“5+5 Defense Iniziative”. Ne parliamo con il ricercatore italiano Claudio Bertolotti

a cura di Vanessa Tomassini –

La “5+5 Defense Initiative” è stata creata per favorire la conoscenza reciproca tra i Paesi dell’area mediterranea, per rafforzare la cooperazione multilaterale e promuovere la sicurezza del Mediterraneo occidentale, attraverso lo sviluppo di iniziative concrete di interesse comune ed un programma di azione annuale. Dei Paesi che aderiscono all’iniziativa cinque sono europei (Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Malta) e cinque africani (Marocco, Algeria, Libia, Mauritania e Tunisia). Ciò prevede, a monte di un confronto politico e tecnico tra ministri della Difesa e capi di Stato Maggiore dei rispettivi Paesi, un impegno analitico e predittivo in cui entra in gioco il gruppo di ricerca composto da dieci ricercatori delle Nazioni componenti l’Iniziativa di Difesa a cui si affianca lo sviluppo di attività operative congiunte tra le diverse realtà militari, in particolare tra quelle addette al controllo marittimo e quella delle Forze Speciali. Il forum di esperti che si è concluso venerdì 6 ottobre a Tunisi. Quest’anno, gli analisti si sono concentrati sul tema “Effetti dei cambiamenti climatici sul fenomeno dei flussi migratori di massa dal continente africano”. Per la parte italiana a partecipare è stato il professor Claudio Bertolotti, ricercatore associato presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI), analista senior presso l’Istituto Euro-Maghrebino di Studi Strategic che coordina anche le attività di ricerca nell’ambito della “5+5 Defense Initiative”.

– Si è da poco tenuto il l’incontro del team di ricerca della “5+5 Defense Initiative”, quali sono i principali argomenti di discussione e confronto?
In preparazione della riunione dei ministri della Difesa dei Paesi componenti il forum di consultazione sulla cooperazione per la sicurezza e la difesa nel Mediterraneo centrale e occidentale previsto per dicembre, il gruppo internazionale di ricercatori ha affrontato le tematiche su cui sono maggiormente impegnati i Governi dell’area mediterranea e su cui sono concentrate le opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi. Il principale di questi ritengo che sia il fenomeno dei flussi migratori, inteso non come emergenza a breve termine, un approccio ormai fuori discussione, bensì come fenomeno strutturale di portata continentale e di lungo periodo e le cui cause sono molteplici, e tra queste certamente quella dei cambiamenti climatici. Un fenomeno all’interno del quale va ad inserirsi, con crescente preoccupazione, quello dell’immigrazione clandestina che dal continente africano si sposta verso l’Europa e l’Italia, attraverso l’area del Nord Africa, pur non dimenticando la massa migratoria interna all’Africa”.

– Quali sono gli effetti dei cambiamenti climatici sul fenomeno dei flussi migratori di massa dal continente africano?
I cambiamenti climatici da sempre hanno condizionato la storia dell’umanità, che si è adattata o è stata indotta a trasferirsi altrove. Difficile pensare che questa dinamica possa essere contenuta all’interno di perimetri, politici, sociali o militari, definiti e rigidi. In primo luogo dobbiamo considerare gli effetti diretti dei cambiamenti climatici, in primo luogo il deprezzamento e la limitazione nell’utilizzo di terreni agricoli e pastorali, da cui derivano l’aumento di pressione sulla sicurezza alimentare, l’accentuazione dei disequilibri territoriali e l’allargamento di “zone grigie” sempre più difficili da controllare da parte degli Stati. In secondo luogo, da una situazione che può degenerare in crisi, si impone l’accentuazione di rivalità interstatali per l’accesso alle risorse naturali, quali acqua ed energie fossili. Da ciò derivano le minacce dirette alla sicurezza interna ed esterna degli Stati: la vulnerabilità delle frontiere, il terrorismo, la criminalità organizzata. In tale quadro di progressivo sgretolamento degli equilibri politico-sociali ed economici i fenomeni migratori di massa, interni e transfrontalieri, divengono una naturale conseguenza che non può essere affrontata attraverso approcci strategici che si concentrino sulla massa migratoria, lasciando inevasa la necessità di intervento sulle cause prime che si fondano sulla stabilità interna, in primis economica, degli stati africani”.

– Sappiamo che lei si è occupato anche di Libia. Tema molto importante per l’Italia, sia per gli interessi economici, sia perché dalla Libia passa la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa e quindi verso le coste italiane. Quali sono le sue riflessioni?
La Libia è una terra di passaggio di masse di migranti, tra i quali una significativa componente economica, circa il 90%, che spesso si trova costretta a prendere la via del mare pur avendo guardato alla Libia come possibile paese in cui migliorare la propria condizione economica. Ma l’instabilità interna, un sistema economico-sociale sfasciato e l’assenza di uno Stato lasciano questi immigrati in balia di gruppi criminali, in parte connessi per convenienza ad organizzazioni terroristiche. In assenza di un’economia stabile e a fronte di vuoti istituzionali enormi, la criminalità, così come la gente comune e le milizie tribali, trovano spazio in cui sviluppare e radicare le proprie iniziative “imprenditoriali”. L’economia illecita è quella che oggi consente ai libici di sopravvivere. Una risposta fisiologica di adattamento che però rischia di precipitare il paese in una condizione di instabilità cronica caratterizzata da conflitti a bassa intensità. Quello economico l’aspetto che più ci deve preoccupare. La Libia oggi è incapace di sostenersi attraverso un’economia sana e positiva, e allora opta per quelle soluzioni illecite, ma necessarie, come il contrabbando di petrolio, armi e droga. A questi si unisce il traffico di esseri umani, fortemente dannoso per la stabilità politica dell’Europa e che all’Italia (e dunque ai suoi contribuenti) costa fino a 5 miliardi di euro l’anno. E sono aspetti questi, l’ultimo in particolare, che vanno fortemente ad incidere sulla percezione dell’opinione pubblica italiana (prima ancora che europea) sul piano della stabilità politica e della sicurezza interna. Il rischio è che non si possa più riuscire a ristabilire un ciclo economico salutare in Libia e, conseguentemente, ciò porterebbe a perdere quei rapporti commerciali che sino alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi, e ancora nel 2015, si basavano sulla presenza e sull’attività di piccole e medie imprese italiane. Perdere l’occasione di ristabilire tali rapporti comporta danni di centinaia di milioni di euro per le imprese italiane, e oltre un miliardo di euro di crediti pubblici non riscossi. Dunque non vedo ragioni da parte del Governo italiano per non intervenire in maniera energica in Libia”.

– Quali soluzioni propone per arginare il problema?
La soluzione è di tipo diplomatico, anche attraverso l’utilizzo dello strumento militare, come in parte già sta avvenendo. Ma deve essere un approccio spregiudicato, non ideologico. L’Italia deve non solo parlare con tutti i soggetti che in Libia detengono una qualche forma di potere, legittimo o de facto – e dunque anche le milizie e gli attori non statali coinvolti nel traffico di esseri umani – ma deve prendere coscienza del fatto che l’instabilità della Libia significa instabilità politica ed economica per l’Italia. Ciò impone di scendere a patti con Francia ed Egitto? Non importa, abbiamo perso tempo e occasioni; ora come hanno fatto gli altri paesi è necessario tutelare l’interesse nazionale, ovviamente in un’ottica europea. E ciò va imposto. Per questo motivo, ritengo che il Governo italiano deve porsi come obiettivo primario quello di riportare la Libia all’interno del perimetro del mercato mondiale, in primis delle risorse energetiche naturali: gas e petrolio. È prioritario riportare i volumi estratti ed esportati ai livelli pre-2011. Questa è l’unica via per consentire alla Libia di risollevarsi. Non ci sono alternative”.

– Si è parlato e si continua a parlare delle condizioni dei centri migranti in Libia. In questi giorni a Sabratha ci sono centri sovraffollati con gli operatori dell’IOM e i partner delle nazioni Unite a lavoro giorno e notte. Avete analizzato le cause di questo problema? Anziché investire nel miglioramento dei centri di detenzione non sarebbe più opportuno investire in interventi atti a risolvere i problemi che spingono i migranti ad abbandonare tutto e a rischiare la vita per attraversare il mare?
Francamente, la questione dei diritti umani che smuovono le coscienze delle opinioni pubbliche europee non hanno peso sui tavoli dei negoziati politici. Nel bene o nel male. Il problema su cui concentrarsi non sono le terribili condizioni dei migranti detenuti nei centri di permanenza in Libia. Noi non dobbiamo impegnarci per migliorare le loro condizioni, dobbiamo lavorare affinché in quei centri non arrivi nessuno. Continuare a dare assistenza nell’immediato anziché adottare una visione strategica a lungo termine non può che essere deleterio, come hanno dimostrato le cosiddette missioni di salvataggio in mare che hanno coinvolto Stati e ONG: la conseguenza è stato un aumento delle masse migratorie attraverso il mediterraneo che è corrisposto a un aumento dei morti in mare. Una soluzione che alla fine ha accentuato il problema che formalmente si voleva risolvere.È invece necessario operare sui paesi di provenienza non attraverso programmi di sostegno economico di dubbia efficacia, bensì attraverso uno sviluppo economico infrastrutturale a livello continentale. L’Africa è un paese economicamente in crescita, dobbiamo far sì che questa crescita abbia dirette e positive conseguenze sulle condizioni di vita delle società africane”.

– Venerdì 6 ottobre il brigadier generale Omar Abdul Jalil, capo della regia operativa Anti-IS (Aior) di Sabratha, ha annunciato la sconfitta della brigata Amu, capitanata da al-Dabashi e del 48mo battaglione, ritenuti responsabili dei viaggi illegali dalla Libia all’Italia. Crede che ora il problema sarà risolto o risolvibile con più facilità?
La questione dell’IS in Libia è marginale. Lo è sicuramente rispetto a un’instabilità che nasce dalla competizione tra gruppi di potere, tribali e milizie che si contendono i vantaggi economici di un paese la cui economia è da sempre basata sull’estrazione e sul commercio di idrocarburi. Quanto accade in Tripolitania occidentale è certamente importante e potrebbe avere conseguenze di ampio respiro sul ruolo dell’Italia nell’area, e anche per quanto riguarda la delicata e urgente questione delle masse di migranti illegali. Dobbiamo considerare l’eventualità, e non la certezza, che tale risultato, portato a segno dalle due milizie Ghorfat Amaliyet e Brigata Wadi, possa avvantaggiare il generale Khalifa Haftar, a capo della coalizione di Tobruch. Un vantaggio che, se dubbio sul piano politico ed operativo, lo è certamente su quello comunicativo; tanto per Haftar, che ipoteca una vittoria sul campo di battaglia, quanto per la milizia Amu di al-Dabashi, che così hanno la possibilità di accusare le Brigata Wadi come “amica” di Haftar. Insomma una guerra sul piano della comunicazione. Soddisfatto anche al-Sarraj, che ha saputo presentare il successo come un risultato del “Consiglio presidenziale del governo di intesa nazionale”. Anche in questo caso un successo sul piano comunicativo. Sul piano sostanziale è invece ancora presto per dire se ciò avrà riflessi positivi, in particolare per l’Italia che è impegnata a intessere reti e rapporti di collaborazione con gli attori in campo per il contenimento dei flussi di migranti attraverso l’area di Sabratha”.