di C. Alessandro Mauceri –
Sono passati quasi 13 anni dalla morte di Muammar Gheddafi e la Libia non sembra essere riuscita a trovare una alternativa al “colonnello”. Anzi, a dire il vero, sembra essere sempre di più sull’orlo del baratro.
Per comprendere cosa sta avvenendo oggi in Libia è necessario fare un passo indietro di qualche decennio. Almeno fino alla fine degli anni sessanta. Il 26 agosto 1969, Muammar Gheddafi, insieme ad un gruppo di ufficiali, assunse il controllo delle strade di Tripoli. In breve, si impadronirono dei palazzi del potere (pare anche grazie al sostegno di buona parte delle forze di sicurezza). A settembre dello stesso anno, il sovrano fuggì e venne proclamata la Repubblica Araba di Libia, con al comando dodici ufficiali dell’esercito. E tra questi Gheddafi.
La Libia non è un territorio facile da governare: è estremamente eterogeneo e la popolazione è composta da decine di gruppi spesso in conflitto tra loro. Anche per questo i primi anni del nuovo governo furono tutt’altro che facili. Anche azioni come adottare una nuova bandiera potrebbero sembrare superficiali ma non lo sono. Anzi, a ben guardare, furono frutto di una lungimiranza e di una capacità gestionale sorprendenti. I primi viaggi del nuovo leader libico Gheddafi furono in Egitto, paese con il quale la Libia aveva avuto diversi problemi. Sul fronte interno, Gheddafi definì il proprio programma basandosi sulla lotta al colonialismo, in particolare nei confronti dell’Italia: ad ottobre 1970, vennero espulsi gli italiani ancora residenti in Libia ed i loro beni confiscati. Una data che sarà chiamata a lungo la “giornata dell’odio contro gli italiani”. Ma l’azione di Gheddafi non fu diretta solo contro gli italiani: lo stesso anno anche americani e inglesi furono espulsi. Venne nazionalizzato il settore energetico (la Libia può vantare la presenza di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale). Tra i cavalli di battaglia dei primi anni di governo di Gheddafi (dopo la morte di Nasser) ci fu il processo di unificazione delle nazioni arabe. Gheddafi si rivolge sia ad est che a ovest (a questo servivano i viaggi in Egitto). Un processo nuovo che dovette fare i conti con una realtà caratterizzata dalla convivenza di molti gruppi troppo diversi e in conflitto tra loro.
Nel 1976 Gheddafi presentò il “libro verde”, nel quale riportava i punti di forza del suo programma di governo. La cosiddetta “terza via”, il “socialismo delle masse”, una percorso socio-economico alternativo sia al capitalismo occidentale che al comunismo sovietico. Nel 1977, proclamò la nascita della “Jamahiriya” libica, la “Repubblica delle masse”. Torna in mente la decisione di avere una nuova bandiera per la quale era stato scelto il verde: chiaro il riferimento al colore dell’Islam.
Cominciano a farsi notare le conseguenze di chiudere con i paesi occidentali: nel 1986, la marina statunitense effettua alcune esercitazioni all’interno del golfo della Sirte che il governo di Tripoli considera acque libiche (vexata questio mai risolta, almeno dalla Libia). Gheddafi la considera una provocazione ed intima alla marina statunitense di lasciare l’area. Vengono anche sparati alcuni colpi di mortaio contro i mezzi della marina USA che risponde attaccando due pattugliatori libici ed una postazione missilistica. Pochi mesi dopo, il 5 aprile 1986, esplode una bomba all’interno della discoteca LaBelle di Berlino Ovest, frequentata abitualmente da militari USA. Gli americani accusano la Libia di essere il mandante dell’attentato.
È l’inizio di un lungo periodo di accuse tra Reagan e Gheddafi. Il 15 aprile 1986 gli americani lanciano l’operazione “El Dorado Canyon”: vengono bombardate Tripoli, Bengasi ed altre importanti città libiche. Alcuni missili raggiungono anche la caserma di Bab al-Azizia, dove risiede Gheddafi. I missili uccidono la figlia adottiva di Gheddafi, Hanna. Per il rais è un colpo duro che mette in pericolo la sua autorità agli occhi degli altri paesi arabi. La Libia appare isolata dal resto del mondo. Stranamente, però, è in questo periodo che si riapre il dialogo con l’Italia: c’è chi sostiene che, durante i bombardamenti del 1986, Gheddafi si salvò grazie ad un avviso inviato dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Inizia un periodo strano: da un lato i due governi continuano ad attaccarsi reciprocamente con parole dure, dall’altro, fioriscono gli scambi commerciali. Dalla Libia arriva in Italia petrolio e soldi; dalla penisola italiana arrivano in Libia aiuti economici e diplomatici essenziali per far fronte alle sanzioni internazionali.
La situazione si fa sempre più difficile. Gli anni Novanta sono un periodo duro per la Libia. Eppure, nonostante tutte queste difficoltà, nonostante l’immagine di sovrano dispotico ed eccentrico che i media occidentali si ostinano a presentare, Gheddafi mostra innegabili abilità. Nel 1991 viene inaugurata la sua più grande opera, il “grande fiume artificiale”. Un acquedotto lungo migliaia di chilometri con una portata complessiva di milioni di metri cubi di acqua al giorno. Capace di trasportare acqua dal sottosuolo del deserto libico fino alle grandi città del paese è un’opera che lascia a bocca aperta. Specie se si pensa all’incapacità di molti paesi di gestire i problemi di siccità nonostante gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni. Grazie ai proventi del petrolio, Gheddafi non solo riesce ad attutire i colpi dell’embargo internazionale, ma a realizzare una serie di misure sociali (ad esempio, per lo sviluppo dell’istruzione). Anche sul fronte del terrorismo le sue misure sono in anticipo di qualche decennio rispetto al resto del mondo: alla fine degli anni Novanta, Gheddafi lancia una lotta senza quartiere contro gli estremisti islamici. Addirittura, nel 1996, emette un mandato di cattura nei confronti di Osama Bin Laden! Nel 2004, Gheddafi accetta di porre fine al suo programma di sviluppo di armi nucleari in cambio della fine dell’embargo. Una decisione importante.
Nel 2009 però Gheddafi commette un errore fatale. Nel suo primo (e ultimo) discorso al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, dove parla in qualità di presidente dell’Unione Africana, il leader libico si prende molto più dei 15 minuti previsti: il suo discorso di oltre un’ora e mezza attacca l’imperialismo delle potenze occidentali (le uniche parole di elogio sono nei confronti di Barack Obama), viene messo in discussione il ruolo dell’ONU, ma soprattutto viene proposta la creazione di un’Africa libera dallo sfruttamento colonialista dei paesi occidentali. Un’indipendenza che per Gheddafi comincia con la liberazione dalla schiavitù monetaria dal franco africano e dal dollaro mediante l’emissione di una nuova moneta africana.
Da quel momento l’atteggiamento dei paesi occidentali cambia radicalmente: il rais diventa il nemico pubblico numero uno. I governi occidentali rinunciano ad ogni forma di diplomazia e decidono di usare la forza per “liberare” la Libia e i suoi abitanti dal “dittatore”. A gennaio 2011 in diversi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente fecero la loro comparsa le “primavere arabe”: movimenti giovanili contro i regimi autoritari che governavano da molti anni, a volte da decenni. In Libia, paese che Gheddafi aveva governato per oltre quarant’anni, crebbe l’insofferenza nei confronti della corruzione e dell’autoritarismo del “dittatore”. L’evento scatenante fu l’arresto di Fathi Terbil, avvocato delle famiglie delle vittime del massacro avvenuto in una prigione libica nel 1996. I ribelli si organizzarono in Consiglio Nazionale di Transizione e chiesero l’intervento dell’ONU. A marzo, incuranti della “no fly zone” dalle Nazioni Unite, le forze aeree della Francia entrarono in Libia seguite da forze militari statunitensi e britanniche. La guerra civile dura poco: Gheddafi fu catturato (pare dalle milizie ribelli). È probabile che lungo il tragitto da Sirte a Misurata, sia stato picchiato: a mostrarlo un video che i media occidentali fecero girare frequentemente (un comportamento stranamente diverso da quello riservato, qualche anno dopo, a Osama Bin Laden, terrorista accusato di essere il mandante dell’attentato alle Torri gemelle, ma sepolto in mare in gran silenzio – anche mediatico – e quasi con gli onori militari). Nel video Gheddafi compare insanguinato, con lo sguardo confuso e circondato da decine di ribelli esultanti che sparano in aria. Un altro video lo mostra già morto.
Per la Libia è l’inizio del caos: senza un leader, viene meno l’unità che per quattro decenni era stata il punto di forza del paese. In breve si torna indietro di mezzo secolo a gruppi in conflitto tra loro. Emergono nuove forze indipendentiste e, grazie all’enorme quantità di armi a disposizione delle milizie, gli scontri armati per il controllo del territorio sono sempre più accesi.
Un problema che, a tredici anni di distanza, la diplomazia occidentale e le pressioni delle Nazioni Unite non sono riuscite a risolvere. Oggi, in Libia, la situazione è critica. Senza quello che Ronald Reagan definì “un cane rabbioso” (ma altri lo definirono “campione” del panafricanismo), la Libia è sull’orlo del baratro. Come ha notato la giornalista Vanessa Tomassini, che ha vissuto per molti anni in Libia: “Negli ultimi mesi la situazione in Libia ha visto un deterioramento abbastanza preoccupante, sia sul piano politico che militare. La Libia resta divisa tra due amministrazioni politiche e militari parallele. E lo scontro che, dal 2020, si era spostato da essere semplicemente sul piano politico, oggi è tornato a mietere vittime. Anche a Tripoli e nella Libia occidentale, il mese scorso, si sono registrati scontri tra gruppi armati. Allo stesso tempo, l’esercito orientale guidato dal generale Haftar ha mosso agli inizi di agosto le sue truppe verso la regione sud-occidentale della Libia, verso il confine con l’Algeria causando tensioni e la mobilitazione da parte dei gruppi armati occidentali. A questo si aggiunge la disputa all’interno dell’alto Consiglio di Stato – equiparabile al nostro Senato – sul soggetto che deve rivestire il ruolo di presidente. Le polemiche hanno riguardato l’elezione del nuovo presidente di questo organo, che ha una funzione consultiva, tra Khaled al-Meshri e Taqala (a causa di un voto, una scheda che non era stata compilata correttamente)”. Secondo la Tomassini, questo è bastato per “bloccare completamente i lavori all’interno del Consiglio e ha acceso una disputa tra i due protagonisti. Entrambi pretendono di essere il legittimo presidente”. Intanto, “il Governo di accordo nazionale guidato da Abdelhamid Dbeibah ha ordinato l’evacuazione dei parlamentari dalla sala del Consiglio organizzata in un famoso hotel della capitale”. Dall’altra parte c’è un “governo parallelo che suscita dubbi e perplessità riguardo la gestione dei fondi”.
Un caos (nel senso etimologico della parola) che non ha permesso a molti di raggiungere quello che, forse, era il vero obiettivo: assumere il controllo delle immense risorse minerarie del paese (soprattutto di gas e petrolio). Un patrimonio che aveva consentito al leader libico di controllare e gestire la Libia per decenni. Il cessate-il-fuoco che nel 2020 ha messo ufficialmente fine alla guerra civile è servito a poco e il generale Khalifa Haftar, che mantiene il controllo della parte est della Libia, è tornato a muovere le truppe verso ovest violando gli accordi del cessate il fuoco del 2020. Sul versante opposto, a Tripoli, il primo ministro Abdulhamid Dbeibah, che governa grazie all’aiuto di un Consiglio presidenziale di tre membri, non avrebbe rispettato gli impegni presi: nominato nel 2021 (anche grazie al sostegno dell’ONU) ha governato un esecutivo di transizione che avrebbe dovuto portare la Libia a libere e democratiche elezioni. Elezioni che dovevano tenersi entro la fine del 2021. Ma che sono state rimandate più volte fino al punto che oggi, in Libia, nessuno parla più di votazioni. Una situazione che è molto più complicata di quanto potrebbe sembrare: nel paese intanto sono comparsi un certo numero di soggetti che si propongono come “leader”, ciascuno con al proprio fianco milizie armate e tutti, senza esclusione alcuna, oggetto di pesanti pressioni dall’estero.
“È ovvio che la comunità internazionale è divisa, riflette lo stallo e la divisione all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare mi riferisco alla Russia, alla Cina, da una parte e agli Stati Uniti dall’altra”, ha dichiarato la Tomassini. “Allo stesso tempo vediamo che, per quanto ci si sforzi di adottare una politica univoca e un’azione unilaterale da parte dell’Unione europea anche gli stessi paesi che ne fanno parte faticano ad avere un approccio condiviso sulla questione che sicuramente da un lato indebolisce il posizionamento europeo e dall’altro si riflette in ulteriori tensioni sul territorio”. “Di recente si sono verificate anche delle uccisioni che sembrano essere delle vere proprie esecuzioni. Come nel caso di Bija Abdurakman al-Milad, ufficiale guardacoste della Marina Libica di Zauya che era stato a lungo in contatto con la Marina Italiana per il controllo dei flussi migratori, un fenomeno che sicuramente è in ascesa soprattutto alla luce dei grandi movimenti di persone dal Sudan che scappano dal conflitto. Basti pensare che, solo nel mese di luglio, sono arrivati in Libia oltre 30mila migranti. Lo stesso nel mese di agosto”. “Numeri – spiega la Tomassini – che richiederebbero un maggior controllo delle frontiere, ma il sindaco di al-Kufra, che è una municipalità nel Sud dove arrivano questi migranti, parla di arrivi di decine di migliaia di migranti. E tra loro, ovviamente, ci sono anche belligeranti in fuga, cosa questa che complica sicuramente una situazione già difficile dal punto di vista umanitario e sanitario in una Libia dilaniata da oltre dieci anni di conflitto civile”.
Tensioni e nuovi focolai di rivolta che hanno avuto un impatto non indifferente sulle estrazioni petrolifere. Recentemente anche El Feel, giacimento gestito da ENI che produceva circa 70 mila barili al giorno, è stato chiuso per decisione della Noc (National Oil Company), la compagnia petrolifera libica. Lo stesso giorno, le esportazioni di petrolio nei principali porti libici sono state interrotte.
Tutto questo “ancora una volta, riapre lo scenario di una guerra per il controllo delle risorse”, ha detto la Tomassini. Come spesso accade in questi casi, crisi umanitarie e interessi economici sono legati a filo doppio. Ne è prova il ruolo fondamentale giocato dalla Banca centrale libica: per molti anni è stata una delle poche istituzioni ad andare d’accordo con tutti. Se fino a qualche mese fa (anche grazie alla spartizione dei proventi del petrolio tra le fazioni) la situazione appariva più o meno stabile, ora non è più così. Punto centrale dell’accordo la Banca centrale libica. Anche qui “non è stato mai raggiunto un Consiglio direttivo unificato” e “un nuovo governatore che non si è mai insediato ma ha di fatto costretto al-Sadiq al-Kabir a lasciare Tripoli e a volare in Turchia” ha detto la Tomassini. A novembre 2023, mentre si trovava in Turchia, il governatore della Banca centrale libica è rimasto coinvolto in un incidente stradale. Alcune fonti hanno parlato di un attentato. Vero o no, nello stesso periodo la Banca centrale libica ha cominciato a bloccare i trasferimenti di denaro verso l’amministrazione di Dbeibah: dapprima gradualmente, poi in maniera sempre più decisa. In questo modo, Kabir ha di fatto rotto la propria alleanza con Dbeibah e si è avvicinato sempre di più al governo della Libia orientale. Rilevanti le conseguenze: dall’inizio del 2024, l’amministrazione di Dbeibah soffre di una grave carenza di fondi. La banca centrale ha smentito di aver deciso di mettersi dalla parte di uno solo dei due contendenti, ma la realtà è che, grazie ai fondi ricevuti, Haftar ha avviato una serie di importanti lavori di ammodernamento della città. Questo gli ha permesso di presentarsi come il nuovo centro di potere libico. Intanto, in barba alle dichiarazioni diplomatiche, dopo che un suo funzionario era stato rapito, la Banca centrale ha annunciato la sospensione di tutte le operazioni, paralizzando l’intero sistema bancario libico. Anche dopo il rilascio del funzionario la situazione non è migliorata. Il governo di Dbeibah ha emesso un decreto per deporre Kabir che si è rifugiato in Turchia da dove, lo scorso 26 agosto, ha rilasciato dichiarazioni pesanti nei confronti del governo di Tunisi e ha ribadito che la Banca centrale libica non risponde più alle autorità di Tripoli, ma a quelle di Bengasi. Questo ha scatenato reazioni prevedibili: da settimane varie milizie che rispondono a diversi interessi si sono appostate fuori dalla banca centrale. Il rischio è che la situazione possa generare nuovi scontri armati. All’inizio di agosto, l’esercito di Haftar ha occupato un importante giacimento di petrolio e le truppe hanno cominciato a muoversi sempre più verso ovest, violando il cessate-il-fuoco del 2020.
Tutto questo dimostra che, a distanza di 13 anni dall’uccisione di Gheddafi, in Libia non si è stati capaci di organizzare un governo stabile. E questo nonostante le pressioni esercitate da forti interessi internazionali. Di fatto la Libia sembra tornata indietro di diversi decenni.
Quanto durerà tutto questo? Almeno fino a quando non comparirà un nuovo leader in grado di far riconoscere la propria autorità non solo alle fazioni interne ma anche ai paesi che da decenni mostrano il loro interesse per il petrolio libico. Un nuovo “rais” che dovrà essere accettato anche dai centri del potere occidentali. Ma che dovrà evitare di parlare di indipendenza africana o della voglia di coniare una moneta unica per i paesi africani diversa dal dollaro e dal franco africano (ma anche dal rublo e dallo yuan cinese).
Nel 2016, alla domanda dell’emittente Fox News che chiedeva chiese all’allora presidente degli Stati Uniti quale fosse stato, secondo lui, il suo errore più grande, Barack Obama rispose: “Probabilmente aver fallito nel pianificare l’indomani di quello che pensavo fosse la cosa giusta da fare, intervenire in Libia”. Chi pensava che sarebbe bastato uccidere Gheddafi per accaparrarsi le risorse libiche ha commesso un grosso sbaglio.