di Domenico Maceri * –
“Vogliamo restituire l’infanzia ai giovani australiani. Vogliamo ridare serenità ai genitori”. Con queste parole il primo ministro Anthony Albanese ha giustificato una nuova legge in Australia che vieta l’accesso alle piattaforme online ai minori di 16 anni.
La nuova legge, approvata in maniera bipartisan, mira a mitigare l’impatto dei social alla salute mentale dei giovani. I social sono considerati dalla legge come luoghi di “ansia” e alcuni persino “uno strumento per predatori online”. Entrerà in vigore tra 12 mesi per dare tempo alle piattaforme di sviluppare metodi ragionevoli per implementarla. Include multe salate di un massimo di 50 milioni di dollari australiani per quelle piattaforme che non rispetteranno la legge. La verifica dell’età potrebbe divenire un ostacolo e non si escludono giovani che riusciranno a raggirare la legge. L’uso di un Virtual private network (VPN) potrebbe essere una strada per confondere la piattaforma sull’origine dell’account, facendo apparire l’utente come residente fuori dell’Australia.
Altri Paesi si sono mossi nella stessa direzione australiana o lo stanno facendo. In Francia il divieto dei social si applica ai minori di 15 anni, ma secondo alcuni calcoli la metà dei giovani riesce a raggirarlo. In America uno di questi divieti è stato considerato incostituzionale. Ciononostante altri Paesi in Europa come la Norvegia e la Gran Bretagna stanno studiando il problema e potranno seguire la strada dell’Australia in breve tempo.
La protezione dei giovani è ovviamente importante, ma le piattaforme sono divenute uno strumento sfrenato di disinformazione politica usato con grande efficacia dalla destra. L’esempio più ovvio negli Usa è quello di X (già Twitter) di Elon Musk. Musk ha contribuito notevolmente con soldi, ma specialmente con numerosissimi tweet, per aiutare Trump alla conquista del suo secondo mandato. Un’analisi del Washington Post informa che il padrone di X ha attaccato Kamala Harris, l’avversaria di Trump, numerosissime volte usando persino immagini e video generati con intelligenza artificiale. Musk ha propagato teorie di cospirazione sulla frode elettorale, dichiarando che i democratici avrebbero voluto le frontiere aperte perché i nuovi arrivati avrebbero votato contro Trump. Quasi il 40% dei post di Musk nei mesi di ottobre e novembre hanno infuocato la politica elettorale e sono stati visionati 133 miliardi di volte dal mese di luglio. Difficile sottovalutare l’impatto considerando anche che i follower di Musk sono quindici volte quelli di Trump nella sua piattaforma Truth Social.
Non sorprende dunque che Musk abbia attaccato la legge australiana come un modo indiretto per controllare l’uso dell’internet. Albanese ha giustamente risposto che Musk ha la “propria agenda”.
L’agenda di Musk è ovviamente quella dell’estrema destra che non vuole nessun freno alle piattaforme sotto la maschera della libertà di parola. Questo diritto teoricamente democratico esiste nelle piattaforme, ma viene mitigato nei media tradizionali. Se le piattaforme non devono seguire le regole dei media tradizionali possono però promuovere quello che vogliono, o almeno quello che vogliono i loro padroni. Si tratta di un eccessivo potere che continua a ridimensionare l’influenza dei media tradizionali, vulnerabili anche alla diffamazione. Il recente caso della Abc, che ha riconosciuto la colpa di avere diffamato Trump, lo conferma. Trump da parte sua non solo ha cantato vittoria, ma continuerà a denunciare altri media. Difatti ha appena annunciato una querela al Des Moines Register, il giornale più importante dell’Iowa. La ragione? Il giornale ha pubblicato un sondaggio della rispettabilissima sondaggista J. Ann Selzer poco prima dell’elezione, che vedeva Kamala Harris avanti di 3 punti su Trump. Nella sua denuncia Trump accusa la Selzer di “sfrontata interferenza elettorale”, poiché alla fine lui vinse con un margine di 15 punti.
Nessuna denuncia di diffamazione però contro Trump per il suo ferocissimo attacco al giudice Juan Merchan nel caso del processo sui pagamenti illeciti alla pornostar Stormy Daniels nel 2016. Va ricordato che Trump fu condannato per 34 capi di accusa nel mese di maggio 2024, la prima volta per l’allora candidato repubblicano ed ex presidente. Merchan avrebbe dovuto sentenziare Trump mesi fa, ma ha tentennato. Recentemente però ha deciso di non accogliere la richiesta di Trump di archiviare il caso a causa dell’immunità presidenziale concessagli dalla Corte suprema per atti ufficiali. Merchan ha chiarito che gli eventi del caso avvennero quando Trump era ancora un semplice cittadino e non era coperto da nessuna immunità. Trump ha reagito accusando il giudice di essere “corrotto, psicotico, radicale, e completamente irrispettoso della costituzione americana”. Libertà di espressione o parole che meriterebbero una denuncia di diffamazione?
Le piattaforme fino adesso si sono comportate in maniera totalmente irresponsabile e meritano di essere regolate. Gli statunitensi sono preoccupati della disinformazione, come conferma un sondaggio del Tech Policy Press/YouGov di quest’anno. Il 65% vede la disinformazione come un problema, e il 71% crede che le piattaforme dovrebbero fare molto di più per prevenire le falsità. Le piattaforme però si sono comportate in maniera irresponsabile. Ci vogliono arbitri, ma negli non se ne parla. Il bando dell’Australia ai minori di 16 anni è un piccolissimo passo avanti, ma completamente insufficiente agli abusi e irresponsabilità delle piattaforme, specialmente nelle mani di tipi come Musk e Trump.
* Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.