di Giuseppe Gagliano –
Vladimir Putin non ha perso tempo. Il 2 marzo, con un messaggio tanto rapido quanto prevedibile, si è congratulato con Badra Gunba, fresco vincitore delle elezioni presidenziali in Abkhazia, quella striscia di terra sul Mar Nero che si proclama indipendente dalla Georgia dal 1992, ma che per il mondo, tranne Mosca e pochi altri, resta parte di Tbilisi. Gunba ha portato a casa il 54,73% dei voti, lasciando il rivale Adgur Ardzinba al 41,54%, in un’elezione che ha visto cinque contendenti sfidarsi per la guida di questa repubblica separatista. “Una vittoria che conferma il sostegno popolare alla tua linea di stabilità e sviluppo”, ha scritto Putin, con quel tono che mescola cortesia formale e un pizzico di compiacimento. Tradotto: la Russia ha il suo uomo al posto giusto.
Non che ci fossero dubbi. L’Abkhazia, come l’Ossezia del Sud, è un tassello della strategia del Cremlino nel Caucaso dal 2008 quando Mosca, dopo aver umiliato la Georgia in una guerra lampo, ne riconobbe l’indipendenza. Da allora, basi militari russe punteggiano il territorio, i rubli sostengono l’economia locale e ogni mossa politica sembra passare al vaglio del grande vicino. Gunba, etichettato dai media occidentali come “filo-russo”, non fa eccezione. Eppure il neo-presidente ha provato a smorzare i toni, dichiarando ieri di voler coinvolgere l’opposizione nel suo governo per “unire gli sforzi” e rafforzare lo Stato. Un’apertura che sa più di pragmatismo che di svolta democratica.
Le elezioni però non sono state una passeggiata. Il primo marzo a Tsandrypsh un gruppo di uomini armati e mascherati ha fatto irruzione in un seggio, minacciando i membri della commissione elettorale. Ne è nata una sparatoria, con due feriti e un’indagine penale aperta. Il comitato elettorale ha minimizzato, assicurando che tutto era sotto controllo, ma l’episodio è un promemoria: in Abkhazia la politica si gioca anche con il piombo. Freedom House, l’ONG americana che monitora la democrazia nel mondo, non usa giri di parole: il sistema legale abkhazo non garantisce elezioni davvero libere, anche se i potenti di turno possono ancora perdere, come dimostra l’addio dell’ex leader Aslan Bzhania. Dimessosi a novembre 2024 per placare le proteste contro un accordo con Mosca, quello che apriva ai russi il mercato immobiliare locale, poi ritirato sotto pressione, Bzhania è l’ennesima vittima di un equilibrio fragile, sospeso tra ambizioni locali e diktat stranieri.
Il Cremlino dal canto suo osserva e benedice. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, aveva già messo le mani avanti il 18 febbraio: “Vogliamo stabilità in Abkhazia, un Paese a noi vicino, legato da una forte cooperazione”. Parole che suonano come una garanzia: qualunque sia l’esito delle urne, Mosca resta il regista occulto. E mentre Tbilisi guarda impotente, il resto del mondo continua a considerare l’Abkhazia una regione ribelle sotto il tallone russo, un avamposto strategico che serve a tenere la Georgia in scacco e a ricordarle che il Caucaso è ancora un cortile di casa per il Cremlino.
Gunba ora ha davanti una sfida doppia: governare un’entità che esiste solo grazie al sostegno di Mosca, ma che deve anche fare i conti con un’identità propria, schiacciata tra indipendenza formale e dipendenza reale. Putin, nel suo messaggio, ha già tracciato la rotta: rafforzare i legami “fraterni” tra Russia e Abkhazia. Sullo sfondo, però, resta una domanda che aleggia senza risposta: fino a quando questa piccola repubblica potrà reggere il peso di un gioco così grande?