Un’isola per i migranti

di Giovanni Ciprotti –

Migranti via terraIl ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz ha rilasciato nei giorni scorsi una intervista che ha fatto molto discutere, com’era prevedibile tenuto conto del tema affrontato.
Secondo il ministro austriaco, l’Unione Europea dovrebbe adottare, per la gestione dei migranti che tentano di entrare in Europa, un modello simile a quello sperimentato negli Stati Uniti nei primi decenni del XX secolo: anche noi europei dovremmo avere la nostra “Ellis Island” quale centro di riconoscimento e selezione degli immigrati. Va da sé che se di isola o gruppo di isole si deve trattare, non può che essere nel Mediterraneo, ad esempio qualche isola greca.
La proposta del ministro Kurz ha il merito di sottolineare la necessità di un metodo unitario europeo per la gestione degli arrivi dei migranti. Tuttavia, nell’evocare Ellis Island, non tiene nella dovuta considerazione alcune specificità di quella esperienza storica ormai lontana nel tempo, che oggi non possono essere rilevate nel nuovo fenomeno migratorio che sta mettendo a dura prova le capacità di molti Paesi europei e della UE nel suo insieme.
Gli emigranti che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento giunsero in America, fuggivano dalla fame e dalla mancanza di prospettive di miglioramento della loro condizione di vita nel paese d’origine. Non erano gli orrori delle guerre e delle persecuzioni politiche o religiose a spingerli ad affrontare un lunghissimo viaggio via mare, peraltro in pessime condizioni igieniche e di sicurezza. Una volta giunti nel porto di destinazione, gli immigrati dovevano superare gli esami delle commissioni del lavoro per poter ottenere il permesso di soggiorno.
Stando alle statistiche, peraltro non univoche nelle cifre, dei 17 milioni di immigrati che tra gli anni Novanta del XIX secolo e lo scoppio della Prima guerra mondiale giunsero negli Stati Uniti, circa 11 milioni transitarono da Ellis Island. Il ritmo degli arrivi non fu costante nel tempo, ma per il personale di servizio sull’isola non era un fatto straordinario far fronte a qualche migliaio di registrazioni quotidiane.
Gli archivi di Ellis Island ci dicono che l’anno di maggior affluenza fu il 1907, con 1.004.756 persone (in quell’anno, il giorno contraddistinto dal maggior numero di operazioni fu il 17 aprile, con 11.747 immigrati registrati). Il numero di arrivi fece registrare un calo considerevole negli anni del primo conflitto mondiale, per riprendere quota dopo la fine della guerra: una ulteriore prova che gli immigrati che si imbarcavano per l’America (o per altre destinazioni) non erano spinti dalla paura dei conflitti, bensì da motivazioni economiche. Il Johnson Immigration Act del 1924, che stabiliva regole più severe e quote ridotte per l’accoglienza degli immigrati (circa 170 mila ingressi complessivi annui, 150 mila a partire dal 1927), pose fine alla grande immigrazione di inizio Novecento.
La distanza tra Europa e America rendeva la nave l’unico mezzo di trasporto utilizzabile e ciò agevolava il compito delle autorità nei porti di arrivo nel concentrare in centri di controllo prestabiliti tutte le persone provenienti dal Vecchio Mondo (o da altri Paesi comunque lontani). Non è un caso se le autorità statunitensi hanno da sempre avuto più difficoltà a gestire il flusso emigratorio proveniente dal confine con il Messico, da cui i migranti arrivavano e continuano ad arrivare a piccoli gruppi e seguendo itinerari sempre mutevoli.
Il flusso migratorio che sta investendo l’Europa ha raggiunto livelli per certi versi paragonabili a quelli della “Grande Emigrazione” verso l’America di un secolo fa, ma ha dinamiche differenti perché diverso è il contesto geografico e diverse sono le motivazioni principali che spingono i disperati di oggi a tentare di entrare in uno dei Paesi europei. Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2015 sulle coste europee sono sbarcate 1.015.078 persone (nel 2014 erano state 216.054 e nel 2013 59.421), ossia un numero complessivo paragonabile con gli arrivi annui registrati a Ellis Island negli anni di massima affluenza. La molteplicità e la variabilità delle rotte seguite dai migranti e la relativa vicinanza delle coste nordafricane o del Vicino Oriente dalle coste europee rende molto complesso il tentativo di concentrare le persone da identificare in pochi luoghi e l’idea di costituire un unico centro di identificazione comporterebbe per la UE un onere economico aggiuntivo dovuto al costo dei trasferimenti dei migranti dal punto di approdo al centro “unificato”.
Superato l’ostacolo dei costi dei trasferimenti da sopportare (e dando per scontato che sia stata già individuata la località per costruire la nostra “Ellenis Island” e siano stati stanziati i fondi per costruire il centro), sarebbe necessario tenere conto dell fattore tempo, inteso come tempo medio di permanenza del singolo migrante nel centro di identificazione.
Senza nulla togliere alla straordinaria efficacia di Ellis Island come centro di riconoscimento degli immigrati, vale la pena ricordare che il personale medico e amministrativo operava in base a criteri di selezione molto semplici: le generalità necessarie per l’identificazione venivano fornite, o quanto meno confermate, dal diretto interessato e riportate sui registri dell’immigrazione, senza ulteriori verifiche su documenti ufficiali o presso i paesi di provenienza; veniva negato il permesso di sbarco soltanto alle persone che manifestavano patologie fisiche o mentali oppure ai soggetti potenzialmente sovversivi.
Chi otteneva l’autorizzazione a restare negli Stati Uniti, veniva imbarcato su una nave che lo portava fino al prospiciente porto di New York, da dove poteva andare dove voleva senza alcuna restrizione. In moltissimi casi, la permanenza dell’immigrato sull’isola si riduceva a poche ore.
Le procedure di identificazione attuate oggi in Europa devono conciliare diverse esigenze. Alla considerevole quota di immigrati spinti da motivazioni economiche si aggiunge una non trascurabile percentuale di persone che fuggono da guerre e discriminazioni che ne mettono in pericolo la vita e che solitamente fanno richiesta di asilo politico. E’ quindi necessario distinguere le due categorie di persone: ciascun Paese europeo può concedere agli appartenenti al primo gruppo l’autorizzazione ad entrare in base alla propria legislazione nazionale, mentre per la seconda categoria vale la normativa internazionale sui rifugiati. A ciò si aggiunge la necessità di individuare, nella massa dei disperati che sbarcano, la presenza di potenziali terroristi che tentano di introdursi in Europa evitando di passare dai posti di frontiera ordinari.
Soddisfare le esigenze sopra ricordate richiede tempo per espletare i dovuti controlli, che comprendono indagini e richieste presso le autorità dei paesi di provenienza dei migranti. La conseguenza è l’allungamento dei tempi di permanenza delle persone presso il centro di identificazione e quindi la necessità di gestire non soltanto il passaggio rapido dei migranti, come avvenne ad Ellis Island, ma anche il loro soggiorno per tempi difficilmente prevedibili. Chi dovrebbe farsi carico dei costi del centro dimensionato per affrontare tutte queste incombenze, del personale che vi lavora e del soggiorno di tutte le persone che non possono essere identificate rapidamente? I costi della stazione di Ellis Island erano a carico del governo federale, non del comune di New York. Riuscirebbe Bruxelles a convincere i 28 Paesi della UE a farsi carico pro-quota delle spese per una operazione del genere?
Ma anche supponendo che si riesca a trovare una soluzione sia alla copertura dei costi sia ai criteri da applicare nel centro per concedere il “visto di ingresso”, rimarrebbe il problema della collocazione delle persone accolte.
I Paesi della UE, compresa l’Austria del ministro Kurz, sarebbero disposti ad autorizzare lo sbarco immediato e la possibilità di scegliere liberamente la destinazione per tutti gli immigrati ai quali fosse riconosciuto il diritto ad entrare in Europa? In caso contrario, la nostra “Ellenis Island” rischierebbe di trasformarsi in un centro di detenzione e il problema delle persone accolte verrebbe ribaltato interamente sul Paese a cui l’isola appartiene.