30 anni di COP e i risultati (non) si vedono

di C. Alessandro Maceri –

Il 2022 è un anno importante per l’ambiente e in particolare per la lotta dei vari governi alle emissioni di CO2 e ai cambiamenti che producono: quest’anno infatti si celebra il trentesimo anniversario dagli incontri di Rio. Quelli che diedero il via alla macchina delle Conferenze delle Parti, le COP.
Dopo Rio furono necessari alcuni anni di preparazione per organizzare la prima Conferenza delle Parti che si tenne a Berlino, (un caso che, a trent’anni di distanza, il lavori preparatori alla COP27 si sono svolti a Bonn?). In quell’occasione, emerse con chiarezza che era necessario trovare un modo per obbligare i vari governi a mettere in pratica gli obiettivi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) riducendo le emissioni di gas serra.
Due anni dopo, nel 1997, i rappresentanti dei governi si incontrarono a Kyoto: qui, per la prima volta, vennero fissati alcuni obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. I partecipanti concordarono di ridurle di circa il 5%, rispetto ai livelli del 1990. Si diedero anche un termine per raggiungere questo obiettivo: entro il 2012 (ma fu permesso ai paesi in via di sviluppo di continuare ad aumentare le emissioni). Fu allora che si capì cosa sarebbe successo nei decenni successivi: il Congresso degli Stati Uniti, che da sempre si era fatto portavoce dei diritti dell’ambiente, non ratificò il trattato. E senza quella firma il protocollo sembrò avere le ali tarpate e non riuscì a decollare.
Anno dopo anno, le COP continuarono, ma quasi sempre i risultati furono inferiori alle aspettative. Ad aprire nuove speranze fu la COP del 2004 che si tenne a Buenos Aires. In quell’occasione, a rilanciare la corsa verso la riduzione delle emissioni fu la Russia che accettò di ratificare il protocollo ambientale in cambio dell’ammissione all’Organizzazione Mondiale del Commercio. La sua sottoscrizione rese il protocollo legale. Molti governi, però, (Stati Uniti d’America in primis seguiti dalla Cina) si ostinarono a non volerne sapere. L’impatto delle misure decise a Buenos Aires fu molto limitato.
Da allora, per molti anni, Cina e Stati Uniti d’America continuarono ad aumentare la produzione di carbonio: la Cina ha superato gli Stati Uniti come la più grande fonte di emissioni. E il livello di emissioni di CO2 a livello globale non ha mai mostrato segni di riduzione (salvo un brevissimo momento all’inizio della pandemia e del conseguente lockdown).
Lo scontro andò avanti fino al 2006. Alla COP di Bali, Yvo de Boer, segretario esecutivo dell’UNFCCC nel 2006, propose una tabella di marcia che avrebbe portato a una sostituzione del protocollo di Kyoto con misure che fossero accettate da tutti i governi. Ancora una volta, a porsi come ostacolo furono i rappresentanti degli USA. Alla fine, esasperato, il delegato della Papua Nuova Guinea, Kevin Conrad, si rivolse al rappresentate degli Stati Uniti dicendo: “Chiediamo la vostra leadership, cerchiamo la vostra leadership, ma se non siete disposti a guidare, per favore toglietevi di mezzo”. Gli USA accettarono di firmare la tabella di marcia di Bali che aveva come obiettivo finale un accordo sulle emissioni da ratificare entro la fine del 2009.
Tre anni dopo alla COP di Copenaghen erano grandi le aspettative di vedere un nuovo protocollo di Kyoto firmato da tutti i Paesi. Ma in quei giorni avvenne qualcosa che da allora è diventato il leit motive di tutte le successive Conferenze delle Parti: i delegati riempirono i media di tante belle parole, di tante promesse, della presa d’atto della gravità della situazione e della necessità di interventi immediati. Ma poi non fecero niente (o quasi) di concreto. Alla fine, a Copenaghen, venne firmata solo una blanda “dichiarazione politica”. Neanche il presidente americano più verde degli ultimi decenni, Barack Obama, accettò fare qualcosa di concreto per ridurre le emissioni di gas serra entro il 2020. E lo stesso si rifiutarono di fare tutti i principali responsabili delle emessioni di CO2, inclusa la Cina.
A sorpresa, l’anno successivo, nel 2010, alla COP che si tenne a Cancun, vennero formalizzati gli obiettivi nazionali di tutti i paesi, fino al 2020. Ma non ci volle molto per capire che si trattava di un finto impegno: l’anno successivo, alla COP di Durban, emerse con chiarezza che il nuovo protocollo non era vincolante.
Per sentire parlare di nuovo di ambiente e impegno per la riduzione delle emissioni si dovette attendere il 2015. Per evitare che come, ogni anno, i lavori delle Conferenze delle Parti si spegnessero senza produrre niente di buono, la COP di Parigi fu preceduta da una serie di incontri. Gli organizzatori trascorsero mesi e mesi impegnati in una “diplomazia a 360 gradi” per far sì che i leader mondiali arrivassero a Parigi con una bozza di accordo e molte delle questioni più spinose già risolte. Durante i lavori della COP di Parigi venne confermata la promessa di fornire aiuti per 100 miliardi di dollari ai paesi poveri, di ridurre le emissioni di CO2 e poco altro. Ma tutto venne inserito in un allegato “non vincolante” al trattato legalmente (vincolante) e la questione se fissare un limite di temperatura di 1,5 ° C o 2 ° C fu risolta includendo entrambi. Questi accordi, come sempre, confermavano la “compensazione” ovvero la possibilità per i paesi più inquinanti di continuare ad esserlo a patto che altri paesi (quelli meno industrializzati e meno responsabili delle emissioni di CO2) rinunciassero alle proprie “quote”. In cambio di cosa? Di investimenti e infrastrutture che i paesi più sviluppati avrebbero elargito sventolandole come aiuti umanitari e progetti di sviluppo.
A dimostrare che tutto questo non è servito a niente, quanto è avvenuto lo scorso anno a Glasgow: la COP26, rimandata di un anno – si disse a causa della pandemia (mentre eventi sportivi internazionali in presenza si svolgevano regolarmente) – non ha portato nessun risultato significativo. È stata solo l’ennesima passerella mediatica, condita con riunioni e dibattiti ma senza alcun impegno concreto. E questo nonostante le pressioni da parte dei paesi più poveri, specie quelli insulari, che si vedono costretti già oggi ad affrontare i cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di CO2.
Emissioni che in tutto questo tempo hanno continuato ad aumentare. La dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che trent’anni di incontri internazionali, dibattiti, eventi globali contornati da manifestazioni di ogni genere, non sono serviti assolutamente a niente. A conti fatti nemmeno a far credere di stare facendo davvero qualcosa per l’ambiente.