di Giuseppe Gagliano –
Julian Assange è libero. Dopo mesi di trattative sottobanco il giornalista australiano ha accettato di dichiararsi colpevole per uno dei tanti reati di cui lo ha accusato la giustizia degli Stati Uniti, 62 mesi di carcere, peraltro già scontati, rispetto ai 175 anni prospettati per cospirazione. Il caso Assange è sempre stato quello di Davide contro Golia, quello della liberà vera contro la libertà teorica e enfatizzata dalla retorica di una nazione che tanto libera non è, dove la verità va bene finché non dà fastidio a chi comanda, dove il giornalista può fare il suo lavoro ma non fino in fondo.
Assange insomma è per i sui 14 anni di calvario giudiziario, inclusi quelli passati nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e i cinque nelle carceri britanniche, la Politkovskaja della Casa Bianca.
Il 52enne Assange, il cui vero nome è Julian Paul Hawkins, ha avuto una vita travagliata per aver diffuso nel 2010, attraverso l’organizzazione da lui co-fondata WikiLeaks, 700mila documenti secretati, ricevuti dalla ex militare Chelsea Manning, riguardanti le torture, gli abusi e i crimini di guerra compiuti da militari statunitensi durante la guerra in Iraq.
Rifugiatosi nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire agli arresti e alla conseguente estradizione, Assange rimase, protetto dall’allora presidente Rafael Correa Delgado, nell’edificio della rappresentanza diplomatica per sette anni, fino a quando nel 2017 il nuovo presidente dell’Ecuador Lenin Moreno gli sospese la cittadinanza e fece entrare nell’edificio gli agenti britannici per arrestarlo.
Da allora venne detenuto nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, e si oppose alla decisione della Westminster Magistrates’ Court di Londra di estradarlo negli Usa.
Perso il primo grado, i suoi legali andarono in appello fino al marzo di quest’anno, quando i giudici Victoria Sharp e Adam Johnson fissarono la nuova udienza di oggi ritenendo non infondati i timori della difesa per la vita del giornalista se estradato negli Usa.
La difesa di Assange si è sempre basata sulla libertà di espressione e sul fatto che gli Usa avessero messo in piedi una vera e propria “persecuzione” nei confronti della sua attività giornalistica, ovvero per aver divulgato l’indivulgabile in quei 700mila documenti che provavano i crimini di guerra di coloro che raccontavano di essere in Iraq per “portare pace e democrazia”.
Candidato al Nobel per la Pace, è stato insignito di diversi premi tra cui il Premio Sam Adams, la Medaglia d’oro per la Pace con la Giustizia dalla Fondazione Sydney Peace e il Premio per il Giornalismo Martha Gellhorn. A chiedere la sua liberazione diverse organizzazioni per i diritti civili ed esponenti della società civile di diversi Paesi europei, ma anche il Consiglio d’Europa e il relatore Onu sulla tortura Nils Melzer.
La decisione di Assange di dichiararsi colpevole di aver ottenuto e divulgato documenti riservati della difesa nazionale degli Stati Uniti ha tuttavia implicazioni profonde per la libertà di stampa. Mentre alcuni vedono questo come un compromesso necessario per porre fine alla lunga detenzione di Assange, altri temono che possa stabilire un pericoloso precedente per il trattamento dei giornalisti e degli informatori. I sostenitori della libertà di stampa temono che la condanna di Assange, anche se su un’unica accusa, possa avere un effetto negativo sulla pratica del giornalismo investigativo e sulla capacità dei media di tenere i governi responsabili.
La reazione della comunità internazionale a questo sviluppo sarà cruciale. Da un lato c’è un senso di sollievo tra i sostenitori dei diritti umani e della libertà di stampa che vedono la fine della detenzione di Assange come una vittoria per i diritti umani. Dall’altro lato ci sono preoccupazioni che l’accordo possa essere percepito come una sconfitta per la giustizia e l’integrità del sistema legale, in particolare per coloro che credono che Assange abbia agito nell’interesse pubblico.
L’accusa di aver divulgato documenti riservati della difesa nazionale degli Stati Uniti sottolinea l’inconciliabilità tra la sicurezza nazionale e la libertà di informazione. L’ex vicepresidente Mike Pence ha criticato l’accordo, affermando che rappresenta un’ingiustizia per chi mette in pericolo la sicurezza nazionale. Questo dibattito riflette le sfide continue che le democrazie affrontano nel bilanciare la sicurezza nazionale con i diritti fondamentali dei cittadini.
In conclusione, il patteggiamento di Julian Assange con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti è un evento di grande importanza, ma se pone fine a una lunga e controversa saga, solleva anche nuove domande e preoccupazioni sulla libertà di stampa, i diritti umani e la sicurezza nazionale. Le reazioni internazionali e il modo in cui questo caso influenzerà le future politiche e pratiche giornalistiche saranno monitorati con attenzione.