinascita dell’indipendentismo scozzese, di dover rinunciare ai cantieri navali di Rosyth sul Mare del Nord. I cantieri di Rosyth attualmente ospitano i lavori di costruzione e di allestimento delle nuove portaerei della classe Queen Elizabeth (Queen Elizabeth e la Prince of Wales) , che diventerà in futuro l’arsenale aeronavale di riferimento.
Le due portaerei da 100mila tonnellate potrebbero risentire degli effetti della Brexit dal punto di vista economico. Il crollo della sterlina, che già oggi è arrivata a perdere circa il 10%, ripercuoterà il costo su alcuni sistemi d’arma che il Regno Unito compra da Washington. Il principale equipaggiamento che verrà imbarcato sulle nuove portaerei sono i cacciabombardieri F-35 nella versione a decollo corto e atterraggio verticale (F-35B). Il caccia di 5a Generazione F-35 è stato preso di mira per i suoi problemi in ritardo di sviluppo e per i costi in costante aumento. Questo rischia che le nuove ammiraglie della flotta imbarchino gruppo aerei sott’organico e depotenziati.
D’altro canto si potrebbe avere un beneficio per il comparto industriale degli armamenti britannici nelle gare di appalto estero, ma non bisogna dimenticare che, come ha ricordato il presidente del Comitato Affari esteri della House of Commons Blunt, sostituire i missili balistici nucleari Trident, imbarcati sui sommergibili della classe Vanguard, potrebbe avere un costo fino a 182 miliardi di sterline spalmati in un arco di 32 anni, con il rischio che addirittura sia sottostimato. Un costo reputato insostenibile anche prima dell’esito del referendum del 23 giugno.

I paesi del Commonwealth.
Regno Unito
Canada
Sudafrica
Australia
India
Nuova Zelanda
Pakistan (sospeso nel 2007)
Sri Lanka
Ghana
Malesia
Nigeria
Cipro
Sierra Leone
Giamaica
Trinidad e Tobago
Uganda
Kenya
Malawi
Malta
Tanzania
Zambia
Singapore
Barbados
Botswana
Guyana
Lesotho
Mauritius
Swaziland (1968)
Figi (sospese nel 2006)
Samoa
Tonga
Bangladesh
Bahamas
Grenada
Papua Nuova Guinea
Seychelles
Dominica
Isole Salomone
Tuvalu
Kiribati
Saint Vincent e Grenadine
Santa Lucia
Vanuatu
Antigua e Barbuda
Belize
Saint Kitts e Nevis
Brunei
Namibia
Camerun
Mozambico
Nauru
Ruanda

Reami del Commonwealth.
Antigua e Barbuda
Australia
Bahamas
Barbados
Belize
Canada
Giamaica
Grenada
Isole Salomone
Nuova Zelanda
Papua Nuova Guinea
Regno Unito
Saint Kitts e Nevis
Saint Vincent e Grenadine
Santa Lucia
Tuvalu

Ex membri.
Gambia (uscito nel 2013)
Irlanda (uscita nel 1949)
Zimbabwe (uscito nel 2003)
Maldive (uscito nel 2016)