Allevamenti intensivi e Co2

di C. Alessandro Mauceri

Nonostante le promesse e gli impegni dei governi volte a ridurre le emissioni di CO2, i valori a livello globale continuano ad aumentare. Le misure introdotte appaiono insufficienti o inadeguate. Come imporre l’utilizzo di auto elettriche, ben sapendo che spesso l’energia utilizzata è prodotta con combustibili fossili. Per ottenere qualche risultato è necessario intervenire su altro. Anche a costo di cambiare il proprio stile di vita.
Una parte consistente delle emissioni di CO2 deriva dall’agricoltura e soprattutto dagli allevamenti.
Cibo e crisi climatica sono legati a filo doppio. A livello globale i sistemi alimentari sono responsabili di più di un terzo delle emissioni di gas a effetto serra (GHG), soprattutto a causa del consumo di carni rosse, ma il loro impatto è molto maggiore. La produzione sempre più industrializzata di carni mira a ridurre al massimo i costi e aumentare i profitti, con conseguenze impressionanti. Nei Paesi più sviluppati, e maggiori responsabili delle emissioni di CO2, si mangia troppa carne. Un americano medio mangia circa 57 libbre (quasi 26 chilogrammi) di carne bovina in un anno: quasi il doppio della media degli altri Paesi ad alto reddito e molto molto di più rispetto ai Paesi poveri. Secondo alcuni la carne di manzo è stata per lungo tempo l’alimento simbolo dell’America. E nessuno vuole rinunciarvi. Negli Stati Uniti d’America l’agricoltura contribuisce al PIL per meno del 1%, ma è responsabile del’11% delle emissioni di gas serra del Paese. Per nutrire il bestiame è necessaria un’enorme quantità di cibo: circa il 55% dei cereali coltivati negli Stati Uniti è destinato agli allevamenti di mucche e di altri animali. Per allevare bestiame servono terreni enormi, che, se utilizzati diversamente, potrebbe assorbire più CO2: esemplare il caso del Brasile dove si continuano ad abbattere grandi porzioni della foresta amazzonica per ricavare terreni da destinare al pascolo. Inoltre, i ruminanti espellono metano, gas serra con effetti ancora peggiori rispetto alla CO2. I rifiuti animali e il deflusso dei fertilizzanti, inoltre, inquinano i fiumi e le riserve di acqua potabile.
Parte della produzione agricola è destinata anche alla produzione di combustibili per il trasporto. In attesa dell’entrata in vigore della limitazione all’uso delle auto elettriche (Biden ha stanziato oltre 15 miliardi di dollari per favorire la transizione all’elettrico e la messa al bando delle auto “tradizionali” entro il 2035), il governo americano sta promuovendo l’uso di etanolo mescolato alla benzina. Ma l’etanolo ricavato dal mais può avere un impatto sull’ambiente superiore a quello dell’alimentazione di persone o animali.
Anche la trasformazione industriale dei prodotti dell’agricoltura ha conseguenze notevoli sull’ambiente. Per ottenere rendimenti sempre maggiori spesso gli agricoltori utilizzano fertilizzanti e pesticidi. Il ricorso all’agricoltura intensiva inoltre impoverisce il suolo e lo rende incapace di resistere a siccità e tempeste.
Ma il problema maggiore, forse, è quello legato alla “dimensione” delle aziende. Negli USA e in altri Paesi. Oggi il sistema alimentare è controllato da una manciata di gigantesche multinazionali. Negli USA l’85% del mercato della carne è controllato da solo quattro aziende. A livello globale a dominare il mercato degli allevamenti sono cinesi e australiani. La fattoria più grande del mondo in termini di superficie si trova a Heilongjiang, in Cina: 9 milioni di ettari e circa 100.000 bovini (50 volte più della più grande azienda simile in Europa). Anche la seconda fattoria più grande del mondo è cinese: si trova ad Anhui e dispone di oltre 4 milioni di ettari e 40.000 mucche. Dalla Cina al South Australia, dove la terza azienda più grande del pianeta copre un’area di 6 milioni di ettari la maggior parte dei quali destinati all’allevamento di bovini, circa 17.000. Anche la quarta azienda si trova in Australia: creata alla fine del XIX secolo, occupa circa 1,7 milioni di ettari.
In Europa non mancano enormi allevamenti intensivi. Secondo uno studio di Greenpeace almeno il 71% dei terreni agricoli dell’UE è utilizzato per il bestiame, il 63% delle terre arabili è coltivato per produrre il mangime per gli animali e il resto è dedicato a pascolo e ad aree per gli stabilimenti. Le aziende che producono carne e latticini sono vicine a raggiungere il primato tra le cause del cambiamento climatico. In Italia, a raggiungere dimensioni impressionanti sono soprattutto gli allevamenti avicoli. Secondo l’associazione Ciwf Italia Onlus, sarebbero circa 500 milioni i polli allevati in Italia, ogni anno. E, in barba alle promesse e alle pubblicità sbattute in televisione, per il 95% si tratta di allevamenti intensivi. Milioni di polli stipati in edifici con cicli di crescita forzati e problemi di salute degli animali che impongono l’uso di medicinali. A favorire questo mercato la crescente domanda di carni a costi sempre più bassi. La maggior parte degli allevamenti intensivi di pollame si trova in Veneto (uno su tre). Ma anche nelle Marche ormai si parla di “pollificazione”: dal 1970 la consistenza media degli allevamenti di polli in questa regione è quadruplicata. A Monte Roberto, un piccolo Paese in provincia di Ancona, per circa 3 mila abitanti, ci sono oltre 2 milioni e mezzo di volatili allevati ogni anno.
E anche in Italia, come in altre parti del mondo, nessuno parla dell’impatto sull’ambiente che hanno questi allevamenti intensivi. Si preferisce parlare di auto elettriche.