Usa, Gb e Francia attaccano la Siria. Le prove sul gas a Douma? Non servono

di Dario Rivolta * –

Da quando gli uomini hanno cominciato a farsi guerre tra loro si è sempre sentita la necessità di giustificarle attribuendone la ragione a malefatte, vere o presunte, commesse dai “nemici”. A volte si trattava di difendere se stessi da ipotetiche minacce alla propria sicurezza, altre volte semplicemente si creava il “casus belli” per obbligare l’altro a fare la prima mossa con la guerra che diventava, di conseguenza, l’”obbligata” reazione. Da un po’ di tempo a questa parte si è scoperto che anche la ragione “umanitaria” autorizza a interventi bellici pure in mancanza di un pericolo diretto e magari in territori geograficamente molto lontani. Che il motivo umanitario esista veramente o no ha poca importanza. L’indispensabile è annunciarlo e ottenere una vasta copertura mediatica a favore che almeno in apparenza lo confermi. Un esempio eclatante di questo genere fu la guerra contro la Serbia: bastò inventarsi un genocidio in atto contro i kosovari e le opinioni pubbliche europee furono immediatamente convinte. Furono diffuse fotografie aeree di possibili fosse comuni piene di cadaveri di civili inermi assassinati dalla brutale polizia di Milosevic. Si scoprì solo in seguito che, anziché di tombe, si trattava di sola terra, appositamente sistemata in modo da lasciar credere che ricoprisse cadaveri gettativi alla rinfusa. Lo stesso procedimento fu attuato in Libia, quando la tv panaraba al-Jazeera mostrò tombe scavate per contenere presumibilmente le innumerevoli vittime innocenti del “criminale” Gheddafi. In realtà, le riprese erano state realizzate nel cimitero di Tripoli in ristrutturazione e nelle fosse non c’erano cadaveri. Di notizie false create per giustificare un intervento abbiamo avuto una indiscutibile evidenza a proposito delle “armi di distruzione di massa” attribuite a Saddam Hussein e poi mai trovate.
Oggi è il caso della “gassificazione” di Douma, in Siria, attribuita “naturalmente” alla malvagità del criminale di turno: Bashar al-Assad. Certamente tutto è possibile e nessuno può ragionevolmente sostenere che il dittatore siriano sia una mammoletta. Ci sono però almeno due buoni motivi per avere dei dubbi.
Il primo è che già nel passato si è attribuito al suo esercito l’uso di armi chimiche contro la popolazione inerme e ciò avrebbe costituito la cosiddetta “linea rossa”, passata la quale il presidente americano Barak Obama aveva promesso un intervento militare contro il regime. Fortunatamente Obama si rimangiò il suo proposito e poco dopo si scoprì che a fare uso dei gas erano stati proprio i ribelli che con spregio dei propri seguaci e degli abitanti avevano liberato dei gas con l’intento di attribuirne l’uso ai lealisti e provocare così l’intervento statunitense.
Il secondo motivo di dubbio è che, guarda caso, i bombardamenti aerei e missilistici lanciati da americani, francesi e britannici sono avvenuti prima che una commissione internazionale indipendente verificasse che si fosse veramente usato del gas proibito e chi lo avesse fatto. Perché non aspettare due giorni? Emmanuel Macron, Theresa May e Donald Trump hanno da subito sostenuto di avere le prove che quanto denunciato fosse veramente successo e che il responsabile ne fosse al-Assad. Peccato che tali “prove” non siano mai state esibite ad alcuno e che i russi, confortati da medici locali, sostengano che nessun gas sia mai stato usato a Douma e che le immagini girate da sconosciuti con apparenti “lavaggi” di civili fossero una “messa in scena” organizzata da servizi stranieri in combutta con le forze ribelli locali.
Se vogliamo essere sinceri con noi stessi dovremmo però anche dirci che il “doppio standard” di valutazione che noi occidentali applichiamo sempre più spesso a seconda che ci troviamo di fronte a “malefatte” commesse da nemici o da chi consideriamo amici ha cominciato a nausearci. Chi non sta con noi è sempre un terribile dittatore, un criminale, si tratta di un uomo o di un Paese senza scrupoli e senza alcun rispetto per le proprie minoranze. Chissà perché decidiamo di mai attribuire quelle stesse definizioni ad alcuni nostri alleati o a Paesi verso cui la realpolitik ci suggerisce di procedere con passo felpato. Parlo ad esempio della Turchia di Erdogan e dei suoi atti criminali contro i curdi di Turchia e contro tutti i giornalisti non “allineati”. Potremmo anche parlare di Arabia Saudita, di Filippine, oppure, perché no? di Cina. Abbiamo tollerato e tolleriamo una marea di dittatori in giro per il mondo, di gruppi terroristici che non definiamo tali perché finanziati da Paesi “amici” e diamo spazio ai nostri sentimenti “umanitari” soltanto quando ci fa comodo. Siamo o non siamo ipocriti? E il diritto internazionale in nome del quale invochiamo l’illegittimità dell’annessione della Crimea alla Russia? Siamo così sicuri che le nostre azioni “occidentali” siano state (e siano) sempre rispettose di tale diritto?
Chiunque guardi con onestà intellettuale all’intervento dei tre Paesi sopra menzionai contro la Siria sa che di “umanitario” non c’è nulla. Ciò che non andava giù a Parigi, Washington e Londra è il fatto che la crisi siriana e la sua possibile soluzione si fosse messa su una strada che ignorava totalmente i loro interessi. Il vero significato di questo bombardamento sta solamente nell’affermare: “Ci siamo anche noi. Non crediate di trovare una qualunque soluzione senza negoziarla anche con noi”. Trump aveva inoltre la necessità di mostrarsi più decisionista di Obama e di distrarre la propria opinione pubblica dai guai casalinghi che lo coinvolgono. Londra e Parigi non digeriscono che i loro vecchi domini coloniali prescindano oggi totalmente da loro. Tutti e tre, soprattutto, ritengono che non possano essere Iran e Russia a mettere le mani definitivamente su quella zona del mondo.
Se il messaggio lanciato attraverso i missili è arrivato a destinazione e la Russia accetterà di far rientrare gli Stati Uniti tra i protagonisti dei negoziati in corso, probabilmente non ci saranno altri attacchi e nessun ulteriore rischio per la stabilità mondiale. Se invece non sarà recepito, altri attacchi non possono essere esclusi.
C’è poi il caso di Israele, il cui premier Benjamin Netanyahu non fa passare giorno senza fare pressioni su Usa ed alleati per un intervento – chiamiamola pure guerra – contro l’Iran, paese alleato di Bashar al-Assad e fin dall’inizio del conflitto civile presente con militari in Siria. Il suo cruccio è il sostegno che Teheran dà agli Hezbollah libanesi nonché quella che lui considera l’ingerenza iraniana in un territorio ai propri confini. Per poco l’esplosione accidentale in un deposito iraniano non è stata fatta passare per un attacco del jet di Tel Aviv, e già la stampa internazionale aveva preso un abbaglio in tal senso: una reazione violenta iraniana è proprio ciò che alcuni guerrafondai di Israele sperano di innescare perché se Israele fosse colpita direttamente da missili iraniani ciò giustificherebbe un intervento americano a protezione dell’alleato. Anche a Washington qualcuno ne sarebbe contento.
Di sicuro non lo sarebbero tutti coloro che hanno sperato, e sperano, in un mondo un po’ più stabile e pacifico.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.