di Giuseppe Gagliano –
In un contesto segnato da ferite ancora aperte, accuse reciproche e un’opinione pubblica disillusa, l’Albania si avvicina alle elezioni parlamentari dell’11 maggio 2025. Il paese delle aquile si trova stretto tra il desiderio dichiarato di integrazione europea e la realtà di una politica appesantita da scandali, vendette giudiziarie e l’ombra persistente di un’autorità più formale che democratica.
Edi Rama, primo ministro dal 2013 e leader del Partito Socialista, si presenta come l’uomo dell’Europa. Il suo obiettivo è chiaro: chiudere i negoziati d’adesione entro il 2027 ed entrare nell’Unione Europea entro il 2030. Il messaggio è ben confezionato per Bruxelles, meno per i cittadini albanesi, che in questi anni hanno visto le promesse di riforme spesso affogare nei soliti vizi: clientelismo, centralismo e un uso spregiudicato del potere giudiziario.
Le inchieste per corruzione che hanno colpito sindaci, funzionari e perfino ministri del PS non hanno mai lambito Rama direttamente, ma l’impressione è che il sistema si regga su equilibri opachi. La repressione selettiva dell’avversario politico alimenta il sospetto di una giustizia piegata al potere. Così, se l’Europa è la meta ufficiale, la realtà interna racconta altro: un paese in cui la distanza tra potere e popolo si allarga.
Dall’altra parte della barricata, l’opposizione non brilla per trasparenza. L’Alleanza per una Grande Albania, coalizione eterogenea di 24 partiti guidata dal Partito Democratico di Sali Berisha, si presenta come il baluardo del patriottismo e dei valori conservatori. Ma anche qui, i protagonisti portano cicatrici profonde.
Berisha è sotto sanzioni statunitensi per “atti gravi di corruzione” ed è appena uscito dagli arresti domiciliari. Il suo alleato, Ilir Meta, già presidente della Repubblica, è stato arrestato per corruzione e riciclaggio. Due simboli di un’opposizione che fatica a rinnovarsi, e che cerca di trasformare la sua emarginazione giudiziaria in un’arma politica, accusando Rama di aver trasformato lo Stato in un apparato di repressione personale.
Sul fronte della società civile emergono figure come Adriatik Lapaj, leader del movimento Shqipëria Bëhet (“L’Albania si fa”). Lontano dagli apparati storici, Lapaj parla un linguaggio nuovo: liste aperte, referendum, voto alla diaspora, de-politicizzazione della burocrazia. Il suo movimento intercetta il disagio di una popolazione giovane e mobile, spesso emigrata, che non si riconosce nei vecchi equilibri.
Eppure, le barriere sono alte: finanziamenti esigui, accesso diseguale ai media, e un sistema elettorale che ancora premia i partiti strutturati. Anche il centrodestra conservatore di Dashamir Shehi, con la sua coalizione Djathtas për Zhvillim, fatica a imporsi in un panorama dominato dalla contrapposizione tra Rama e Berisha, tra socialismo e nazionalismo.
In questo clima, il sistema giudiziario assume un ruolo controverso. Gli arresti eccellenti sono letti da alcuni come segno di rinnovamento, da altri come vendette mascherate. L’Europa applaude i “progressi nella lotta alla corruzione”, ma la percezione interna è più amara: giustizia a orologeria, selettiva e strumentale.
La vera novità di queste elezioni potrebbe venire dall’esterno. Per la prima volta, i cittadini albanesi residenti all’estero potranno votare. E saranno proprio loro, fuggiti da un paese che offriva poco e chiedeva molto, a poter decidere se l’Albania del 2025 è pronta a voltare pagina o se continuerà a scrivere sempre lo stesso capitolo.