18 marzo 1848: Milano divenne un formicaio di fuoco

di Yari Lepre Marrani

La città di Milano è tanto ricca di storia quanto le pagine di Guerra e Pace di eventi. Benché Milano non sia la capitale, la sua importanza nell’evolversi della maturazione italiana verso l’Indipendenza fu tanto capillare quanto Roma fu decisiva, nel Medioevo, a tenere sorretto un mondo che sarebbe crollato senza il sostegno ferreo della cristianità. Oggi le albe di Milano sono contrassegnate dal fragore delle auto, la scandita luminosità di una città che, ogni giorno, si risveglia per mantenere viva la sua leggenda di produttività e lavoro, ciò che la rende la capitale economica d’Italia. Ma se facciamo un salto indietro di 177 anni, vedremmo sorgere un’alba bellicosa su Milano, un’aurora anticipatrice di un’insurrezione epocale che tanta parte ha avuto nel diffondere la leggenda della Guerra d’Indipendenza Italiana. Era il 18 marzo 1848 quando a Milano scoppiò l’insurrezione popolare contro gli austriaci, contro il tallone austriaco. In quell’anno, che è rimasto nell’immaginario storiografico e collettivo sinonimo di fuoco liberatore, le Cinque giornate di Milano occupano un posto a sé, perché raramente si vide all’opera con tanta determinazione la forza dei movimenti spontanei delle masse verso l’oppressore.
Il 18 marzo 1848, alla notizia della rivoluzione di Vienna e dell’insurrezione di Venezia, i milanesi iniziarono a costruire barricate, incominciando a impegnare la guarnigione austriaca in lotte strada per strada. Le forze austriache erano comandate dal maresciallo Radetzky: un uomo vecchio, che aveva combattuto in Italia contro Napoleone cinquant’anni prima. Nel 1831 era divenuto comandante supremo delle truppe austriache in Italia. I 13mila soldati austriaci che nelle giornate del 1848 presidiavano Milano, città che allora contava poco più di 170mila abitanti, erano tutti suddivisi per la città in cinquanta unità distinte. Per ragioni logistiche, Radetzky non riuscì ad accorgersi tempestivamente di quanto sarebbe stato difficile rifornirle in caso di seri scontri per le strade. L’insurrezione degli abitanti di Milano, da prima spontanea e non coordinata, venne ben presto organizzata soprattutto da Carlo Cattaneo e dal gruppo radicale che si organizzò in un comitato militare e ottenne numerosi successi contro l’esercito regolare. Il responsabile politico della Milano di quei giorni, Gabrio Casati, podestà di Milano nel 1848, non fu un sindaco nel senso moderno, ma ebbe un ruolo di primo piano nella preparazione e nel governo provvisorio. Sebbene fosse a capo dei moderati che sostenevano l’intervento dei Savoia, la leadership dell’insurrezione fu divisa, con la guida democratica affidata a Carlo Cattaneo. Dopo la cacciata degli austriaci, Casati presiedette il governo provvisorio e si adoperò per l’annessione della Lombardia al Piemonte. Ma prima che gli austriaci crollassero, Casati appoggiò il movimento di massa, lasciandosi convincere a rifiutare la prima offerta di armistizio del maresciallo Radetzky.

Ore 2 della notte dal 18 al 19 marzo 1848.
Già da alcuni giorni erano giunte a Vienna notizie secondo le quali si voleva effettuare per il 18 marzo a Milano un’insurrezione. Il 17 sera arrivò per telegrafo a Milano la notizia che l’imperatore Ferdinando I aveva fatto grandi concessioni. L’annunzio di tali provvedimenti era stato affisso già la notte tra il 18 e il 19 marzo a tutti gli angoli delle strade della città. Radetzky credette che questo avrebbe calmato il popolo di Milano, e il vicepresidente, conte O’donel, gli chiese di non usare assolutamente le truppe, anche nell’ipotesi si fosse intrapreso qualcosa, a meno che non venisse richiesto dalle autorità civili. Verso il mezzogiorno del 18 marzo, il popolo iniziò a spargersi e i ragazzi erano già stati ritirati dalle scuole. Le truppe austriache erano ancora in caserma. Quando scoppiò la tempesta popolare, Radetzky si trovava nel suo ufficio e fu costretto a rifugiarsi nel castello per non essere preso in mezzo alla massa del popolo. Le notizie che gli arrivarono in quel momento divennero di attimo in attimo più allarmanti: per le strade principali della città, i cittadini iniziarono ad alzare barricate e fu in quel momento che il maresciallo mise le truppe in stato di allarme ma non gli pervenne ancora alcun invito ad intervenire. Il commissario superiore di polizia De Betta informò Radetzky che tutti gli uomini di guardia del governo erano stati uccisi, o gravemente feriti. Il palazzo del governo era stato messo a ferro e fuoco dai ribelli. La battaglia era cominciata in tutti i punti della città: si sparava sui soldati dalle finestre, si scaraventavano dai tetti ogni sorta di proiettili. Milano era diventata un formicaio di fuoco.
Il 19 marzo, già all’alba, si è cominciato a sparare, dapprima solo in qualche punto, poi ovunque. Il 20 marzo i democratici costituirono un Consiglio di guerra composto dal fiore del patriottismo milanese dell’epoca: Cattaneo, Enrico Cernuschi, Giorgio Clerici, Giulio Terzaghi. Il comitato di guerra fu costituito per condurre a fondo l’insurrezione, mentre la direzione politica fu assunta da un governo provvisorio, a prevalenza moderata, presieduto da Casati. Ancora il 19 marzo, verso le 5 pomeridiane, Radetzky tenne la speranza di ricondurre la città all’obbedienza senza bombardamenti, utilizzando solo l’artiglieria contro le barricate e i punti più pericolosi. Tra il 20 e il 21 marzo, a comitato di guerra già costituito, la battaglia dei cittadini è continuata con grande furia: la città di Milano era stata sconvolta sin dalle fondamenta, difficile se non impossibile farsene oggi un’idea. E’ illuminante notare che lo stesso Radetzky notò che il carattere del popolo di Milano si era trasformato “come per un colpo di bacchetta magica: il fanatismo ha preso persone di ogni età, rango, uomini e donne. Nella mattinata di ieri ho fatto ritirare tutte le truppe dall’interno della città nel castello; rimangono occupate soltanto quelle caserme con cui è possibile mantenere un collegamento”, scriverà Radetzky nel suo rapporto a Ficquelmont, generale e ministro degli Esteri dell’Impero austriaco, del 19, 21 e 22 marzo 1848.
Il 22 marzo 1848 Radetzky dovette prendere la decisione più tremenda della sua vita, e lasciare Milano in quanto non poteva più tenere a lungo la città. L’intero paese era in rivolta, non solo Milano. Radetzky era minacciato alle spalle dal Piemonte. Il giorno prima della resa delle sue forze, il maresciallo scriverà nel medesimo rapporto frasi significative sulla sua disfatta: “Possono distruggere tutti i ponti alle mie spalle, non ho materiali per ricostruirli e tanto meno mezzi di trasporto. Non so nulla di quello che accade dietro di me. Mi ritirerò passando per Lodi, allo scopo di evitare le grandi città, e anche perché la campagna, che questa strada attraversa, è libera”. Erano le parole che sancivano la fine delle Cinque giornate: il 23 marzo gli insorti costrinsero il maresciallo Radetzky ad abbandonare Milano e ritirarsi verso Verona. Nei combattimenti (costati agli insorti oltre 300 morti), si distinsero militi come Luciano Manara, tra le figure più note del Risorgimento, a cui da tempo è intitolata la breve via milanese perpendicolare a Corso Ventidue Marzo