Afghanistan. Destinato a traballare l’accordo di Doha

di Dario Rivolta * –

Lo scorso 29 febbraio a Doha, in Qatar, gli Stati Uniti e i talebani afghani hanno firmato un accordo di pace che salvo imprevisti o malafede da una delle due parti dovrebbe teoricamente mirare alla pace nel martoriato Paese. La guerra afghana cominciò nell’ottobre 2001 e fino a oggi è costata agli USA 2300 militari morti e circa 20mila feriti. Il costo economico per il contribuente americano si avvicina ai mille miliardi di dollari. Se questo accordo, qualora dovesse funzionare, rappresenti una soluzione ottimale vittoriosa per gli Stati Uniti oppure certifichi una sconfitta sul campo lo si vedrà nei prossimi mesi.
Per il momento, paragonando i risultati raggiunti con il motivo per cui più di 100mila soldati americani sono stati impiegati in una zona del mondo così lontana e senza alcuna valenza strategica, la risposta rimane dubbia. Quando i sovietici invasero l’Afghanistan i loro chiari obbiettivi erano quelli di assicurarsi un governo amico in uno Stato confinante e costituire, a Guerra Fredda in corso, un loro ulteriore avamposto nella spartizione del mondo. Sappiamo come finì: dopo numerose perdite e dieci anni di guerriglia l’Armata Rossa nel 1989 abbandonò il campo lasciando un governo che resistette soltanto fino al 1992. Anche dopo che i sovietici se ne furono andati, la guerriglia continuò assumendo tutti i caratteri di una guerra civile proseguita fino al 1995 con la definitiva vittoria dei talebani.
Washington aveva deciso l’intervento in Afghanistan subito dopo l’attacco del settembre 2001 alle Torri Gemelle. C’erano consistenti motivi per ritenere che gli attentati fossero stati organizzati dal gruppo di fanatici islamisti guidati da Osama Bin Laden, ospitati ed addestrati proprio in quel Paese. Si trattava dello stesso gruppo di guerriglieri motivati religiosamente che erano stati armati e finanziati proprio dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita in funzione antisovietica durante la presenza delle truppe di Mosca.

(Foto: militaryaerospace.com).
È utile ricordare che tra il 1990 e il 2001 ben 400mila afgani morirono vittime di guerre interne. Già prima, nel periodo tra l’arrivo dell’Armata Rossa e la sua partenza, i morti afgani furono stimati essere tra i 600mila e i due milioni e circa 6 milioni di persone lasciarono il Paese rifugiandosi principalmente in Pakistan ed in Iran.
Per capire l’Afghanistan di oggi ed immaginarsi come potrebbe essere la situazione nel Paese dopo la partenza dell’ultimo soldato americano, è bene ricordare che le guerre civili sono state una costante nella sua storia e che lungi dall’essere un Paese omogeneo, i gruppi etnici, raggruppati a loro volta in tribù, sono numerosi e diversi tra loro. La maggioranza, circa il 38% del totale, è costituita dai Pashtun. Il secondo gruppo sono i Tagiki che sono all’incirca il 27% della popolazione. Seguono gli Azari (11%), gli Uzbeki (9%) e, con percentuali ancora minori altri gruppi. Anche le lingue ufficiali sono due: il Pashto e il Dari, e quest’ultimo, molto simile al Farsi dell’Iran, funge anche da lingua franca in tutto il Paese.
Quando le prime truppe americane arrivarono furono accolte positivamente dalla maggior parte della popolazione. La rigida disciplina religiosa imposta dai talebani era giudicata insopportabile dalla maggior parte degli afgani nonostante, così come nel vicino Pakistan, l’adesione alla fede di Maometto fosse molto diffusa e sentita. In poco tempo, l’esercito americano e i suoi alleati riuscirono a impadronirsi della maggior parte del Paese obbligando al Qaeda e i talebani a rifugiarsi sulle montagne o a fuggire nel vicino Pakistan. Per quattro anni e cioè fino al 2005 sembrò che un sistema democratico potesse essere istaurato e che anche le azioni di guerriglia fossero destinate ad essere eliminate definitivamente. Con il coinvolgimento e l’appoggio dei maggiori capi tribù si tennero regolari elezioni e nel 2004 fu approvata una nuova Costituzione.
I talebani però, seppur ridotti nel numero e costretti alla latitanza, non erano stati del tutto sconfitti. Approfittando del fatto che l’etnia Pashtun era presente sia in territorio afgano che nelle zone confinanti del Pakistan, riuscirono a creare una specie di zona franca a cavallo del confine e cominciarono un’opera di reclutamento tra le tribù della zona. Il governo pakistano in compenso cominciò un doppio gioco che continua tuttora. Da un lato appoggiarono gli americani e dall’altro finsero di non vedere i continui sconfinamenti di guerriglieri tra il loro territorio e le confinanti regioni afgane. A proposito dell’ambivalenza dei sentimenti presente negli alti vertici pakistani, ricordo un colloquio con l’ambasciatore pakistano in Italia pochi giorni dopo l’11 settembre. In quell’occasione e con un sorriso non celato, volle ricordarmi che quella data era la stessa del colpo di Stato in Cile, a suo dire voluto proprio dagli americani. In altre parole intendeva richiamare il vecchio detto “Chi la fa, l’aspetti”.
Un anno dopo l’inizio dell’intervento a Kabul, nel 2002 i militari americani rimasti nel Paese erano soltanto 8mila ma, con l’intento di combattere una guerriglia che nelle zone ad est continuava ad essere sempre più aggressiva, tornarono in forze contando alla fine del 2005 già 20mila soldati e nel 2010 ben 100mila. L’incremento del numero di soldati americani e NATO fu spiegato con il fatto che, lungi dallo scomparire, i talebani diventavano sempre più forti aggregando a sé una tribù dopo l’altra e arrivando a rioccupare grandi regioni del territorio. La guerra si faceva dunque lunga ed i costi per Washington furono in costante crescita arrivando a toccare i 110 miliardi di dollari all’anno. Davanti all’insostenibilità della spesa e alla crescente impopolarità nell’elettorato americano verso quella guerra, l’allora presidente Obama cominciò a pensare al ritiro. Si decise che il compito di polizia e di riconquista del territorio dovesse essere lasciato poco per volta alle truppe afgane che nel frattempo sarebbero state addestrate.

Dario Rivolta.
Vennero però a galla tre grandi problemi: il drastico diminuire del consenso popolare degli afgani verso il loro stesso governo, l’astio contro un esercito, quello americano, vissuto ogni giorno di più come “invasore” e le frequenti diserzioni dei soldati afgani ogni volta che si trovavano a scontrarsi con i guerriglieri.
Il motivo della progressiva delegittimazione del governo di Kabul stava sia nel suo percepito condizionamento da parte degli USA, sia nell’enorme e crescente corruzione a tutti i livelli delle locali istituzioni ufficiali. Per quanto riguarda i sentimenti verso gli americani, la popolazione (esattamente come stava succedendo in Iraq) li aveva dapprima considerati come “liberatori” e poi aveva cominciato a soffrire delle loro prepotenze e della loro totale incapacità a sentire una qualche empatia con una cultura diversa. Per di più i militari a stelle e strisce non riuscirono mai a legare con la popolazione locale e commettevano continuamente errori di comportamento nei confronti di secolari tradizioni e indigene abitudini di vita.
Il grande filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, commentando l’invasione della Spagna, ricordava che pur avendo Napoleone vinto militarmente, non riuscì ad esercitarvi il comando neppure per un giorno, “e questo perché ricorreva soltanto alla forza”. “Conviene distinguere – scriveva – tra un fatto o processo di aggressione e una situazione di comando… il quale si fonda sempre sull’opinione pubblica” (La Ribellione delle masse. Il Mulino-Bologna). In realtà l’incapacità USA di capire i profondi sentimenti popolari e la non volontà di accettare la strutturata gerarchia secolare delle tribù spinse queste ultime ad allontanarsi sempre di più da una possibile collaborazione con il governo ufficiale e con le truppe straniere. Ne seppero approfittare i talebani, che da passati oppressori venivano ora identificati come “nuovi liberatori da un numero via via crescente di afgani.
Già nel dicembre 2001 l’allora presidente Hamid Karzai aveva cercato di negoziare una qualche forma di pace con i guerriglieri ma chi si oppose in quel momento fu il segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld. I talebani proponevano di cessare ogni ostilità in cambio di un loro coinvolgimento al governo e sembravano anche disponibili ad accettare le basilari regole della democrazia. L’amministrazione Bush impedì allora un accordo e così fece anche nei successivi tentativi di Karzai nel 2002 e nel 2004. All’epoca a Washington, abbacinati dalla iniziale facile vittoria, erano ancora convinti di poter sconfiggere definitivamente i guerriglieri anche contando sull’apparente consenso suscitato nella popolazione. Quell’attesa, lo vediamo a distanza di 19 anni, fu un’illusione.
L’accordo raggiunto lo scorso febbraio prevede che i talebani possano essere associati alla gestione del Paese ma che mai consentiranno a nessun gruppo terrorista di reinstallarsi in territorio afgano. Più precisamente è stato scritto che, chiunque fosse al governo a Kabul, si impedirà che gruppi o individui possono costituire ancora una qualunque minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati. In cambio le truppe americane saranno ritirate totalmente entro 14 mesi e un terzo se ne andrà entro i prossimi quattro mesi. Nel frattempo tra il governo in carica a Kabul e i talebani avverrà uno scambio di prigionieri.
Tutti si augurano che l’accordo di Doha, che dovrebbe essere anche suggellato dall’ONU, possa essere rispettato ma tutto gioca contro questa ipotesi.
Innanzitutto il governo di Kabul non ha formalmente partecipato al negoziato perché i talebani vi si sono opposti. A proposito del governo occorre sottolineare che ad oggi non è chiaro quale sia o sarà, nemmeno nell’immediato, il vero governo afgano. Circa sei mesi fa si sono tenute le elezioni per la carica di presidente e cioè per la posizione che, secondo costituzione, rappresenta la vera forza politica. Il risultato ufficiale lo si è conosciuto solamente pochi giorni fa a causa dei numerosi riconteggi delle schede dovuti alle contestazioni delle due parti. Seppur di pochissimi voti, avrebbe vinto l’uscente presidente Ghani ma il suo antagonista, l’ex ministro degli esteri di Karzaj, Abdullah Abdullah non è d’accordo e si è anch’egli autoproclamato presidente.
Nell’accordo inoltre esistono due clausole “segrete” che non saranno presentate neanche all’ONU stessa (che dovrebbe quindi avallare qualcosa che non conosce totalmente).
Un terzo problema è che anche nel campo talebano le cose non sono semplici. Seppur coalizzati tra loro contro gli americani e le autorità di Kabul, i vari capi tribù non sono in sintonia fra di loro e non tutti hanno partecipato agli incontri di Doha. Di conseguenza alcuni ancora si oppongono agli accordi raggiunti e non è chiaro chi prevarrà.
Per finire, due punti sono ancora in sospeso perché non chiariti nell’accordo sottoscritto: uno riguarda la liberazione dei rispettivi prigionieri, il loro numero e la loro identità. Kabul non è d’accordo ad un rilascio generalizzato mentre i talebani pretenderebbero che fossero liberati tutti. Ulteriori negoziazioni su questo punto avrebbero dovuto essere intavolate durante il mese di marzo e una delegazione talebana arrivò effettivamente a Kabul. Tuttavia il sopraggiungere della pandemia di coronavirus ha reso complicati gli incontri tra le due delegazioni. Come non bastasse, lo scorso martedì 7 aprile, il portavoce dell’Ufficio Politico Talebano a Doha ha dichiarato che la discussione con il governo di Kabul in merito alla liberazione dei prigionieri è oramai da considerarsi “fruitless” mancando ogni possibile intesa sui numeri e sui rispettivi tempi del rilascio.
Anche a Washington qualcuno ha cominciato a sollevare dubbi sulla reale volontà talebana di rispettare i patti. Si osserva che non è affatto chiaro, perché non precisato, cosa si intenda dalle due parti per “gruppi e individui” terroristi. Infatti è noto che a livello internazionale non ci sia alcun accordo su chi possa essere considerato tale poiché le valutazioni americane su alcuni organizzazioni non sono condivise da altri. Un esempio è il gruppo libanese Hezbollah che è nella lista americana dei terroristi ma non rientra nell’elenco di altri.
Anche qualora sia possibile perfezionare l’accordo sottoscritto e tutte le parti firmatarie ne accettino le conseguenze, resta la domanda su cosa succederà veramente in Afghanistan una volta che le truppe americane lascino il Paese. Nella pura tradizione afgana non ci sarebbe da stupirsi se dovesse ricominciare una nuova guerra civile. Sia quando se ne andarono i sovietici, sia quando lo fecero gli americani dal Vietnam, il governo lasciato con tante promesse riuscì a resistere per poco tempo e fu soppiantato nel primo caso proprio dai talebani e, nel secondo, dall’esercito vittorioso di Hanoi. In altre parole, se il ritiro delle truppe americane avverrà come previsto a Washington tireranno un sospiro di sollievo ma, ben lungi dal poter considerare quella partenza come una vittoria, è probabile che la storia deciderà di catalogarla come una nuova sconfitta.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.