Armenia. Esercitazioni congiunte con l’Iran

di Giuseppe Gagliano –

Due giorni di esercitazioni militari congiunte, svolte lungo un confine fragile e conteso, bastano a smuovere gli equilibri dell’intero Caucaso. Armenia e Iran, attraverso la manovra battezzata con un nome emblematico, “Pace”, hanno messo in scena molto più di una semplice cooperazione difensiva: un messaggio strategico indirizzato tanto a Baku quanto a Tel Aviv e Ankara, ma anche a Mosca e Bruxelles. Un nuovo tassello nella geografia fluida e infiammabile del post-conflitto del Nagorno-Karabakh.
L’area scelta per l’esercitazione — tra Iran, Armenia e l’exclave azera del Nakhchivan — non è casuale. È lì che si concentra una delle partite più delicate del dopoguerra caucasico: la possibile apertura del cosiddetto corridoio di Zangezur, che collegherebbe fisicamente l’Azerbaigian al Nakhchivan, bypassando il territorio iraniano e agganciandosi direttamente alla Turchia. Un progetto che piace a Baku e Ankara, ma che per Teheran rappresenta una minaccia esistenziale: l’esclusione dai transiti est-ovest e, soprattutto, la destabilizzazione delle sue province settentrionali, dove vivono milioni di cittadini iraniani di etnia azera.
L’Iran teme, da sempre, l’irredentismo interno. E un Azerbaigian arricchito e galvanizzato dalle sue vittorie militari rischia di diventare un magnete identitario per quella parte della popolazione iraniana che non ha mai smesso di guardare a Baku come a una patria mancata. Dietro la solidarietà con l’Armenia, dunque, c’è molto di più: la difesa della continuità territoriale iraniana, la preservazione dell’equilibrio interno e l’opposizione a un asse turco-azero-israeliano sempre più visibile.
A guidare l’esercitazione iraniana è stata la Divisione “Ashura” dei pasdaran, le Guardie Rivoluzionarie Islamiche, le stesse che nel 2022 avevano già messo in scena un’esercitazione a ridosso del confine armeno costruendo ponti temporanei sul fiume Arax. Un’unità d’élite, ben armata e ben motivata, che rappresenta la parte più ideologicamente strutturata delle forze armate iraniane. L’invio di tale divisione, accompagnato dalle dichiarazioni solenni del generale Valiollah Madani e del comandante Morteza Mirian, conferma che l’Iran non vuole limitarsi a ruoli simbolici: intende essere presente, visibile, militare.
Le esercitazioni hanno incluso operazioni simulate contro “gruppi terroristici” — un concetto volutamente vago, che nella grammatica geopolitica moderna può includere milizie islamiste, forze speciali azere o proxy armati di qualsiasi genere. Ma l’obiettivo è chiaro: rafforzare il controllo del territorio, inviare un messaggio di deterrenza, e consolidare un’alleanza che si sta trasformando da diplomatica a operativa.
Il tempismo dell’operazione non è irrilevante. Proprio mentre a sud dell’Armenia si svolgeva la manovra congiunta con Teheran, in Azerbaigian si incontravano delegazioni militari israeliane e turche per discutere della deconfliction in Siria. Israele ha recentemente colpito basi aeree in territorio siriano nel timore che la Turchia possa consolidare una presenza militare stabile nella regione. Tel Aviv e Ankara, nonostante le frizioni storiche, stanno costruendo un asse di fatto nel Caucaso e nel Medio Oriente. Un’alleanza fatta di tecnologia, droni, intelligence e convergenze tattiche.
In questo contesto, l’Armenia si ritrova a essere, ancora una volta, pedina e spettatrice, ma anche potenziale detonatore di tensioni più grandi. Dopo l’allontanamento da Mosca, segnato dal gelo nei rapporti con l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), Erevan ha cercato sponde alternative: Teheran, certo, ma anche Parigi e Bruxelles. Ma i margini di manovra sono ristretti. E proprio per questo l’alleanza militare con l’Iran assume un valore vitale, forse inevitabile.
Proprio mentre i militari si addestravano al confine, i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian si incontravano ad Antalya per discutere l’accordo di pace che dovrebbe chiudere formalmente un conflitto che dura da oltre quarant’anni. I toni pubblici sono concilianti, ma gli attriti lungo la frontiera raccontano un’altra storia. L’Azerbaigian insiste per la modifica della Costituzione armena, l’eliminazione del Gruppo di Minsk e una piena accettazione della sovranità azera sul Karabakh. L’Armenia parla di apertura delle frontiere, progetti energetici comuni e normalizzazione, ma chiede garanzie, interne ed esterne, che non arrivano mai.
Nel frattempo, ogni esercitazione militare, ogni dichiarazione, ogni accordo parallelo contribuisce a spostare il baricentro del Caucaso. L’Iran si mostra sempre più assertivo, deciso a non lasciare il campo alle manovre turche e israeliane. L’Armenia, isolata e vulnerabile, si aggrappa a ciò che resta di un equilibrio precario, consapevole che le partite vere si giocano altrove: nei cieli di Siria, nei corridoi di Bruxelles, nei laboratori strategici di Tel Aviv, nei comandi di Baku.
Il Caucaso, ancora una volta, si conferma per ciò che è sempre stato: non un crocevia, ma un campo di battaglia di lungo periodo, dove ogni passo verso la pace è anche un passo in più sul terreno minato della geopolitica globale.