di Giuseppe Gagliano –
Il cessate-il-fuoco di 48 ore raggiunto tra Pakistan e Afghanistan il 15 ottobre rappresenta molto più di una pausa tattica. È il riflesso di un equilibrio di forze precario lungo una frontiera storicamente instabile e contesa. La decisione è arrivata dopo attacchi aerei, scontri di terra e accuse reciproche di aggressione, in un clima che rischia di degenerare rapidamente. Mentre Islamabad parla di operazioni contro brigate talebane, Kabul denuncia bombardamenti su aree residenziali e vittime civili. La tregua, chiesta dalla parte afghana ma giustificata da Islamabad come necessaria per evitare un’escalation, appare più come un’interruzione temporanea di un conflitto strisciante che come una soluzione duratura.
Lo scontro nella zona di Spin Boldak e Chaman mostra ancora una volta quanto la frontiera afghano-pakistana resti una linea di frizione. Il confine non è solo un problema geografico, ma politico, storico e strategico. Islamabad accusa i talebani di ospitare militanti che colpiscono il territorio pakistano; Kabul respinge le accuse e rilancia, accusando Islamabad di destabilizzare la regione e coprire gruppi legati all’ISIS. Queste reciproche narrazioni alimentano un circolo vizioso di ostilità, in cui ogni incidente rischia di trasformarsi in detonatore di conflitti più ampi.
La chiusura dei valichi commerciali dopo gli scontri ha avuto un impatto immediato: il Pakistan è la principale fonte di cibo e beni essenziali per l’Afghanistan, un Paese già duramente colpito dalla crisi economica e dall’isolamento internazionale. Decine di camion merci bloccati ai valichi raccontano la fragilità di una dipendenza economica che potrebbe diventare strumento di pressione politica. La crisi non è solo militare ma geoeconomica: una tensione prolungata minaccerebbe l’intero sistema di approvvigionamento dell’Afghanistan, con ripercussioni umanitarie e regionali.
La crisi esplode in un momento in cui gli equilibri dell’Asia meridionale stanno cambiando. La visita a Nuova Delhi del ministro degli Esteri talebano, Amir Khan Muttaqi, e la decisione indiana di riaprire la propria ambasciata a Kabul aggiungono un ulteriore livello strategico alla crisi. L’India, storico rivale del Pakistan, rafforza i contatti con l’Afghanistan, creando nuove linee di influenza che rischiano di complicare ulteriormente la posizione di Islamabad. La presenza indiana in Afghanistan è vista da Islamabad come una minaccia diretta al proprio fianco occidentale.
La crisi non è passata inosservata a livello globale. La Cina ha chiesto protezione per i suoi cittadini e i suoi investimenti nella regione, preoccupata per la sicurezza dei corridoi economici legati alla Belt and Road Initiative. La Russia ha invitato alla moderazione, consapevole dell’importanza strategica della regione per i propri equilibri eurasiatici. Il presidente Donald Trump si è offerto di mediare, un gesto che conferma quanto la crisi afghano-pakistana abbia un’eco ben oltre i confini regionali.
Dalla caduta di Kabul nel 2021, la relazione tra i Talebani e il Pakistan è passata dalla cooperazione alla diffidenza crescente. I Talebani, una volta sostenuti da Islamabad, oggi rivendicano una piena autonomia, mentre il Pakistan li accusa di alimentare il terrorismo transfrontaliero. Questo deterioramento dei rapporti avviene in un contesto globale in cui le tensioni regionali si intrecciano con le rivalità tra grandi potenze. La crisi tra Islamabad e Kabul non è dunque un episodio isolato, ma parte di una partita strategica più ampia che coinvolge India, Cina, Russia e Stati Uniti.
Il cessate-il-fuoco di 48 ore è poco più di un cerotto su una ferita aperta. Se non seguiranno negoziati strutturati e garanzie reciproche, la crisi rischia di riaccendersi rapidamente. Islamabad e Kabul si muovono su un crinale sottile, tra rivalità storiche, interessi economici e pressioni esterne. La stabilità della regione passa anche da questo confine: una miccia che, se accesa, può far deflagrare equilibri già precari.












